Battesimo del Signore - Anno C

Senza l’umiltà, le difficoltà familiari non si possono superare

umiltà

di fra Vincenzo Ippolito

L’umiltà di Giovanni il Battista è permettere a Dio di agire e parlare in lui, come a Lui meglio piace. Se fossimo anche noi cultori dell’umiltà! Se imparassimo a considerarci servi della felicità degli altri, collaboratori dell’unico progetto di gioia che la famiglia è chiamata a realizzare secondo Dio.

Dal Vangelo secondo Luca (3,15-16.21-22)

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».


Con la festa del Battesimo di Gesù, ultima tappa del tempo di Natale, la liturgia ci fa compiere un salto di circa trent’anni. Nel giorno dell’Epifania abbiamo contemplato il bambino Gesù adorato dai Magi (cf. Mt 2,1-12), nella festa odierna, invece, dopo appena pochi giorni, lo vediamo trentenne, all’inizio della sua vita pubblica, mentre riceve il battesimo, per mano di Giovanni, che nel grembo della madre trasalì di gioia, alla visita di Maria (cf. Lc 1,39-45). È questa una delle manifestazioni del Signore – con l’adorazione dei Magi ed il miracolo alle nozze di Cana – che segna l’inizio del ministero pubblico di Gesù.

Anche noi ci mettiamo in fila con il Maestro per vedere come le acque della Chiesa, grembo fecondo della vita nuova del Risorto, vengono santificate dal Cristo che si immerge nel Giordano per donare ad ogni uomo la figliolanza divina, mediante il suo Spirito.

Nell’umiltà dell’uomo Dio parla ed opera con potenza

Talvolta, come in questa domenica, non è semplice seguire il ritmo della liturgia, perché i brani proposti sono un collage di versetti, legati da una stessa tematica, ma non nella successione che si riscontra nel testo del Vangelo. Del capitolo terzo di san Luca, leggiamo i versetti 15-16, poi, saltando l’ammonizione del Battista alle folle ed il suo arresto (vv. 17-20), la narrazione del battesimo del Signore. Abbiamo già letto in parte questo brano evangelico – nella terza Domenica di Avvento (cf. Lc 3,10-18) – ma, nella liturgia odierna, assistiamo ad un significativo sviluppo: passiamo, infatti, dalla realtà annunciata da Giovanni (vv. 15-16) al compimento della sua profezia (vv. 21-22).

Il fiume Giordano, nella parte meridionale della Palestina, è il luogo dove è ambientata la narrazione dell’Evangelista. Qui il Precursore predica “un battesimo di penitenza per il perdono dei peccati” (Lc 3,3) e, con la parola franca del profeta che non ammette mezze misure, chiede alle folle un cammino di vera conversione. In tale contesto, Luca presenta per la prima volta Gesù di Nazaret e questo diventa come un passaggio di testimone tra il Precursore, imprigionato dal tetrarca Erode (cf. Lc 3,19-20), ed il Signore che, unto di Spirito Santo, inizia la sua missione, annunciando l’anno di grazia (cf. Lc 4,19). Da Giovanni il Battista a Gesù, il Cristo, dall’amico dello Sposo che esulta di gioia allo Sposo a cui la sposa appartiene, dalla voce che passa al Verbo che rimane per sempre, dalla promessa al compimento: così potremo intitolare questo passaggio nevralgico della storia della salvezza che apre i battenti delle porte della misericordia.

