III Domenica di Avvento – Anno C

A volte basta un sorriso per aprire il cuore in famiglia

sorriso

di fra Vincenzo Ippolito

Nell’arena della contese familiari non ci sono vincitori e vinti, perché tutti sono perdenti quando non ci si riesce a capirsi. L’ascolto inizia con l’accoglienza dell’altro, con un sorriso che lo faccia sentire amato e rassicurato, facendogli capire che le sue parole sono importanti, sono segno d’amore.

Dal Vangelo secondo Luca (3,10-18)

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».

Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».

Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».

Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.


Stiamo contemplando le stelle, nel buio delle quattro settimane d’Avvento, tempo vissuto come una notte sola. Il cuore è gravido di speranza e mentre la voce della Chiesa intona il suo “Maranatha! Vieni, Signore Gesù!”, le tenebre sembrano diradarsi pian piano, permettendo alle prime luci dell’alba di far crescere la letizia perché presto ci sarà la luce. La gioia della nascita del Redentore non è ancora piena, ma già se ne percepisce la bellezza che, come luce tenue, d’intorno si effonde. È questa la domenica “della gioia” – in latino “Gaudete” dalla prima parola dell’antifona d’ingresso che riprende la seconda lettura odierna (Fil 4) – nella quale ciascun credente è invitato a sperimentare, alla scuola di Giovanni il Battista, quanto sia esigente la gioia riservata a chi accoglie la buona Novella del Signore.

Lasciamoci rischiarare nell’intimo dalla Parola di Dio per entrare nel mistero della gioia e vivere nelle nostre famiglie la perfetta letizia della comunione piena con il Signore che viene.

La capacità di far nascere domande …

Banditore e testimone della gioia evangelica è Giovanni, il figlio di Zaccaria ed Elisabetta. Continua, infatti, la lettura del capitolo terzo del Vangelo secondo Luca – la liturgia salta alcuni versetti (7-9) dopo quelli letti la scorsa domenica (cf. Lc 3,1-6) – in gran parte dedicati al ministero del Precursore. Mentre in precedenza l’Evangelista aveva inquadrato la sua figura nel contesto storico, politico e religioso della Palestina, facendone emergere tutta la portata profetica, in riferimento all’Antico Testamento (cf. Lc 3,1-6), ora, invece, Luca sembra mettersi da parte, lasciando di buon grado la parola allo stesso Giovanni. Con il v. 7, infatti, siamo sulle rive del Giordano, nel deserto dove il Precursore predica e battezza. Per il figlio di Zaccaria proprio il deserto era stato il luogo della sua formazione, lì aveva lasciato alla Parola di Dio di abitare il suo cuore, rendendo tutta la sua vita voce che annuncia la presenza del Verbo. Ora, sempre nel deserto, egli annuncia “un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati” (cf. Lc 3,3) non solo con la parola, ma soprattutto con la vita. Egli, infatti, non è un uomo che predica, ma – possiamo dire, riprendendo l’espressione da quanto fra Tommaso da Celano, primo biografo di san Francesco dice di lui – “era diventato tutto lingua”. Forgiato dallo Spirito fin dal seno materno (cf. Lc 1,15), tutto in Giovanni è voce, tutto in lui è lingua. Voce è il suo vestire di peli di cammello con una cintura attorno ai fianchi; lingua è il suo cibo, miele e cavallette, da non far invidia a nessuno, ma capaci di mostrare la radicalità della sua scelta di Dio e della sua volontà; voce è la sua parola ferma e determinata che non si piega dinanzi ai soprusi dei potenti come Erode; lingua è la sua persona consumata nell’incontro con il suo Dio nella solitudine del deserto; voce è la sua presenza austera che richiama alla conversione e al perdono dei beccati; lingua è il suo tatto che immerge nell’acqua del Giordano un popolo che deve prepararsi al battesimo di fuoco; voce è la sua testimonianza franca e sincera, sprezzante le atroci conseguenza dell’essere solo di Dio. Ed è questo che più incanta le folle, il coraggio della radicalità, la scelta di Dio senza compromessi, l’autenticità di una parola che non viene edulcorata da nessun desiderio di divenire scudo dei potenti per ottenere privilegi e servigi. Il Battista, in una parola, è un uomo di Dio e di questo la gente si rende conto perché, scrive san Luca, le folle “accorrevano da lui” (3,7). Il Precursore esercita il fascino della santità, accende nei cuori la nostalgia di Dio, fa nascere l’inquietudine, genera il desiderio di una vita nuova, di un vita vera. Giovanni porta l’uomo a fermarsi lungo il Giordano per fare il punto della situazione e riflettere su dove si trovi realmente nel cammino della sua vita. La vita nuova, le scelte importanti, le determinazioni rilevanti, le conversioni come mutamenti del cuore e della mente nascono dal tempo dedicato alla sosta. Sotto le provocazioni di uomini che sono lo specchio dell’Assoluto ci si ferma e si guarda la propria vita, si analizzano le scelte, si rivedono i passi. Questo fanno le folle lungo il Giordano: si fermano, si specchiano prima nella vita di Giovanni e poi, immersi nell’acqua, confessano i propri peccati, riconoscono le proprie colpe e prendono il proposito di rimettersi sulla strada del bene.

