Storie

Laura: “Affido a Dio chi mi ha sparato”

Croce

di Ida Giangrande

“Non ho mai pensato con odio a lui. Non ho nutrito spirito di vendetta nei suoi confronti, né lo giudico”: sono le parole di Laura Salafia per l’uomo che sparandole l’ha costretta alla Tetraplegia, un giorno qualunque, mentre usciva dall’Università.

È questioni di pochi istanti, un battito di ciglia, una folata di vento improvvisa, il fischio di un proiettile impazzito che sfreccia nell’aria e colpisce fatalmente la vita di Laura Salafia.

Catania 2010. Laura è una studentessa universitaria, iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Ha superato brillantemente il suo ennesimo esame, si avvia all’uscita del dipartimento, quando varcata la soglia che la separa dalla sua nuova vita, ecco che il proiettile di una pistola, esploso durante una lite, le centra in pieno alla schiena. La giovane si accascia, intorno c’è gente che urla, qualcuno scappa e poi l’ambulanza, le sirene spiegate, immagini dai contorni sbiaditi di mani che tentano in tutti i modi di strappare la sua vita alla morte.

È questione di pochi istanti. Pochi istanti in cui tutto ciò che era di colpo svanisce e inizia un calvario nei meandri della sofferenza umana, in quella dimensione senza un perché dove tutto sembra essere spento e ingiusto.

I medici fanno di tutto per salvarla, eseguono i primi interventi chirurgici e subito dopo arriva la sconcertante diagnosi: Tetraplegia. Il proiettile si è conficcato nella spina dorsale, paralizzandola dal collo in giù. La sentenza è impietosa: Laura è condannata a restare su una carrozzina, senza la possibilità di muovere nulla se non la testa.

Il trasferimento all’unità spinale di Montecatone nei pressi di Imola è immediato, seguono 18 mesi di ospedalizzazione e di ventilazione meccanica. Poi, un nuovo trasferimento. Questa volta all’unita spinale unipolare dell’ospedale Cannizarro di Catania. Tre anni di degenza. Tre anni come nove mesi di gravidanza, per rinascere a vita nuova, perché si formi in lei una nuova identità forse più forte e tenace di prima.

Quello che sembra essere un traguardo si rivela invece un nuovo calvario. L’ambiente fuori dall’ospedale non è più in grado di accogliere Laura. Bisogna adottare sistemi adeguati alla sua nuova condizione e adattare le infrastrutture a supportare le esigenze del suo corpo offeso. Tutto sembra essere perduto, inghiottito in quell’attimo disperato dove ogni sogno, ambizione o radiosa prospettiva è stata risucchiata in un vortice buio segnato dall’incertezza e dalla sofferenza. Ma c’è un confine oltre il dolore, quasi invisibile ad occhio umano. Coloro che hanno la forza di avvicinarsi tanto da poterlo scorgere, sono molto lontani dalla normalità e forse per questo anche gli unici in grado di ritrovare il senso della vita e delle cose, che Dio aveva concepito ai primordi dell’umanità: un raggio di speranza al di là della capacità fisica, al di sopra delle abilità corporee. Benché quel corpo senza vita sembra essere un peso da trascinare, nella fede Laura trova la forza necessaria a portarlo con dignità e vigore, come quella croce che Gesù abbraccia nel dolore, perché da altare di morte si trasformi in un canto di lode al Creato.

Lottare e combattere, soffrire per poi rialzarsi: è questo il motivo  che scandisce i suoi giorni, un ritornello che si ripete senza sosta. Quella di Laura non è un’esistenza che si accontenta di trascinarsi, di annaspare per sopravvivere. Lei vuole vivere, nonostante tutto. Riprende gli studi, utilizza un joystick per “guidare” col mento la sedia a rotelle. Grazie agli infrarossi riesce ad usare il computer e continua a coltivare i suoi sogni. È inchiodata ad una croce “a rotelle”, ma la sua vitalità supera ogni aspettativa, collabora con un quotidiano siciliano scrivendo con un particolare programma vocale. Incontra i ragazzi nelle scuole o in ogni altro luogo di aggregazione giovanile per parlare loro del perdono, della speranza e del valore delle piccole cose, le più ordinarie e scontate.

A quanti le chiedono cosa provi nei confronti dell’uomo che un giorno le ha puntato contro un’arma sparandole, dice: «Non ho mai pensato con odio a lui. Non ho nutrito spirito di vendetta nei suoi confronti, né lo giudico, perché non devo essere io a farlo. Perdonare non è facile, sulla terra ci sono i tribunali e in Cielo c’è Dio a cui affido il perdono anche di colui che mi ha sparato».

Perché la vita è l’espressione di un mistero ed una sola cosa è inguaribile: la voglia di vivere.




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3 risposte su “Laura: “Affido a Dio chi mi ha sparato””

Come si può non odiare chi in un baleno ti cambia la vita rendendola apparentemente inutile? Ma riflettendoci quello di Laura non è il primo caso in cui non si odia ma viene addirittura invitato il buon Dio a perdonare il responsabile. L’unica spiegazione umana è che sicuramente, dopo aver superato il periodo iniziale più o meno lungo, si riesce a farsene una ragione, guardando la croce dove LUI ha accettato di essere crocifiso per il bene dell’umanità; allora perché non percorrere quelle traccia di sofferenza che verrano lette come ATTO DI AMORE che darà speranza e forza a coloro che ne hanno più bisogno? Esempio di vita di grande valore che suscita commozione e stima. Grazie Laura.

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