Entrando direttamente nella dinamica del brano, possiamo notare che i vv. 15-16 mostrano la consapevolezza che il Battista ha della sua vocazione e del progetto di Dio sulla storia. Consumato dalla parola, scesa sopra di lui nel deserto (cf. Lc 3,2), non presume di essere qualcuno e non si impone nella vita di quelle folle che accalcano il luogo del suo ministero. Sa che la sua missione è di passaggio, ha l’inconsistenza dell’acqua che, pur se purifica il corpo, non entra nel cuore per una rigenerazione interiore che muti la vita. Il Battezzatore si ferma alla porta della coscienza di ogni uomo, non può varcarne la soglia, la sua parola bussa, percuote con forza, richiama l’esigenza della conversione, smuove le coscienze perché l’anelito della penitenza si radichi come esigenza profonda di una vita secondo Dio. Ma il suo ministero scende come l’acqua sulla pietra, si dissolve, scompare ed egli ne è profondamente cosciente. La sua confessione non è fatta con rammarico perché in lui la verità della sua vita e della vocazione ricevuta non genera lo sconforto e lo smarrimento, ma crea un cuore umile nel quale Dio soccorre la sua debolezza, abita la sua vita, si serve della sua creaturalità, accogliendo nell’obbedienza la parola che lo ha plasmato nel deserto. Giovanni è l’uomo cesellato dall’attesa del Dio forte, il Signore che viene è più potente di lui, la forza della sua parola non è nulla al confronto della presenza del Santo che giunge. Giovanni attende Dio e gli spiana la strada, lo aspetta per sé così da ricevere la salvezza annunciata e aiuta quanti accorrono a lui a non fermarsi con la mente ed il cuore, ma a tenersi pronti per il compimento dei tempi di Dio. La più grande virtù del Precursore è l’umiltà. Essa consiste nel dare a Dio e nel dire di Dio ciò che è prerogativa del suo essere Dio. In realtà, la terminologia che il figlio di Zaccaria ed Elisabetta utilizza è chiaramente desunta dall’Antico Testamento su cui la sua vocazione si è formata, ma il significato delle sue parole verrà compreso in pienezza, come anche l’antica Legge, nel Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo. Dio è forte – dice Giovanni – e Gesù dimostrerà che la forza di Dio sta nell’amore che non si arresta davanti a nulla, neppure al rifiuto che l’uomo gli propina. Sì, Dio è forte, il più forte perché “Noi siamo argilla e tu colui che la plasma”. Vera è la parola del Precursore, il Figlio di Maria è più forte di Lui, ma la sua forza è nella debolezza, il suo vigore nella fragilità, la potenza e la grandezza nell’umiliazione, la robustezza nella piccolezza. Solo il Cristo rivelerà in pienezza il mistero di Dio.

L’umiltà in Giovanni è nel non prendere il posto di Dio e nel non presumere di sapere più di quanto è dato. A questo sembra riferirsi l’immagine dei sandali. Egli non scalza lo sposo dal diritto suo di avere la sposa – il rito del sandalo è descritto in Dt 25,5-10 – non solo non lo fa, ma neppure lo pensa e con chiarezza lo dice. L’identità sua sta nella relazione con il Signore, di Lui è voce, dello Sposo amico, del compimento annuncio, dei tempi messianici profeta. Inutile guardare verso di lui ed attendersi la salvezza, perché egli sa di non essere – Socrate diceva “So di non sapere” e poneva in questo assioma l’inizio della vera conoscenza, Giovanni, invece, sa di non essere ciò che altri credono di lui – ovvero la sua vocazione, come ogni chiamata, incide non sulla scorza, ma sull’essenza della persona, determinandone lo sviluppo. Il Precursore non si lascia portare da quello che le folle dicono e credono di lui, non attacca il cuore alle voci di adulazione e di plauso, non si allontana dal deserto dove il suo spirito si è formato nell’essenzialità e nell’austerità della penitenza, perché il deserto è dentro di lui, nella sua interiorità come spazio donato al Signore per parlare ed agire con potenza. Ed è qui l’umiltà di Giovanni: permettere a Dio di agire e parlare in lui, come a Lui meglio piace.