Anche in famiglia è necessario vivere tempi di statio, di sosta per fermarsi e fare il punto della situazione. Un dialogo con un sacerdote, un religioso o una consacrata, con una coppia di amici, spesso è necessario non solo per rasserenare il cuore, ma soprattutto per vedere a che punto siamo, per riflettere e fare un serio esame di coscienza che aiuti la coppia e la famiglia a rifocalizzare contenuti e metodi educativi, a rimodulare rapporti in situazioni totalmente nuove, traducendo l’amore nelle diverse condizioni di vita. Spesso è necessario che una persona esterna, come Giovanni il Battista, ci aiuti a guardare con più oggettività la nostra storia, con il distacco che si esige per non farsi portare dell’emotività e dall’istintività di volere risolvere tutto e subito. Il rapporto tra marito e moglie, infatti, deve conoscere la stessa dinamica dello specchio. Nell’alto io rivedo la mia vita e faccio il punto della mia situazione; dall’altro ricevo provocazioni per crescere secondo Dio, per confessare senza paura le mie colpe, sapendo che chi mi è difronte – Adamo chiede proprio un essere che gli sia simile, che possa stargli dinanzi, cf. Gen 2,20 – non mi accusa, ma pur mettendomi in discussione, chiede il mio cambiamento in bene e aiuta nell’attuazione del proposito perseguito. Questo significa essere una carne sola, divenire l’uno per l’altro voce e lingua che richiama il progetto da realizzare, l’amore da attuare, la complementarietà da perseguire. Quando tra sposo e sposa si cresce in questa consapevolezza, l’inquietudine che nasce in situazioni di particolare tensione si superano, sapendo come le domande che sorgono lungo il cammino non servono per indebolire il rapporto, ma per farlo crescere. Siamo chiamati a essere uomini e donne di dialogo e questo si origina e cresce nel confronto, nell’andirivieni tra domanda e riposta. Il senso del gareggiarsi a vicenda nell’amore  in famiglia è questo: essere l’un per l’altro voce di Dio, accogliendo le provocazioni, spesso anche mordaci, perché la vita sia un continuo stato di conversione , visto che l’amore non è un punto di partenza, ma di arrivo, attraverso un cammino di permanente conversione al bene e all’amore.  

