Disabilità

Non volevo quel figlio ma nel giorno dell’aborto accadde qualcosa che mi fece cambiare idea…

neonato

di Ida Giangrande

Cosa succede ad una donna quando viene a sapere che il figlio che porta in grembo è affetto da una grave patologia? Cosa accade nel suo cuore di madre quando comprende che quel figlio non sarà l’uomo energico e volitivo che aveva sognato, ma una persona senza autonomia, libertà di movimento o di pensiero?

Dall’apparenza fragile, remissiva nella parola, flebile nel tono di voce, Cristina era invece una donna forte e risoluta. Sapeva che, come una scatola chiusa, la vita ti può presentare sorprese impreviste e spesso dolorose e senza farsi troppe domande aveva sempre risposto alle avversità con coraggio e pazienza. Un’infanzia difficile, con un padre burbero e una madre severa, incontrò suo marito all’età di diciassette anni e fu subito amore; si sposarono e qualche mese dopo era già incinta della sua prima figlia Elena. Una bellissima gravidanza, forse un po’ faticosa, ma tutto si risolse per il meglio ed Elena nacque forte e sana. Tuttavia sebbene Cristina amasse quella bambina con tutto il cuore, custodiva dentro di sé un desiderio, avere un figlio maschio. Fu per questa ragione che dopo circa un anno dalla nascita di Elena, Cristina e suo marito provarono ad avere un altro figlio e subito lei rimase nuovamente incinta. Questa volta era un bambino, la notizia venne accolta con gioia non solo dal ristretto nucleo familiare ma anche dall’intera famiglia di nonni, zii e cugine. Da anni infatti tutte le gravidanze di quella famiglia erano caratterizzate da deliziose femminucce, ormai tutti attendevano l’erede, unico maschio tra circa sette donne. Avrebbe portato il nome e cognome del nonno, avrebbe sostituito il padre nella piccola azienda agricola a conduzione familiare, insomma questo piccolino non era ancora venuto al mondo che già tutti avevano disegnato per lui un futuro radioso. Alla terza ecografia però il medico segnalò una dimensione cranica non proprio conforme alla norma, ne informò i genitori, lo segnalò nelle referto, ma Cristina non sembrava aver capito la natura del problema. In fin dei conti lei era una donna semplice, di quelle che prendono la vita così come viene, facendo spallucce di fronte ai problemi con innata predisposizione all’accettazione delle eventi dolorosi, ma certo non si sarebbe mai aspettata di dover affrontare un giorno una dramma con quello che l’attendeva.