Se fossimo anche noi cultori dell’umiltà! Se imparassimo a considerarci servi della felicità degli altri, collaboratori dell’unico progetto di gioia che la famiglia è chiamata a realizzare secondo Dio. È necessario, per fare questo, mutare le nostre categorie, perché, diversamente da quello che si crede, l’umiltà non è la virtù che abita nel cuore dei deboli, ma la qualità interiore che brilla nelle anime forti, in coloro che non hanno paura della verità di Dio e di se stessi, che si lasciano portare dal vento dello Spirito, l’unico capace di aprire strade nuove solo per chi si lascia sradicare dalle proprie sicurezze. Senza l’umiltà – il sostantivo deriva da humus terra, l’umile è colui che si riconosce creatura plasmata da Dio e continuamente capace di essere rimodellata – le famiglie si disgregano e non si riesce a costruire nulla, ciascuno persegue la propria idea, senza trovare punti di accordo. L’umiltà, dono dello Spirito, conduce lo sposo ad ascoltare la sua sposa senza considerare inutile la parola che gli viene donata, ma anzi offrendo la sua con la volontà di far divenire le proprie parole, pur se talvolta discordanti, pietre che costruiscono la casa comune, mai muraglie di divisione e di disprezzo perché l’altro la pensa diversamente. Attraverso l’umiltà io scelgo di farmi plasmare dalle relazioni della vita familiare, plasmo e mi lascio lavorare nel cuore e nella mente, nei pensieri e nei sentimenti, perché nessuno è mai arrivato – anche questo è umiltà, non considerarsi mai arrivato! – sulla strada dell’amore. L’umiltà è verità. Se dico di non essere infallibile, che posso cadere nell’infedeltà, sbagliare a parlare sotto l’impulso dell’ira o della permalosità, confesso solo la verità di me stesso e mi offro all’altro/a senza maschere, in umiltà appunto, con quella creaturalità che è l’elemento costitutivo del mio essere. Ma sempre l’umiltà mi abilita a sognare con Dio, a collaborare con Lui che rinnova la mia giovinezza, che riveste di luce gioiosa i miei giorni. Più viviamo nell’umiltà e più il Signore ci usa perché “Egli resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili” (1Pt 5,5).

Dall’acqua al fuoco, da Giovanni a Gesù

L’annuncio del Battista non solo è scandito dalla volontà di sradicare il male dal cuore dell’uomo e renderlo docile alla grazia della conversione, ma è anche una proposta di speranza per il tempo nuovo che sta per giungere. “Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (v. 16) dice Giovanni alle folle che accorrono a lui. Egli lo vede da lontano, non sa bene che lo Spirito del Risorto verrà effuso sui discepoli, ma comprende bene come il suo battesimo di acqua sia preparazione anche del battesimo di fuoco. Nella comprensione di questo versetto ci può aiutare quanto l’apostolo Paolo scrive al suo discepolo Tito – lo leggiamo come seconda lettura della liturgia odierna, dopo che, il medesimo passo è stato letto il giorno di Natale, nella Messa dell’aurora” – proprio sul battesimo di Spirito. “Egli [Dio, salvatore nostro] ci ha salvati […] per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo” (Tt 3,5-6). Il battesimo di Cristo è un lavacro di rigenerazione e di vita nuova. Diversamente da quello di Giovanni, grazia al quale l’uomo inizia un cammino di conversione, confessando i propri peccati, effonde la grazia che salva, la potenza che viene in aiuto alla debolezza, l’amore che redime, la liberazione che spezza il giogo della schiavitù del peccato. Con il battesimo, Cristo abita in noi mediante il suo Spirito e noi diveniamo sua abitazione e dimora, sua casa, suo tempio – anche questa è un’immagine cara a san Paolo che in 1Cor 3,16 così scrive: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” – luogo permanente in cui dimora la sua Presenza di fuoco. Lo stesso Paolo fa comprendere, infatti, cosa indichi il fuoco dello Spirito, scrivendo a Timoteo: “Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza […] soffri anche tu per il Vangelo, confidando nella forza di Dio” (2Tm 1,7-8). Lo Spirito è fuoco che accende nei cuori l’amore, la saggezza e la forza. Questi sono il segno che Dio opera perché presente. Con il battesimo, lo Spirito di Dio abita in noi e attende la nostra collaborazione per accendere, con la potenza del fuoco, il mondo d’amore, proprio come ha fatto Gesù. Non desta meraviglia che le parola del Battista, come promessa che si realizzerà con il mistero della sua Pasqua, si ritroveranno sulle labbra dello stesso Gesù (cf. Lc 24,49; At 1,8). Lo Spirito è il principio della vita nuova del Risorto nel cuore del discepolo, perché “se uno non ha lo Spirito di Cristo non gli appartiene” (Rm 8,9). Si tratta dell’inabitazione – così è chiamata – dello Spirito in noi. Il mio cuore è nel Cuore di Gesù – se riuscissimo ad essere consapevoli di questo dolcissimo vincolo che lo Spirito attua in noi e, senza anche comprenderlo, se ci venisse dato di viverlo, perché non sempre si vive ciò d cui si è coscienti! – in Cristo respiro, vivo, guardo, amo, parlo e mi muovo.  

