XIII Domenica del T. O. – Anno B

Fidarsi di Gesù per risorgere dalle nostre morti

di fra Vincenzo Ippolito

Le nostre famiglie devono riscoprire la bellezza della gestualità che nasce dall’amore. Il toccare e l’abbracciare, lo stringere ed il baciare l’altro non devono mai richiamare il gesto di Eva che allungò la mano e si appropriò del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Vangelo (Mc 5, 21-43)

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.

Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».

Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.

Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talitàkum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.


Commento

La Liturgia della XIII Domenica del Tempo Ordinario ci offre, come pagina evangelica per nutrire la nostra fede, la storia di due donne, risanate da Gesù nel corpo e nel cuore. Si tratta di una narrazione che mostra la bellezza del discepolato al femminile nei Vangeli, racconti che spesso passano inosservati e che, a bene vedere, sono delle perle nascoste nelle pagine dove i discepoli – uomini – fanno sempre la parte dei leoni.

Nel cammino non siamo soli

Siamo passati al capitolo quinto del Vangelo secondo Marco. Dopo la tempesta sedata (Vangelo della scorsa Domenica, Mc 4,35-41), saltando la liberazione dell’indemoniato di Geresa (cf. Mc 5,1-20), la Chiesa ci offre la narrazione delle guarigioni operate da Gesù nel suo peregrinare in Galilea. L’evangelista costruisce con cura il racconto trasmessoci nei versetti 21-43. Il Maestro è ritornato lì dove aveva congedato la folla (cf. Mc 4,35) e nuovamente, lungo il mare si ferma mentre molti accorrono a Lui. Tra questi, uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, si avvicina, si prostra ai suoi piedi e lo supplica: sua figlia sta morendo, «vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc 5,23). Giàiro è ormai allo strenuo delle forze. La sua preghiera nasce da un’angoscia mortale che lo sta consumando dentro. Chiede la salvezza non per lui, per la sua figlia, domanda la vita, il dono dei doni senza il quale nulla si può godere su questa terra. E Gesù, dinanzi a questa richiesta – scrive Marco in maniera asciutta – non dice nulla, si dirige a casa di quell’uomo che lo ha pregato con tanta insistenza, seguito dalla folla e dai suoi discepoli. Mentre è in cammino,un’altra donna sperimenta la guarigione operata, in maniera istantanea,dal Figlio di Dio fatto uomo. È questa la tecnica narrativa “dell’incastro”, un racconto ne contiene un’altro, come le scatole cinesi, la più grande ne comprende altre più piccole. E così viene aperta una parentesi nel primo racconto che, senza interrompere il flusso della narrazione, serve a rafforzare la fede di quel padre che ha riposto in Gesù tutte le sue speranze.

La nostra vita è legata, in maniera misteriosa, a quella dei nostri fratelli, come la professione della nostra fede richiama l’esperienza che altri fanno di Gesù nella sua Chiesa. Non siamo soli nel cammino, ci sosteniamo nella prova, ci consoliamo nel dolore, gli uni prendono insegnamenti da quello che altri hanno vissuto ed insieme si vive nella fede del Figlio di Dio che ci ha amati e ha dato se stesso per noi (cf. Gal2,20). In questo modo comprendiamo anche la rete di rapporti che siamo chiamati a vivere in famiglia e tra le famiglie, all’interno di una comunità ecclesiale. Il dramma della mia vita personale, Gesù lo risolve nella difficoltà dell’altro ed io cresco nella fede vedendo come il Maestro opera la salvezza di chi, come me ha bisogno di Lui. Il marito cresce guardando come la vita della sua sposa è stata toccata dalla grazia di Dio ed i figli crescono nella percezione della potenza del Redentore attraverso la vita dei genitori, misteriosamente abitata dal Signore. Ecco il senso dei gruppi di famiglie che si incontrano intorno a Gesù. L’esperienza dell’una illumina l’altra e il riflettere su come il Risorto ha guarito la vita di una coppia diviene stimolo perché altri, nella prova, non si sentano abbandonati, ma confidino in Cristo, lo supplichino con tutto il cuore, si sentano parte della grande famiglia di famiglie che è la Chiesa.