La diagnosi fu chiara: il bambino era idrocefalo. Percepirà gli impulsi, ma non sarà mai normale, non avrà una vita autonoma, non potrà camminare, ne parlare, giocare, studiare oppure lavorare. Cristina indietreggiò stravolta, mentre suo marito fissò il dottore incredulo; venne sottoposta loro la possibilità di abortire e i due inconsolabili genitori la presero in esame. Le giornate diventarono improvvisamente cupe per loro anche quando il sole splendeva alto, i pensieri erano ingarbugliati, impulsi di vario genere attraversavano le loro menti spingendoli come una barca in balia del vento ora in una direzione e dopo pochi istante in quella opposta. Improvvisamente Cristina ebbe come un lampo che squarcia il suo orizzonte, permettendole di vedere come in uno specchio, come sarebbe diventata la loro vita; lei non avrebbe avuto pace, suo marito nemmeno di fronte ad uno spettacolo di quelle dimensioni, ed Elena? Anche la sua vita sarebbe stata rovinata, perché in fin dei conti i genitori non vivono per sempre e quando loro non ci sarebbero stati più, lei avrebbe dovuto prendersi cura del fratello e quel bambino suo malgrado, sarebbe stato un flagello anche per lei. L’aborto era la soluzione ideale, ormai lei se ne era convinta, ma suo marito restava chiuso in un riserbo impressionante; sapeva a che cosa andavano incontro, era consapevole del fatto che le remore di sua moglie erano tutto vere, ma non riusciva a pensare alla loro vita dopo aver tranciato il cordone ombelicale di quel bambino. Di fronte alle opposizioni di suo marito, Cristina si intestardì, non voleva quel figlio, era decisa a non farlo nascere. Sperava in un aborto spontaneo, ma non arriva e il giorno dell’intervento, lei si alza da sola senza suo marito e raggiunse l’ospedale dove avrebbe dovuto eseguire l’interruzione di gravidanza.  Pochi istanti e un’infermiera annunciò che disgraziatamente il medico aveva avuto un incidente e che gli interventi erano sospesi. Fu un segno, quel bambino doveva nascere e Cristina tornò a casa rassegnata e in fondo serena. Maurizio, si chiamerà così il nascituro, sarà un bimbo bellissimo, con due profondi occhi azzurri e capelli nerissimi. Dal giorno in cui è nato, il tempo è sembrato volare via scandito da un ritmo frenetico ed estenuante; Maurizio cresceva, ma restava sempre un lattante, aveva bisogno d’essere cambiato, lavato, sfamato e lentamente sbarbato, più diventava uomo, più la sua condizione era lampante e disperata. Dormiva nella camera attigua a quella dei suoi genitori, di giorno Cristina lo spostava in cucina, dove avevano un divanetto, un piccolo sofà verde proprio accanto al camino, a lui piaceva stare lì, la sensazione del calore di un fuoco scoppiettante sulla pelle, lo rilassava. Maurizio trascorreva su quel divano gran parte del giorno, improvvisamente urlava rispondendo ad un impulso che non riusciva a controllare, poi roteava gli occhi, la testa come stesse cercando qualcosa e quando posava distrattamente lo sguardo su sua madre, sembrava quasi sorriderle. I medici dicevano che era un riflesso involontario, ridere o piangere per lui era la stessa cosa, ma Cristina era certa che sua figlio la riconoscesse nel crepitio del suo cuore, laddove i sentimenti bruciano come fa la legna nel fuoco, laddove la presenza o l’assenza di una madre è inconfutabile. Al mattino, dopo che Elena e suo padre erano usciti, Cristina iniziava le sue faccende domestiche, si muoveva per casa spolverando, spazzando, cucinando e intanto parlava con lui, gli raccontava tutto ciò che c’era da raccontare, gli parlava come se lui potesse intenderla, come se potesse risponderle e quando faceva un verso, lei apprezzava il suono delle sua voce. Un giorno mentre era impegnata a rifare il letto di primo mattino, le sembrò di sentire un respiro accanto a lei, fu come il fruscio di una foglia che si posa lentamente in terra, talmente sottile da poter essere udito nel più completo silenzio. Lasciò cadere le lenzuola, corse in cucina e lo trovò addormentato sul sofà: le servirono solo pochi istanti per capire che quello che aveva percepito era stato il rumore dell’ultimo respiro di suo figlio. Era così che doveva andare, glielo dicevano tutti, che avrebbe dovuto aspettarselo e in fin dei conti che vita era mai quella? Maurizio era come un angelo dalle ali impiastricciate di petrolio, ora era finalmente libero, libero di poter volare, e questo Cristina lo sapeva, ma non le bastava. Lei, che aveva sperato di non vederlo nascere, ora non riusciva ad accettare la sua dipartita: quel figlio le sarebbe mancato da morire. Le aveva insegnato molto, la sua presenza era un conforto per i suoi giorni. Tutti in famiglia avevano imparato a voler bene quel figlio e quel fratello speciale, che se ne era andato così in silenzio. Cristina ricordò per un attimo il freddo di quella sala d’aspetto dove attendeva di sottoporsi all’intervento per l’IVG di Maurizio, come era diverso dal silenzio che ora aveva lasciato suo figlio. Un silenzio carico d’amore, una presenza che in quella casa sarebbe stata sempre ricordata. E il fuoco nel camino continuava a scoppiettare. Sì la vita di quel figlio aveva avuto un senso per lei.




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