XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C - 16 ottobre 2016

Prego per legge o per amore? Piccoli passi per imparare a pregare…

pregare

di fra Vincenzo Ippolito

La preghiera è un mistero di amore che comprende solo chi ama. Chiedi a chi ama cosa significa aver bisogno dell’amato e non saprà risponderti in maniera soddisfacente, perché stare con l’amato è un bisogno dell’anima, spesso indescrivibile, un desiderio insopprimibile.

Dal Vangelo secondo Luca (18,1-8)
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». 

 

Siamo alle ultime battute del nostro viaggio dietro a Gesù, quasi alle porte della città santa. Il cammino, pur duro e faticoso, è ben poca cosa rispetto a quello interiore che ci attende tra le mura di Gerusalemme, se vogliamo veramente seguire il Maestro fino alla fine. I suoi ultimi insegnamenti – lo abbiamo visto nelle scorse domeniche – sono rivolti ai suoi perché non soccombano dinanzi allo spettacolo della croce. A ciascuno, infatti, è richiesta una fede capace di sradicare un gelso (cf. Lc 17,5-7), un servizio gratuito e disinteressato nella comunità (cf. Lc 17,8-10), l’umile riconoscimento della propria lebbra per chiedere la guarigione e la salvezza, pronti sempre a dire grazia a Colui che è il Signore compassionevole e misericordioso (cf. Lc 17,11-19). Sono queste le tappe progressive da fare per evitare di fuggire, tradire, rinnegare, dileguarsi nei buoi, come i Dodici.

I quadri che l’Evangelista ci offre in questi due ultimi capitoli, prima di varcare le porte della città santa (Lc 18,1-19,27) sono la preparazione prossima alla Pasqua di Gesù. Il primo di questi quadri è la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna, una catechesi sulla preghiera che, unita a quella del fariseo e del pubblicano (cf. Lc 18,9-14) – la liturgia ci donerà di leggerla la prossima domenica – vuol mostrare il vero volto di Dio che ascolta ed esaudisce il grido dei suoi figli. Un’ottima possibilità ci viene offerta quest’oggi per rivedere il cammino della nostra preghiera personale e familiare e trovare nuovo stimolo perché il tempo dell’orazione non sia sterile monologo, ma incontro con Dio e con chi si rivolge a Lui con noi.

Una pagina di vita quotidiana 

Tra il brano evangelico letto la scorsa domenica (cf. Lc 17,11-19) e quello odierno (cf. Lc 18,1-8) c’è un salto di due pericopi (cf. Lc 17,20-21. 22-37), solitamente definite «la piccola apocalisse» perché tematicamente incentrate sulla venuta del Regno di Dio, la prima (cf. Lc 17,20-21) e sul ritorno glorioso del Figlio dell’uomo, la seconda (cf. Lc 17,22-37). I brani così ordinati mostrano bene l’intenzione che ha guidato l’Evangelista nel riorganizzare il materiale a sua disposizione: la venuta del Signore (cf. Lc 17,20-37) va attesa nella preghiera umile (cf. Lc 18,1-14), nell’accoglienza dei piccoli (cf. Lc 18,15-17), rifuggendo, diversamente dal tale che va da Gesù (cf. Lc 18,18-23), il pericolo della ricchezza (cf. Lc 18,24-27) perché certa è la ricompensa su questa terra come nel regno dei cieli (cf. Lc 18,28-30). Chiarito il quadro generale, ci fermiamo ora sul nostro brano formato dagli appena otto versetti che aprono il capitolo XVIII.

Luca costruisce la sua narrazione con la maestria che gli è propria. Il brano, infatti, ha una struttura cornice all’inizio (v. 1) e alla fine (vv. 6-8), la prima serve ad introdurre la scena e l’occasione della parabola, quella conclusiva a trarre l’insegnamento dalle immagini proposte. Al centro si trova la vera e propria parabola, in sé neutra, un fatto di vita concreta a lieto fine, usato dal Maestro per ammaestrare i suoi discepoli sui misteri del Regno dei cieli.

