Sinodo sulla famiglia

Non spegnete la luce

sposi

di Silvio Longobardi

Come tutti, anch’io guardo con speranza al Sinodo. Mi auguro perciò che sappia dire una parola di speranza per quegli sposi che, non senza fatica, hanno imparato a custodire l’amore, senza cedere alle spinte più individualistiche.

Nel romanzo Cose che nessuno sa, di Alessandro D’Avenia, c’è un dialogo tra Andrea (5 anni) e Margherita (14 anni), fratello e sorella. Il bambino dice che nel buio appaiono i mostri che non si vedono quando c’è la luce. “Ci sono molti mostri qui a casa?”, chiede Margherita. “Adesso sì, perché prima la luce di papà e mamma li teneva tutti lontani”. “Ed ora?”. “La luce è fulminata”, risponde il piccolo. Il papà aveva abbandonato la casa. Questo dialogo coglie il dramma che si annida in molte case, anche in quelle in cui i genitori non si sono separati. È l’amore coniugale la luce che allontana la paura. Se viene a mancare, la vita appare come una strada in salita.

Ancora il Sinodo, ancora riflettori puntati sulla famiglia. L’evento è stato preceduto da una veglia di preghiera che ha raccolto, in piazza San Pietro, attorno a Papa Francesco, migliaia di famiglie provenienti da ogni parte del nostro Paese. A tutte le altre famiglie la Chiesa italiana ha chiesto invece di accendere una luce quella sera. Un piccolo segno di quella speranza che mai deve abbandonare i credenti, anche nelle situazioni che appaiono più difficili. Le famiglie sono consapevoli dei problemi, anzi tante volte sembrano arrancare, ma non vogliono rinunciare a tenere accesa, costi quel che costi, la luce dell’amore perché sanno che senza questa testimonianza la società diventa ancora più vuota.

Come tutti, anch’io guardo con speranza al Sinodo. Mi auguro perciò che sappia dire una parola di speranza per quegli sposi che, non senza fatica, hanno imparato a custodire l’amore, senza cedere alle spinte più individualistiche; e per tutti coloro che, senza misurare i sacrifici, hanno vissuto l’accoglienza della vita con una generosità davvero eroica. Spero che dal Sinodo giunga un saluto tutto speciale rivolto a coloro che hanno figli straordinari ed hanno perciò bisogno di un amore straordinario per accompagnarli lungo i sentieri della vita. Vorrei anche che donasse una parola di consolazione per quegli sposi che vivono la vedovanza come un’altra e feconda stagione dell’unico amore; e per quei genitori che sono rimasti feriti ma non schiacciati dalla perdita di un figlio.

A tutti questi sposi, testimoni fedeli dell’amore, e a tutti gli altri coniugi che sperimentano la fatica e la precarietà del matrimonio, la Chiesa ha il dovere di dire che la fedeltà è dono di Dio ed è il frutto della fede che sa invocare e accogliere quell’amore che Dio non si stanca di donare. È questo l’annuncio che attendiamo dal Sinodo, è questa la parola che deve risuonare. Solo la fede ha la forza di sconfiggere il mondo, dice l’apostolo Giovanni. Perché non torniamo a questa sapienza antica e pur sempre capace di scrivere parole nuove nella storia? Questa parola oggi non è più scontata. Forse per questo abbiamo paura di proporre ideali grandi e corriamo la tentazione di arrenderci alla precarietà, anzi di santificare la precarietà come uno stato di vita. Noi invece non ci stanchiamo di tenere accesa la luce della fede e, grazie ad essa, di custodire la verità dell’amore.




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