O Spirito che abiti il mio spirito, dardo di Fuoco che, come una saetta, sei uscita dal Cuore del Cristo dormiente sulla croce, mentre la lancia lo apriva, forziere di ogni grazia e misericordia. Desidero conoscere la tua azione in me, gustare in me la dolcezza della tua Presenza, assecondare l’opera tua che è in me riverbero della vita del mio Signore. Senza di te che sei vita, c’è la morte; senza te, che sei la gioia, la tristezza dilaga; senza te che sei il coraggio e la franchezza le nostre parole non conoscono il fuoco che brucia il peccato ed infiamma i cuori di misericordia. Sei in me con il battesimo, nascosto nelle profondità delle mie viscere in attesa del mio “Eccomi”. Ora finalmente ti vedo e ti voglio operatore in me dei prodigi promessi dal mio Signore. Sento in me il tuo gemito inesprimibile che zittisce il mio vociare e mi dona la pace. Tu sei la pace! Tu sei il bene! Pace nel cuore di Cristo e del Padre, nella relazione del loro amore eterno ed infinito, bene che si costruisce nella docile obbedienza alla divina volontà. Vieni in me e, poiché tu già sei in me, che io ti senta, arda per te, viva di te, ascolti te, operi in te, parli con la tua forza, agisca con il tuo ardore!

Ogni famiglia cristiana è il cenacolo dove lo Spirito agisci con potenza e dona la sua vita. Gli sposi sono i docili strumenti e collaboratori suoi nella trasmissione dell’amore e della vita, nel guidare i figli a riconoscere la sua Presenza, ad assecondare le sue ispirazioni per la seminagione del suo fuoco d’amore. È necessario però immergersi in questo mistero come Gesù, trovare tempi e luoghi per ascoltare il Soffio di Dio in noi, per sentirne il gemito, per gustarne la Presenza, per riconoscerne l’azione. È necessario vagliare gli spiriti, discernere, come chiede Giovanni (cf. 1Gv 4,1), se vengono veramente da Dio e la famiglia, massimamente gli sposi, sono educatori in questa non semplice arte di discernere la presenza e l’opera di Dio, nell’opportunità, da parte dei figli, ad intraprendere un’azione o anche a perseverare in un’opera con coraggio ed impegno, così come nell’abbandonarla. È lo Spirito di Cristo che rende luogo del suo rivelarsi l’amore di un uomo e di una donna ed effonde la sua grazia di fedeltà e di coraggio, di umiltà e di operosità santa secondo il volere del Padre.