Pregare sempre, dice Gesù, è una necessità ed Egli lo può dire forte dalla sua esperienza prolungata di dialogo orante con il Padre. Se Gesù è diretto a Gerusalemme è perché nella preghiera il suo cuore si è riempito della forza che è Dio “mio forza, mio scudo e baluardo, mia potente salvezza”; se è riuscito a vivere i tre anni di missione tra la gente, annunciando il perdono e perdonando Egli stesso, offrendo la guarigione del cuore e sanando gli infermi, è perché il dialogo con il Padre era per Lui la sorgente del suo ministero tra gli uomini. Come Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta (cf. Lc 10,39), così Gesù, prima e meglio di lei, sceglie la parte migliore dialogando con il Padre, cuore a cuore con Lui, nel tempo che preferenzialmente vive immerso nell’Amore di Dio Padre suo che in Lui diviene misericordia riversata sui deserti degli uomini. Gesù fa esperienza che la vita umana è vera e diviene piena, realizzata nelle sue più profonde e sincere esigenze solo attingendo da Dio linfa di senso e di vita. Pregare significa per Gesù entrare in dialogo con il Padre, lodare, santificare e benedire il suo nome, chiedere la sua presenza, domandare luce nel discernere la sua volontà, mendicare la forza che viene da Lui per realizzare il suo progetto nella storia, aprendosi agli altri come fratelli ai quali partecipare il frutto maturo del proprio dialogo intenso ed amoroso con Dio per costruire insieme un mondo nuovo.

La preghiera è una necessità perché la relazione con il Creatore è una necessità per ogni creatura, pena la perdita della propria identità e l’assolutizzazione del proprio io. Chi non prega, non ha la bussola della vita per vedere la stella polare in cielo e orizzontarsi sulla terra, proprio come il giudice della parabola che “non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno” (Lc 18,2). Come è un bisogno, iscritto nella volontà del Padre, la consegna del Cristo nelle mani degli empi per dimostrare il suo immenso amore, così è una necessità – il termine è lo stesso – pregare, un bisogno che il Padre richiede per vivere nella sua volontà ed incontrare il suo volto. Egli è amore, gioia, pace, benevolenza, tenerezza, misericordia, rifugio e sicurezza, bellezza e quiete. Come si può vivere senza Dio, senza il suo abbraccio, privati della certezza della sua presenza, sprovvisti del suo sguardo che accompagna e rincuora ogni figlio? Motore di questo bisogno iscritto nel cuore di ogni uomo è l’amore, perché si prega non perché lo prescriva la legge, ma per amore, perché, una volta conosciuto che Dio è amore, non si può vivere senza di Lui che è l’amore dell’anima nostra.

Chi prega per legge, loda per regola, fa silenzio in ossequio ad una prescrizione senza giungere al senso della norma che è la trasformazione del cuore, non incontra Dio, non soddisfa un’esigenza d’amore, ma adempie la lettera della legge, non gusta la dolcezza dello Spirito che fa nuove tutte le cose. L’amore rende diletto ciò che per natura è necessità, l’amore trasforma in delizia ciò che la legge stabilisce come norma e la giustizia prescrive come regola. Se uno prega per legge, con il passare del tempo sperimenterà il tedio, perché nessuna legge riscalda l’anima ed infiamma il cuore. Il dialogo con Dio è necessario per il discepolo come lo sguardo dell’amato per la propria donna, il sorriso del diletto per la sposa, la voce della vergine per il suo promesso. Bisogna pregare, dice Gesù, e la preghiera è come il respiro per il corpo, puoi anche non esserne consapevole in ogni attimo, ma vivi per quel soffio che ti entra nelle viscere. Così è dell’amore, così è dell’orazione che è il tempo preferenziale dell’amore perché in esso ogni uomo torna alla sorgente del suo essere e si riconsegna a Colui che dal suo Soffio di vita ci ha resi viventi. Come non si può vivere senza amare ed essere amati, così è pura illusione vivere senza dialogare con Dio. Non è un caso che madre Teresa di Calcutta, oggi santa, a chi, sacerdoti soprattutto, chiedeva una strada per vivere al meglio il proprio ministero rispondeva con una nuova domanda: «Lei quante ore prega al giorno?» perché tanto uno vale per quanto uno prega, quanto uno sente di essere vivo per quanto dinanzi a Dio si consegna, tanto uno si dona agli altri, per quanto nell’orazione si percepisce dono. La preghiera è il peso specifico del cristiano perché il parlare con Dio dona consistenza alle parole da usare con gli uomini e rende il proprio cuore canale di misericordia, legandolo alla sorgente perenne dell’essere amore che è Dio.