… offrendo anche delle concrete riposte …

La grandezza di Giovanni non sta solo nel far nascere inquietudine e domande nel cuore dei suoi contemporanei, ma ancor di più nel saper ascoltare e poi, al momento opportuno, nel donare risposte appropriate. Tutti vanno dal Battezzatore, spinti sul principio forse anche dalla curiosità dalla sua fama, ma poi convinti dall’austera testimonianza della sua vita. Luca presenta varie categorie di persone – la folla (v. 10), i pubblicani (v. 12), in ultimo i soldati (v. 14) – che presentano al Precursore del Signore la medesima domanda: “Che cosa dobbiamo fare?” (vv. 10. 12. 14). Si tratta di uomini che hanno l’animo profondamente sconvolto. Hanno bisogno di una dritta per una vita che non procede nel bene. Si sentono come una nave tra i flutti e chiedono l’aiuto di una parola che rischiari, una voce che doni la fermezza della stella polare ai naufraghi, una mano forte, come quella di Mosè, che conduca oltre le acque del mar Rosso il popolo uscito dalla cattività dell’Egitto. Riconoscono i propri errori facendosi battezzare, confessando i propri peccati, ma si rendono conto che il solo rito non basta, che il proposito di conversione è debole, che la vita nuova è una strada incerta per dei neofiti, pari a fanciulli che muovono i primi passi. E Giovanni diviene la guida nel nuovo cammino, il maestro e l’educatore nella strada del bene. Non si tira indietro, non rifugge dal ruolo che gli viene chiesto, ma si offre con l’umiltà di chi dona ciò che ha ricevuto, con la consapevolezza del sapiente che sa di non sapere se non ciò che ha sperimentato sulla propria pelle. “Che cosa dobbiamo fare?” sarà la domanda che le folle, trafitte nel petto dalla parola di Pietro, rivolgeranno al Capo degli Apostoli (cf. At 2,37), mostrando come lo schema si ripeterà lungo i secoli per coloro che, accessi nell’intimo dalla viva nostalgia del Signore, si muoveranno, al pari dei Magi, per trovare la gioia. Folle, pubblicani, guardie, mossi da situazioni di vita diverse, da condizioni economiche e familiari differenti sono accomunate da un unico desiderio: trovare la via della gioia, la strada di Dio. A ben vedere, anche noi, nel nostro cammino d’Avvento, dobbiamo porci la stessa domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. E tale domanda si stende a macchia d’olio: cosa dobbiamo fare con il mistero della nostra vita, con le scelte della nostra fede; cosa dobbiamo fare nei rapporti familiari, nelle relazioni parentali, negli equilibri spesso fragili con gli amici; cosa dobbiamo fare, quale strada imboccare nel lavoro, cosa fare con Dio, la sua volontà, la sua voce che potentemente entra nella nostra vita per divenirne la guida?  Ciascuno può aggiungere altre domande, ma non sempre i nostri interrogativi ricevono risposte soddisfacenti che donino la pace al cuore inquieto. Ma tale domanda – “Che cosa dobbiamo fare?” – non fa nascere la tristezza del non sapere come debbano andare le cose, quanto, invece, genera la speranza di uscire da situazioni di indeterminazione. Chi chiede aiuto, chi domanda la luce di un consiglio desidera uscire dal buio del cuore, vuole farsi aiutare e questo anche tra sposi, in famiglia, nelle nostre comunità religiose ed ecclesiali. Tale domanda deve spingerci a vivere quella santa inquietudine nel portare il Vangelo ai fratelli, nel vivere la carità eroica. “Che cosa dobbiamo fare?” è necessario chiedersi quando intorno a noi si vedono situazioni di povertà e disagio, quando in parrocchia non si riesce a superare il guado della competizione che ci chiude all’evangelizzazione. “Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda che gli sposi devono continuamente porsi con coraggio ed umiltà perché l’amore cresca e fruttifichi tra loro e la famiglia divenga il luogo dove continuamente ci si rinnova per il sacrificio della propria volontà.