La salvezza nasce da piccoli gesti di fede

Seguendo la narrazione di Marco, notiamo che le luci per un attimo si spengono sull’esperienza di Giàiro e sul dramma della sua casa. L’attenzione è invece rivolta ad una donna, passata alla storia come l’emorroissa, per il flusso di sangue cha la rende impura agli occhi di Dio – almeno così diceva la Legge – e degli uomini. La difficoltà che la angoscia non le dà pace e l’Evangelista lo fa intendere facilmente, nel suo stile scarno e diretto “aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio”(Mc 5,23). Il dolore della donna non è minore rispetto a quello di Giàiro: anche lei vive la morte, una morte che nessuno vede, ma che segna da anni il suo corpo. Incapace di unirsi ad un uomo per vivere nella carne la promessa della discendenza che Dio concedeva ai figli d’Israele, non riesce a contenere in sé la vita sua e di essere sorgente di vita e di amore per gli altri. A questa morte – chiara a lei sola – si unisce quella sociale, perché le sue continue perdite di sangue rendono impura lei e quanti si accostano a lei. Morta nel corpo, morta nelle relazioni sociali, si fida solo del Dio misericordioso, di Gesù, il medico che ricerca gli ammalati, venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori (cf. Mc 2,17). L’emorroissa è la personificazione del coraggio perché, anche se nella grammatica italiana il sostantivo è maschile, il coraggio è donna, solo una donna riesce ad osare spinta più dalla forza interiore e dalla sensibilità sua che dalla fredda razionalità. Fidandosi del suo sesto senso rischia – è questa un’arte che tanti di noi devono ancora imparare nelle relazioni, continuamente vinti dalla paura di perdere qualcosa di sé, dimentichi che solo chi perde la vita per Cristo la ritrova! – ormai non ha più nulla da perdere e come la vedova, getta su Cristo le ultime monete della sua speranza, credendo che cadano – così infatti avviene – nel tesoro di Dio che, come un vaso, raccoglie le nostre lacrime. La donna sente parlare di Gesù e si fa strada tra la folla. Non desidera incontrarlo neppure parlargli; non vuole il suo sguardo, né la sua attenzione. Come la Cananea, l’emorroissa non chiede nulla, è disposta ad accontentarsi delle briciole che cadono dalla mense del Padrone, non si leva con superbia il suo sguardo e non va in cerca di cose vane superiori alle sue forze (cf. Sal 130,1). Ed è qui la sua grandezza, nel riconoscere la potenza di Dio nei semplici gesti della sua vita. Le basta, infatti, toccare, sì semplicemente toccare il mantello, la veste del Signore. “Se il mantello di Elia ha strappato Eliseo dalla cura dei beni terreni e lo ha reso profeta, se quello stesso mantello, battuto sulle acqua del Giordano, ha ripresentato i prodigi del Mar Rosso perché si potesse passare all’asciutto, cosa maiopererà la veste del Signore se potrò almeno toccarla, lambirlafosse anche con un dito”, avrà pensato quella donna, ormai consumata nel corpo e nel cuore. Stende la mano e tocca la veste“e subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male” appunta l’evangelista Marco (5,29). Una forza divina è uscita da Gesù ed egli se ne accorge. Il toccare di quella donna è particolare ed il Maestro lo percepisce bene. La sua non era la mano di chi si appropriava di un bene altrui né di chi vuole qualcosa solo per sé. La grazia di Dio in Gesù è per tutti – quanti lo avranno toccato nei tre anni di vita pubblica! – ma pochi sono gli eletti perché è la fede che sostiene la speranza e che si traduce in gesti di operosa carità. Dio guarisce chi ha fede. È la fede del discepolo che lo salva. Solo la fede sposta le montagne, spingendo a credere che un gelso può essere trapiantato nel mare. E Dio obbedisce a chi ha fede, non riesce a chiudere il cuore ai bisogni di chi confida nella potenza del suo amore. L’emorroissa chiede di sperimentare, attraverso un gesto semplice, la salvezza e viene esaudita. Ritorna ad essere donna – non è più emorroissa, ma donna perché il Signore, con la guarigione, le ha restituito la sua dignità di membro del popolo d’Israele – e ora può confidare a Gesù la sua vita senza pura o vergogna.