La necessità di pregare sempre, senza stancarsi 

C’è nel brano odierno una seconda nota presentata da Gesù, che ci stupisce, lasciandoci alquanto interdetti. Non solo è necessario pregare, ma farlo anche sempre. Tale avverbio trova eco in 1Ts 5,17 dove Paolo dice di “Pregare senza interruzione”. Appare superfluo dire che l’espressione va ben interpretata, per evitare di cadere in assolutizzazioni che rappresentano un vero pericolo. Prega sempre colui che in tutto quello che fa tiene il cuore rivolto a Dio, alla sua volontà, alla realizzazione del suo progetto. Pregare sempre significa vivere ed operare alla presenza del Signore. Come nel tempo dell’orazione la mente ed il cuore sono fissi in Dio, così prega continuamente, mantiene il dialogo d’amore con il Padre chi non smette di vivere nella sua volontà, proteso a fare ciò che a Lui piace. Questo non vuol dire che i tempi della preghiera sono superflui perché basta che il cuore sia vigile. Rappresentano giustificazioni infondate affermazioni come queste, come può custodire il proprio cuore nella volontà di Dio chi non l’ha ricercata nel tempo prolungato della preghiera? Come si può vivere di Dio tra le mille attività della quotidianità, chi non ha gustato nel silenzio la sua voce, accogliendo nell’intimo il suo alito vitale, la suo segreta parola che comunica gioia? I tempi di preghiera sono sacrosanti e vanno rispettati, ricercati e difesi, ma è altrettanto vero che il dialogo iniziato nel silenzio deve continuare come relazione amorosa nel dispiegarsi della giornata, tra il fiorire delle nostre molteplici attività. Il tempo dell’orazione mi conferma nella professione di fede, corrobora la mia volontà di servire il Signore, di ricercare la sua voce, di vivere il suo disegno, di mettere la mia vita a servizio dei fratelli. Quando prego mi è donata la verità ed il senso del tempo ovvero apprendo che le mie giornate sono finalizzate a vivere nella relazione con Dio e con i fratelli. Ciò che vivo nella preghiera non può essere una bella parentesi, un momento di intimità – meglio dire intimismo – dove fuggo dalla giungla della mia vita frenetica, quanto, invece, il momento dove imparo a sentire la voce del Diletto per riconoscerla tra mille.

La preghiera è un mistero di amore che comprende solo chi ama. Chiedi a chi ama cosa significa aver bisogno dell’amato e non saprà risponderti in maniera soddisfacente perché stare con l’amato è un bisogno dell’anima, spesso indescrivibile, un desiderio insopprimibile. Come si può spiegare il battito del cuore di chi attende l’amato, di chi sprofonda nel suo abbraccio, di chi vive del suo alito? La preghiera non è frutto di razionalizzazione, ma di esperienza e, come la vita, è sempre difficile da descrivere in tutte le sue sfaccettature. Intender non può chi non lo prova, dice il sommo Poeta. Solo chi ama sa che, pur tra le mille cose che si fanno, il cuore e la mente è fissa sull’amato perché l’amore lo muove all’oggetto del suo piacere e le cose che si fanno acquistano un senso se fatte per amore dell’amato, per il desiderio di essere il suo diletto, di procurare la sua gioia, di spingerlo allo stupore e al sorriso, di meritare la sua letizia. La preghiera è amore allo stato puro, tu sei amato per quello che sei, non per ciò che hai, sei accolto perché sei tu e non altri, sei abbracciato nella tua povertà, guarito nella tua infermità, curato nel tuo dolore, sollevato nella tua miseria. Chi esce dal dialogo orante con Dio non solo è trasfigurato come Gesù sul Tabor, ma trasfigura cioè semina nella vita la nostalgia di quel volto contemplato e vive tutto in comunione con quel Dio che ha fissato nel silenzio. Come lo sposo, allontanandosi dalla sua donna, la porta con sé, nel cuore e nella mente e cerca di fare tutto con lei e per lei, così chi prega ha Dio in sé, sempre vive la comunione con Lui, è certo della sua assistenza, sicuro della sua presenza, confermato nel suo aiuto, abbandonato al suo volere.