L’unzione del Santo sull’unico Santo

La scena del battesimo è scarna, appena due versetti, ma di una ricchezza che stupisce. Gesù si unisce al popolo, è uno di loro, solidarietà massima del Figlio di Dio fattosi figlio dell’uomo.  Si confonde tra la folla, come uno dei tanti. La sua è un’umiltà che supera di gran lunga quella del Battezzatore perché Egli è Dio della stessa sostanza del Padre, la sua è la Persona divina del Verbo. È la dinamica dell’incarnazione, dell’umiliazione progressiva di Dio che inizia con il Natale e che diviene piena nel sacrificio della croce. La vita del Signore è un progressivo cammino di umiliazione, di solidarietà, di prossimità all’uomo peccatore. È questa la misericordia di Dio, il suo essere e farsi carità: il mistero della sua vicinanza, del non considerare un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, spogliando se stesso (cf. Fil 2,6-7). Si immerge nell’acqua, anche se non ha nulla da confessare, “lui pure battezzato” appunta Luca (v. 21) e prega. Per la prima volta l’evangelista presenta la preghiera di Gesù, il suo orientarsi al Padre, il suo cercare la divina volontà, il suo attendere la rivelazione della sua gloria. Nella preghiera, Dio gli parla, lo conferma nella missione, lo abita all’annuncio, gli dona il suo amore, lo stesso che aveva da sempre nel seno del Padre. Il Nazareno si sente amato, nella preghiera. Se riuscissimo a vivere il tempo della preghiera come esperienza dell’amore di Dio, come tempo di discernimento, come spazio per incontrare Dio, solidali con i fratelli. Gesù prega in mezzo al mondo, al pari di san Francesco d’Assisi che, stando in mezzo alla folla, si copriva il capo con il mantello e faceva della sua anima un cella per la visita del suo Dio. Contemplazione nel mondo, per vocazione sua il discepolo è un contemplativo in azione. I cieli si aprono, segno della definitiva rivelazione di Dio nella storia di Gesù di Nazaret e, mentre lo Spirito discende sopra di Lui come una colomba, il Padre pronuncia sul Figlio l’atto del suo amore, la conferma della sua compiacenza, l’assicurazione della sua assistenza. Il Figlio di Dio è già stato concepito “per opera dello Spirito Santo” (Lc 1,35) nel grembo di Maria. Egli ora è unto per la sua missione, come lo stesso Evangelista mostrerà nella sinagoga di Nazaret, per portare ai poveri un lieto messaggio, annunciare ai prigionieri la liberazione (cf. Lc 4,16-22). L’Evangelista in At 10, 38 ne parlerà in termini di unzione che abilita Gesù a passare sanando e beneficando. In Gesù agisce lo Spirito Santo, Egli è sotto l’azione dello Spirito, in Lui parla ed agisce, in obbedienza al Padre opera. E proprio il Padre si compiace di Lui e lo dichiara Figlio suo nel gesto della sua umiliazione, nella solidarietà con i peccatori, nell’itinerario di abbassamento progressiva che Egli sta vivendo nella carne assunta nel grembo di Maria.

Se riuscissimo anche noi a ricordarci che siamo stati unti con l’Olio di letizia dello Spirito Santo! Se mettessimo più impegno a parlare, dandogli uno spazio maggiore, assecondando le sue ispirazioni, facendoci portare dalla sua dolce Brezza. E, di rimando, se riuscissimo a vivere con intensa partecipazione e con una preparazione adeguata il battesimo dei nostri figli, evitando la fretta che è propria di riti che si vivono senza tanta convinzione. Si tratta, invece, di occasioni di grazia nelle quali siamo chiamati – genitori, padrino e madrina – a vivere la bellezza del dono dello Spirito che Gesù effonda per l’abbondanza della sua misericordia verso ciascuno di noi. Si tratta di un lavorio sinergico tra padre e madre, padrino e madrina nell’iniziare un itinerario di progressiva docilità allo Spirito che, nei segni sacramentali, viene gratuitamente donato per divenire figli di Dio.

Cristo, il Figlio unigenito, è la compiacenza del Padre, tutto il suo amore. Contemplando Lui, lo Spirito, da Lui effuso, ci renda partecipi della vita nuova nell’amore.




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