Le nostre famiglie devono riscoprire la bellezza della gestualità che nasce dall’amore. Il toccare e l’abbracciare, lo stringere ed il baciare l’altro non devono mai richiamare il gesto di Eva che allungò la mano e si appropriò del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Quante volte le nostre mani si aprono per stringere l’altro in una morsa che lo rende schiavo! Quanto spesso i gesti dell’amore nascondono la ricerca di un piacere che obbedisce non al bene, ma al flusso della passione che abita nel nostro corpo! L’emorroissa ci insegna che ogni gesto, anche quello che può apparire il più semplice e banale, deve nascere non dalla volontà di pretendere qualcosa dall’altro, ma dalla fiducia in lui e dal sapere che l’altro mi può guarire grazie alla semplice potenza dell’amore che passa attraverso il mio toccarlo. Come il Padre guarisce dell’emorroissa attraverso l’umanità santa del Redentore, così il Signore mi incontra e mi guarisce, mi sana e mi salva attraverso la corporeità dell’altro. La sposa per lo sposo, il marito per la moglie, nella grazia del sacramento nuziale sono l’uno per l’altro sacramento della presenza del Signore. Dio mi guarisce attraverso l’altro se lo cerco con fede, se riconosco che la sua carne è per me sacramento di Gesù. Nel corpo dell’altro io incontro Cristo per me perché Dio ha scelto come segno preferenziale della sua presenza la vita della persona che mi sta accanto, tutto di lui, il suo corpo ed il suo cuore, la sua mente e le sue mani, le sue parole e i suoi sentimenti. Io non posso scappare da lui perché questo significherebbe andare via dal “mio Gesù” e non godere della presenza misteriosa, ma reale del Risorto nella carne dell’umanità e fragilità della persona che mi sta accanto.

È bello notare che la donna del Signore lambisce il solo mantello. Questo è vero anche per gli sposi. Per quanto il sacramento li renda una carne sola, ci sono momenti in cui dell’altro ho solo il mantello, perché la sua interiorità mi sfugge, i suoi impegni per il bene della famiglia lo portano altrove, la sua vita è presa da mille cose. È necessario accogliere dell’altro ciò che egli è disposto a donare, con pazienza ed amore, ed offrire all’altro, nei momenti di buio la delicatezza di una mano che è presenza e richiesta discreta, ma reale di amore offerto e cercato sempre.

La mia famiglia sperimenta la grazia di Gesù nel mantello logoro e sporco della mia comunità, del mio gruppo famiglia, del mio sacerdote che spesso non ha tempo per ascoltarmi e che, continua a spezzare con me sull’altare di Dio il Pane che ci alimenta e la Parola che ci sostiene. La famiglia deve vivere questa mediazione salvifica al suo interno e con l’esterno. E così entrando in questa dinamica il pane ed il vino, la parola e l’acqua del battesimo, l’olio del crisma e la vita dell’altro sono le vie che Dio percorre per arrivare alla mia famiglia e donare a tutti la vita e la salvezza.

Ogni famiglia – la narrazione evangelica della resurrezione della fanciulla dodicenne lo fa comprendere ancor meglio – passa dal dolore alla gioia, dal pianto al sorriso attraverso la presenza di Gesù che è il Signore della vita. Solo al sua mano strappa dal potere delle tenebre e restituisce la gioia della vita nell’amore e nel dono. Troppo spesso le nostre case sono le dimore della morte perché il buio del cuore impedisce di vivere e di crescere. Dove Cristo non entra, si vive nella morte perché solo Lui dona la luce della vita che discende dal Padre. Bisogna entrare nella stanza interiore dei nostri rapporti insieme con Gesù per guardare in faccia la morte che ci portiamo dentro ed essere così guariti insieme come coppia e famiglia, come succede a Giàiro e a sua moglie. Ogni coppia deve far entrare Gesù nel proprio mondo perché la sua voce forte richiami alla vita l’amore che spesso, come la brace, è coperto dalla cenere.

Se, al pari della donna, non abbiamo l’ardire di lambire il suo mantello con le nostre mani, il Signore ci conceda di accogliere la sua presenza nella nostra famiglia perché la sua mano ci raggiunga e ci risusciti alla vita nuova dell’amore.




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