Bisogna pregare, bisogna pregare sempre, bisogna pregare sempre senza stancarsi. Questa terza nota è quella che più colpisce nelle parole del Maestro perché qui entriamo nel mistero più profondo della relazione con Dio. Penetro nella preghiera attraverso il silenzio che è sì possibilità di dialogo, ma offerto a Dio che, proprio perché libero, può anche tacere, farsi attendere e alla fine non venirmi incontro. Parlare con il Signore è un’arte che non si improvvisa, ma che si impara con pazienza, si studia con assiduità, rispettando l’Altro che rispetta me nella relazione e nell’incontro. Nell’amicizia con Dio, sembra dire Gesù, nulla è scontato, si è sempre in ricerca, mendicanti dell’amore che Egli dona sempre, ma che talvolta vuole gli venga chiesto con insistenza.

Tra persone che si amano di vero cuore talvolta si innesca una strana dinamica che può sembrare indifferenza, ma è soltanto attesa che l’altro/a ti cerchi e comprenda il bisogno dell’amore, della presenza, della parola di colui/colei che ama. Con Dio è la stessa cosa. È vero, Egli sa ciò di cui abbiamo bisogno, ma non di meno vuole che la nostra supplica sia costante, perseverante il nostro grido, non perché Lui non sente, ma perché nel dispiegarsi del tempo la domanda si purifichi, la ricerca del vero bene da chiedere si raffini, così che si domandi non ciò che più piace, ma ciò che più vale davvero la pena chiedere. La preghiera – ed è questo che spesso si dimentica – è una relazione e un dialogo vivo, parlo con un Tu che mi ascolta e mi parla, mi interpella e mi provoca. In tale scambio io talvolta lo lodo e lo ringrazio, altre volte chiedo la luce della sua volontà ed il fuoco del suo amore, domando ciò di cui si avverte il bisogno e lo supplico perché manifesti la sua misericordia nelle situazioni preoccupanti della vita degli uomini. Ed è qui che la preghiera può generare stanchezza, si possono vivere le secche del silenzio assordante, il mutismo di Dio che non risponde, pur mantenendo il suo sguardo su di te. Ecco perché Gesù ci ammonisce a pregare “senza stancarsi mai” (v. 1), ovvero senza lasciarsi abbattere e vincere.

Come per Abramo, l’attesa del passaggio del Signore che stringe alleanza si può far attendere “Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono” (Gen 15,12). Non è semplice attendere il Signore, rimanere desti perché il sonno dell’oblio e del tedio, della stanchezza e della solitudine non consumi l’anima. Il tempo della preghiera è l’agone spirituale, l’arena dove il Nemico ci assale con pensieri oscuri che vogliono allontanarci da Dio e farci vacillare nell’attendere la sua certa venuta. Il Signore permette il cadere del torpore, come anche il terrore e l’oscurità perché il nostro desiderio di Lui si purifichi, mentre non ci lascia soli nella lotta. Sì, la preghiera è lotta, non tanto contro Dio, quanto contro se stessi, contro il proprio desiderio di gettare la spugna, di dedicarsi ad altro, di non “perdere tempo”. Difatti, la prima tentazione che prende gli incipienti – coloro che iniziano a pregare e muovono i primi passi nella relazione con Dio – è lo scoraggiamento, il credere che Dio non ascolti, che non si prenda cura di noi, che è molto più utile dedicarsi alla concretezza della vita, a combattere le ingiustizie, a vivere le difficoltà al fianco di chi è senza voce. Chi non mistica non mastica, ovvero chi non prega, non sa neppure masticare la concretezza della vita. Dinanzi a queste voci del demonio sorge nel nostro cuore lo scoraggiamento, ci sentiamo persi – chi non si sente smarriti quando muove i primi passi in una realtà nuova? – e siamo portati a lasciar perdere, a dire che è bene rimandare a un altro giorno. Ecco perché Gesù chiede di non stancarsi e di non abbattersi dinanzi alle difficoltà, ma di preservare perché “il Signore non tarda ad adempiere la sua promessa” (2Pt 3,9).

