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Michela – Il bisogno di raccontare

di Michela Giordano

Ho deciso di “fare” la giornalista quando avevo 13 anni: mia nonna, dalla quale ascoltavo, ogni sera, rapita, emozionanti memorie di guerra, sosteneva che Mussolini fosse stato ucciso da suo genero, il conte Ciano. Un errore storico che cercai di correggere, documenti alla mano.

Non dimenticherò mai la sua espressione quando le mostrai le foto di piazzale Loreto, che proprio in quei giorni avevo trovato in un fascicolo allegato al “Corriere”. Mi chiese, mia nonna, di leggerle il testo: lo feci con entusiasmo, ma lei, che a stento sapeva leggere e scrivere, non capì quasi nulla. Cercai, allora, di “tradurre” in un linguaggio semplice, che le fosse chiaro e che le fugasse ogni dubbio. Una folgorazione. Da quel giorno sono stata una giornalista. Da allora sono trascorsi 22 anni. Mia nonna non c’è più e chissà se, da dovunque si trovi, sa quanta “responsabilità” ha avuto e ha nella mia scelta professionale: raccontare fatti senza sforzi di paroloni, con un linguaggio semplice, comprensibile a tutti. Come quel pomeriggio, davanti alle foto di piazzale Loreto.

Scrivo per passione, con una predilezione per la “nera”. Non solo sangue, però. Negli anni, ho imparato che dietro ogni reato c’è una storia da raccontare, un soggetto da descrivere, una vittima da ricordare. Perfino dei colpevoli, o dei presunti tali, ho imparato, a fatica, a provare rispetto, cercando di usare il garbo della verità privo della spietatezza del giustizialismo. Una lezione che ho applicato a tutto tondo, nella mia avventura con la penna: partendo da una scommessa con me stessa, ho arricchito la mia “produzione”. L’ho fatto con un testo teatrale, “a fetenzia”, che racconta di un giovane della mia terra, cuoco e sindacalista, ucciso, quasi 40 anni fa, da mani e per motivazioni che restano tutt’ora ignote e con un libro, Quando rimasero soli, edito da Paoline, che parla di Emanuele Basile e Mario D’Aleo, capitani dei Carabinieri, assassinati dalla mafia nel 1980 e 1983. Ho approcciato le loro storie con la delicatezza e il coinvolgimento emotivo che mi derivano dal mio vivere quotidiano accanto ad un uomo, mio marito, che indossa anche lui, con orgoglio, una divisa: ogni giorno, insieme, scegliamo di percorrere la strada, difficile, della responsabilità verso il mondo che ci circonda: niente di stratosferico, piccole cose, che, di certo, non lasceranno segni nella storia dell’umanità, ma che, speriamo, renda la nostra personale storia, di singoli e di coppia, meritevole di essere stata.

Il mio prossimo obiettivo professionale è fare il bis come scrittrice. Il soggetto ce l’ho: la fatica di aspettare con serenità un figlio, quando la natura ha deciso che non puoi partorirlo; il percorso dell’adozione, tra lacrime e sorrisi. Per una sorta di scaramanzia, aspetto di avere un frugoletto per casa, prima di cominciare a scrivere. Fino ad allora annoto, giorno dopo giorno, gli spunti che derivano dalla mia “attesa”.




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