… che nascono dall’ascolto

La prima cosa che Giovanni fa è ascoltare. Non presume di sapere, né si mostra precipitoso nel rispondere per affermare la sua superiorità e dimostrare la rettitudine del suo insegnamento. Nulla di tutto questo. L’ascolto che offre è accoglienza. Sembra strano, ma la durezza che lo porta ad apostrofare le folle che accorrono a lui in modi tutt’altro che teneri – “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira ormai vicina”, (Lc 3,7) – non gli impedisce di essere docile all’ascolto degli uomini. Egli è l’uomo della parola, di Dio e degli uomini. L’ascolto di chi chiede il suo aiuto è il segno inequivocabile che ha veramente ascoltato con il cuore e fatto posto in sé alla parola del suo Signore. Un ascolto di Dio e della sua parola di vita che non sfoci nell’accoglienza degli altri, nell’ascolto degli ultimi, nella carità sfrenata verso i bisognosi è segno che nella preghiera si è cercati non Dio, ma le sue consolazioni, non la sua volontà, ma la conferma della propria, il cuore non si è aperto alla lode, ma all’elogio di se stessi. L’amore è ascolto paziente, anche quando non si hanno parole, anche quando non si trovano risposte convincenti per la mente ed il cuore, l’ascolto è condivisione, è come l’abbraccio che nel momento in cui si offre, accoglie quello dell’altro. Questi è Giovanni l’uomo della parola altri, il servo della gioia dei fratelli, l’artefice della trasformazione dei cuori. Dobbiamo imparare dal Precursore l’umiltà dell’ascolto, la capacità empatica per entrare, attraverso le parole accolte, nel cuore dell’altro, nel dramma che vive, nella gioia che lo anima, nelle vicissitudini che occupano la sua mente e riempiono le sue notti di veglia. Che in questo tempo santo di Avvento il Signore ci concede la grazia di saper ascoltare, cosicché, mentre l’altro parla e condivide se stesso, non si pensi ad altro, l’attenzione non si distolga da lui che ci è dinanzi, l’occhio non vaghi ed il cuore non divenga peregrino. È una grazia che discende dall’Alto quella dell’ascolto attento, dello sguardo vigile, del parlare con sapienza, del custodire le parole con prudenza. Giovanni conosce l’arte del parlare e del tacere, del contenere e del gridare. Ascoltare, infatti, vuol dire fare spazio all’altro nella propria vita, quello che lui ti dice è più importante di ogni altra cosa, sei chiamato a far cadere nel terreno del cuore la sua parola, aspettando perché la tua sia il frutto del germinare dell’altrui discorso in te.

Dobbiamo proprio andare alla scuola di Giovanni! Nelle nostre famiglie è necessario imparare a parlare, ma, forse ancor di più, a tacere e ad ascoltare. Troppo spesso i nostri sono dialoghi tra sordi, uno parla e l’altro ha la testa così ferma sulle proprie acquisizioni ed idee che non c’è scambio, dopo un confronto si è distrutti, stremati come se si fosse scesi in battaglia. Nell’arena della contese familiari non ci sono vincitori e vinti, perché tutti sono perdenti quando non ci si riesce a capirsi. L’ascolto inizia con l’accoglienza dell’altro, con un sorriso che lo faccia sentire amato e rassicurato, facendogli capire che le sue parole sono importanti, sono segno d’amore. Tante nostre discussioni sono bloccate sul nascere proprio perché espressioni e parole spesso fuori posto non creano le condizioni favorevoli per un confronto pacato e sincero. La coppia e la famiglia deve ritagliarsi del tempo per stare insieme, perché solo il tempo condiviso può abituare il nostro orecchio all’ascolto e spingere i nostri occhi a vedere che le persone che ci sono accanto non sono dei mobili che ci riempiono la vita, da utilizzare a nostro piacimento, ma i collaboratori della nostra gioia.