Per vincere la stanchezza

Ciò che risulta difficile nella preghiera è la perseveranza. Numerose pagine della Scrittura lo mostrano ecco perché risulta del tutto normale chiedersi: come si fa a non stancarsi nella preghiera, a non soccombere nella prova, ad impedire che il tentatore prevalga sulla nostra debolezza? Semplice! In primo luogo, si supera lo stallo riflettendo sul fatto che noi preghiamo nella forza dello Spirito, uniti a Gesù. Si tratta della cosa basilare, ma che viene così facilmente disattesa perché crediamo che la preghiera dipenda da noi, che il centro siano i nostri desideri, il nostro sentire Dio e la sua presenza. Nulla di più sbagliato! La preghiera, il dialogo d’amore con il Padre è un dono di Gesù per i discepoli che sono chiamati a custodirlo – è questo è l’impegno del credente – perché tale rapporto metta radici in lui e lo conduca ad essere figlio nel Figlio che è Gesù Cristo. Quando parlo con il Padre, io mi unisco a Gesù nella forza del suo Spirito, entro nel flusso della preghiera del Figlio, nella voce orante che sgorga dal suo cuore e raggiunge il Padre, un cuore che raccoglie in sé le gioie e le speranze dell’umanità stanca e sfinita, le paure e le angosce di ogni uomo. Gesù prega in me perché “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza perché neppure sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa cosa desidera lo Spirito, perché intercede per i santi secondo Dio” (Rm 8,26-27). Lo Spirito mi unisce al Figlio non solo nell’orientare tutto al Padre, ma nel ricevere da Lui la conoscenza della sua volontà e la forza di vivere di essa come unico cibo che sostiene il cammino. Lo stesso Maestro lo dice “Tutto mi è stato dato dal Padre mio: nessuno conosce il Padre se non il Figlio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). La stanchezza è vinta dalla certezza che Gesù è con noi e ci partecipa la sua stessa orazione, ci innesta nella sua relazione filiale con il Padre. È questo che accade non solo quando Gesù insegna il Padre nostro (cf. Lc 11,1-4), ma anche quando conduce i suoi nel Getsemani (cf. Lc 22,39-46), invitandoli a pregare con Lui e rimproverandoli per non essere riusciti a vegliare nella prova.

Da questa prima riflessione dipende la seconda considerazione che può aiutarci a vincere la stanchezza. Il dono di Gesù è grande, ma la nostra debolezza ci conduce a cadere. Ecco perché la seconda tavola di salvezza è la certezza di avere delle persone che sostengono il nostro impegno. Già la scorsa domenica abbiamo visto come i dieci lebbrosi gridavano insieme verso Gesù – “Gesù maestro, abbi pietà di noi” in Lc 17,13 – perché “se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà” (Mt 18,19). La comunione nella preghiera non serve solo a perorare la nostra richiesta, ma a non soccombere alla stanchezza. La figura di Mosè, di cui leggiamo oggi nella prima lettura (cf. Es 17,8-13), è un esempio straordinario. Mentre Giosuè combatte contro Amalek, il grande legislatore sta sul monte con le mani alzate, in segno di preghiera e di intercessione. Aronne e Cur, ai suoi lati, lo sostengono perché con il protrarsi del combattimento le mani divenivano pesanti. Prendere la mano dell’altro non è forse anche il gesto della promessa nuziale? In ogni occasione sostenere l’altro, afferrando la sua mano è il segreto per non soccombere, nella preghiera come anche nella vita. 

Un insegnamento per immagini

La parabola del giudice e della vedova rappresenta l’esemplificazione dell’imperativo di Gesù. I personaggi che il Maestro usa, non solo sono tratti dal vissuto degli ascoltatori, ma servono ad imprimere meglio nell’animo dei discepoli la parola in precedenza trasmessa, soprattutto se sono vive e la descrizione così minuziosa. Leggendo la nostra parabola con l’altra dell’amico importuno (cf. Lc 11,5-8) – alcuni le definiscono parabole “gemelle” – ci rendiamo conto che la domanda del Signore “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11,13) è diversamente presente nella nostra pericope, con analogo significato “E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente” (v. 7). Dio è buono con noi e ci esaudisce. Dobbiamo però chiedere, come la vedova, che ci faccia giustizia, ovvero che si realizzi in noi la sua volontà – solo questa è autentica preghiera, come Gesù insegna nel Padre nostro –  frutto del nostro desiderio di avere fede in Lui.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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2 risposte su “Prego per legge o per amore? Piccoli passi per imparare a pregare…”