Se ci fermiamo a leggere meglio ciò che il Battezzatore dice ai suoi interlocutori ci renderemmo conto di quanto egli sia precursore del Messia anche nell’insegnamento. Egli, infatti, a nessuno chiede l’impossibile, ma a ciascuno offre una strada secondo le proprie concrete possibilità. Anche qui sembra di ascoltare l’esperienza di san Francesco che a quanti gli chiedevano consiglio, è sempre al voce dei biografi a dirlo, “dava una regola di vita”. Giovanni offre delle piste concrete per vivere la gioia e sperimentare la relazione amorosa con Dio e i fratelli. Non impone agli altri il ritmo della sua vita, la penitenza, insieme con il miele e le cavallette le riserva per sé, come anche la solitudine del deserto. Alle folle chiede condivisione, ai pubblicani giustizia, ai soldati equità. È qui l’equilibrio della sua parola, la saggezza del suo dire, la prudenza del suo insegnamento. Giovanni poi non si serve degli altri per una propria realizzazione personale, per il raggiungimento della gloria mondana, tantomeno per un tornaconto economico. Egli serve con la parola e con la vita le persone che vengono a lui, non chiede, né pretende, ma offre con l’umiltà di chi sa di essere venuto unicamente a raddrizzare le strade come un buon servo, non a percorrerle come il signore. È nell’umiltà la forza dell’amore, nella capacità di farsi servo dell’altro la potenza del sentirsi subordinato all’altri bene. È questo il segreto di Giovanni che diviene per noi impegno. Non a tutti, infatti, è possibile chiedere tutto – questo soprattutto nell’educazione dei figli, perché questi sono diversi l’uno dall’altro come le dita di una mano! – ma a ciascuno dobbiamo domandare ciò che è nelle sue possibilità operare per la costruzione della casa comune, del sogno di Dio su di noi. Dobbiamo impararlo con impegno e questo richiede una ascesi non semplice con se stessi perché l’altro – lo sposo per la sposa, i figli per i genitori e viceversa – non è come io lo immagino, ma ha una sua storia e sensibilità, la sua mente ed il suo cuore sono diversi da me. Amare le differenze e armonizzare le diversità – armonizzare non omologare! – è la strada possibile in ogni rapporto perché cresca e fruttifichi. Nelle famiglie e comunità le lotte sono per il primato, per l’ultima parola, non si studiano percorsi possibili, raramente si chiede ciò che si è in grado di attuare personalmente ed insieme. Ma perché mai l’altro/a deve entrare negli angusti spazi della nostra mente, nelle imposizioni pretestuose del nostro egoismo? È così impossibile guardarsi per come si è, accogliersi nelle debolezze che scandiscono la nostra esistenza? Dobbiamo permettere all’altro di vivere senza le nostre regole che spesso poi rappresentano la sua morte, offrendo possibilità insperate, vie non ancora battute. È un impegno significativo in questo tempo di Avvento imparare a non chiedere l’impossibile e domandare prima a se stessi: “Quello che sto per dire è giusto? Sto pensando ed assecondando il mio egoismo o sto cercando veramente il bene comune? Quando parlo, penso a ciò che dico oppure mi interessa sempre che l’altro faccia quello che io voglio?”.

Dall’acqua al fuoco

Giovanni non è l’assoluto, egli lo sa bene. La sua parola è importante, la sua testimonianza rilevante, ma non è lui il salvatore, il messia promesso, il redentore delle genti. Come ogni albero trae forza dalle sue radici, Giovanni si fortifica nell’umiltà, cresce nella consapevolezza del suo essere servo, si mantiene soggetto a quella Parola scesa nel deserto sopra di lui. Come una freccia, il Precursore indica altro o, per meglio dire, rinvia all’Altro che battezzerà in Spirto Santo e fuoco. È questo il motivo della gioia dell’Avvento: sapere che il Messia viene per essere il dispensatore del fuoco dell’amore, della potenza della misericordia, della fiamma della divina carità. Come non gioire per questo imminente battesimo! Come non rallegrarsi per questa intima gioia!

Dall’inconsistenza dell’acqua al calore del fuoco: è questo il passaggio che il Battezzatore attende e al quale prepara le folle. Il Signore ci conceda la perseverante attesa del battesimo di fuoco per divenire tizzoni incandescenti dell’amore di Dio tra gli uomini.

 

Liturgia dell’Avvento in famiglia

Accompagniamo la terza candela d’Avvento con una preghiera gioiosa e ricca di speranza. La nostra famiglia si raccolga ogni giorno per la preghiera, soprattutto a partire dal 16 dicembre, inizio della novena di Natale, e chieda alla Vergine Maria la sua vicinanza nell’accogliere il suo Figlio che viene.

Vergine del sorriso e della gioia,
che conosci il nostro vegliare
e con amore custodisci i nostri cuori
nell’attesa del tuo Gesù,
mostraci la strada per attendere Lui,
sii la nostra stella polare, la nostra speranza.
Donaci di credere che il Messia viene per essere
nelle nostre famiglie
il dispensatore del fuoco dell’amore,
la sorgente della potenza della misericordia,
la fiamma della divina carità.
Come tu ti sei rivestita, o Madre,
dell’abito dell’umiltà e della letizia
magnificando e lodando Iddio
per la sua immensa misericordia,
donaci un ascolto attento del cuore dell’altro
per camminare insieme verso la pienezza della gioia. Amen




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1 risposta su “A volte basta un sorriso per aprire il cuore in famiglia”

Quante volte ho atteso quel sorriso che mi facesse sentire accolta e ascoltata ma poi mi chiedo quante volte ho offerto quel sorriso x accogliere e ascoltare.Grazie

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