Grazie mille, nel leggere mi si è riempito il cuore di gioia, amore e speranza e le lacrime hanno varcato le mie guance. Solo quanto sento Gesù nel mio cuore sento che tutto mi è possibile anche tra le mille difficoltà nel voler operare un po di bene. A volte chi ci sta intorno, chi comanda, chi potrebbe e non opera nulla di buono ci ostacola, ci impedisce di camminare come vorremmo e ci riempie il cammino di pericoli ed ostacoli che solo il Signore può liberare. E allora siamo portati a lasciare perdere, ma forse non va bene così perché altrimenti non si spiega il tanto desiderio del cuore di voler fare quolcosa di giusto, qualsosa in più, di dare qualcosa che venga scritto nel cielo e non solo sulla terra. Chiedo solo al Padre di poter sempre saper distinguere quello che Lui veramente vuole da me. Un abbraccio affettuoso Maria Milione

Questa notte le mie dita si muovono su una tastiera di un pc, come se fosse quella di un pianoforte.
Suonano un canto di una melodia dolce, che nel silenzio della mia stanza solo Dio può ascoltare e sentire il battito del mio cuore.
E’ proprio vero, quando il sacerdote scrive che la “preghiera è un mistero di amore che comprende solo chi ama”.
E’ tanto difficile da spiegare, quanto semplice e bello da vivere.
La lettura di questo testo, mi fa ricordare a quella volta in cui un sacerdote in un’omelia disse che bisognava pregare con e per amore, e le tante volte in cui durante la “lectio divina”, ci ha spiegato come pregare.
Rivivo quei momenti, quelle affermazioni che destavano in me scetticismo, forse perché non riuscivo a comprendere con pienezza. Così, ho pensato che fosse semplice comprendere tutto ciò solo per i sacerdoti, che conoscono la teologia e hanno il dono della vocazione.
Pensavo, che non avrei potuto, gustare tutto ciò non essendo né prete e non avendo la vocazione.
Ma non è così!
Nella mia mente pregare e preghiera erano sinonimi.
Grande errore, che ho capito dopo!
Le “preghiere” sono parole che vengono recitate senza capire il significato, una volta recitate, vogliamo che Gesù, ci ascolti e faccia e ci dia ciò che vogliamo.
Pregare, invece, è il dialogo che facciamo con Gesù, che ci fa conoscere il Padre.
Quando, non so come e perché, non so neppure spiegarlo, ho capito che Dio ha bussato al mio cuore, è entrato e ha iniziato delicatamente a togliere la polvere.
Man mano che il polverone si alzava, fino a farmi mancare il respiro, il mio cuore, la mia coscienza sono stati presi dall’ansia; in me c’è stato subbuglio e la mia mente, è entrata in confusione. Mentre mente e cuore viaggiavano ognuno per conto proprio, sentivo di abbandonare la mia vita a Dio, chiedere aiuto a Lui, senza comprendere che stava operando già in me!
In questa enorme confusione, con la consapevolezza di non conoscermi più a fondo, sento l’esigenza, anche se frenata dalla timidezza, di chiedere spiegazione ad un sacerdote di mia fiducia.
Sento l’esigenza di un qualcosa a cui non riesco a dare un nome, sento il bisogno di essere guidata spiritualmente.
Piano piano, col passare del tempo, mi accorgo che le preghiere che prima rivolgevo a Dio, erano parole espresse senza significato; ora invece iniziano a diventare parole lente e dolci che escono dal cuore. Sento che sto parlando con una Persona che ti ascolta, ti consiglia, ti ama e non ti tradisce mai. Sento che fa in me opere speciali, mi puntella nei punti più deboli, mi rende forte alle sofferenze quotidiane, mi calma quando dovrei essere arrabbiata; quando si presenta l’inganno, Lui è pronto a difendermi, non mi fa sentire sola nella mia solitudine.
Quando si parla con Gesù, bisogna allenarsi ad avere confidenza come si fa con la persona più cara che si ha accanto.

Nel profondo di questa notte e in questo silenzio, Abbà Padre ti chiedo:
Prendimi per mano e insegnami a camminare con te,
donami il tuo sguardo quando mi sento sola,
misura la mia lingua, quando sono arrabbiata,
fammi sentire il battito del tuo cuore quando sono triste e delusa,
donami un cuore di amore con chi non mi ama,
fa che il mio lavoro sia una missione per aiutare gli operai,
fammi sentire la tua voce quando non so prendere decisioni,
fammi sentire il dolore nel cuore quando sto sbagliando,
avvolgimi in un abbraccio caloroso e affettuoso quando mi sento come tu sai!

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