XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C - 23 ottobre 2016

L’umiltà, la capacità di lasciare a Dio il primo posto

mani

di fra Vincenzo Ippolito

Il demonio lavora nella retroguardia del nostro egoismo, semina la zizzania di notte, quando non è visto, con il favore delle tenebre e, di giorno, guarda come la semente mette radici nelle debolezze delle forze umane.

Dal Vangelo secondo Luca (18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». 

 

La pagina odierna del Vangelo, unitamente a quella della scorsa domenica (cf. Lc 18,1-8) forma il “piccolo catechismo sulla preghiera”, ammonimenti concreti che il Maestro rivolge ai discepoli prima della sua Pasqua. Il dialogo amicale con il Padre – sembra dire Gesù – si regge su due pilastri, entrambi egualmente essenziali, cosa chiedere nella preghiera e come chiedere nella preghiera. Difatti, mentre la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna mostra quanto sia necessario non solo pregare con perseveranza, ma, al tempo stesso, chiedere la giustizia – “Fammi giustizia contro il mio avversario”, v. 3 – ovvero l’adempimento della volontà di Dio, la parabola del fariseo e del pubblicano (cf. Lc 18,9-14) che la liturgia ci dona oggi, è incentrata sulla giusta modalità che deve accompagnare ogni nostra richiesta. Cosa chiedere e come chiedere sono quindi gli assi cartesiani della nostra relazione con Lui e tra noi che la preghiera deve vivere e manifestare.

Un lavoro di interiorità

La struttura della parabola del fariseo e del pubblicano richiama quella del giudice iniquo e della vedova importuna (cf. Lc 18,1-8). La descrizione dell’accaduto, infatti, è al centro della narrazione evangelica (vv. 10-13), preceduta dall’introduzione che offre il tema da sviluppare (v.9) e seguita dalla conclusione con l’insegnamento morale che ne deriva (v. 14). In tal modo, se l’introduzione offre una contestualizzazione della parola di Gesù e diviene chiave per comprendere l’intenzione che muove il suo insegnamento, la conclusione propone una richiesta indiretta perché gli ascoltatori seguano l’esempio positivo del pubblicano, mentre si guardino bene dal farsi compagno del fariseo. Queste tre parti – introduzione, parabola, conclusione – sono sapientemente costruite dall’Evangelista perché chi segue il Signore sulla via della croce abbia chiaro dinanzi a sé che solo rivestendosi dei sentimenti di Cristo (cf. Fil 2,5), solo imparando da Lui, mite ed umile di cuore (Mt 11,29) a fare la volontà del Padre, solo seguendo l’esempio di colui che sta in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc 22,27) si attraversa la porta stretta della morte e, rinnovati dalla luce del Risorto, si riceve la missione di annunciare la conversione e il perdono dei peccati fino agli stremi confini della terra. L’Autore sta offrendo ai suoi lettori una nuova opportunità per comprendere che solo facendo propria la strada dell’umiltà, scegliendo l’ultimo posto, Dio volge il suo sguardo e ci ricolma delle sue benedizioni.

Scrive l’Evangelista: “[Gesù] Disse poi un’altra parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”, (v. 9). È un dato significativo quello che emerge, ovvero il passaggio dai gesti della preghiera – si pensi alla vedova che andava continuamente dal giudice a chiedere giustizia – all’interiorità, allo spirito che deve animare la preghiera, rendendola gradita al Padre.  I gesti esterni, come anche le parole, da soli non bastano a rendere vera la relazione con Dio – sembra ammonirci san Luca – perché Egli desidera la sincerità del cuore (Sal 50,8), più che i sacrifici, la misericordia (Os 6,6) come capacità non solo di accogliere l’amore di Dio, ma di metterlo in circolo come dinamica di trasformazione della storia. Ciò che conta, parlando con il Padre, è il cuore perché il cuore è la sede del pensare e dell’agire, del volere e del riflettere. Gesù, sapendo che il Padre non guarda l’apparenza, ma al cuore (1Sam 16,7), vuole la purificazione della nostra interiorità perché con le mani pure, anche l’animo sia mondo perché voce, gesti e cuore si accordino nel ritmo della lode di Dio.

Guarire nell’intimo appare la cosa più ardua per l’uomo, non certo per Dio a cui nulla è impossibile. Egli ci guarda in profondità, per questo il salmista prega “Signore, tu mi scruti e mi conosci” (Sal 138,1). Inutile nascondersi dinanzi al suo sguardo, come Adamo ed Eva dopo il peccato, perché “Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,13). Il Padre ci conosce e ci guarda, lungi però da Lui il giudizio e la condanna perché egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf. Ez 33,11). Dio desidera regnare nel nostro cuore come Signore, per questo ne chiede la purificazione. Dio vuole che la nostra mente sia totalmente orientata alla sua volontà, per questo interviene con la sua parola che estingue la pula e lascia solo il buon grano. Cristo ci chiede di mettere ogni impegno perché ciò che appare al di fuori sia il riflesso cristallino delle intenzioni rette che abitano dentro di noi. Nel cammino di sequela siamo continuamente invitati a rientrare in noi stessi, anzi, potrà sembrare strano, ma, andando avanti, si entra maggiormente nel proprio mondo interiore lì dove il Signore desidera abitare con la grazia del suo Spirito. La vita di fede è un cammino di interiorità, di introspezione. Ecco perché sant’Agostino ammonisce a rientrare in se stessi, senza fuggire all’esterno – Noli foras ire, in te ipsum redi – nella ricerca della verità di se stessi e di Dio. Proprio tale cammino di interiorità e di guarigione, di introspezione e di coerenza è richiesto dal Maestro di Nazaret ai suoi discepoli, lungo la strada che conduce a Gerusalemme.

La coppia, come anche la famiglia è il luogo dell’intimità e della profondità dei rapporti, della sincerità e della gioia di condividere ciò che si è e si sta vivendo. In essa ogni gesto di superficialità e di apparenza, di formalismo e di chiusura palese o nascosta rischia di ledere la comunione e di rendere freddo e glaciale la bellezza e il calore del primo amore. L’inverno del rapporto, infatti, non è semplice da attraversare, se non attraverso una ferrea volontà e un amore grande che sa sposare il sacrificio fino all’offerta eroica di sé. Dobbiamo educarci alla profondità e all’introspezione, aiutarci a conoscerci ed accoglierci, senza giudizi e preconcetti, ma con la segreta speranza di sapere che il cuore dell’altro, come anche il proprio, non è solo una palude da bonificare, ma la terra promessa dove grandi tesori sono nascosti. È tra le mura domestiche che abbiamo la grazia di imparare la dinamica della purificazione dei desideri, del discernimento delle voci interiori, della riflessione comune su ciò che è il nostro vero bene. È in famiglia, come anche nella propria comunità religiosa o parrocchiale – o almeno così dovrebbe essere! – che si è sostenuti durante il cammino, corretti negli errori, rialzati nelle cadute, abbracciati nell’afflizione, consigliati nel dubbio, traghettati verso la libertà, quando le schiavitù interiori ci impediscono di fidarci dell’altro/a, di lasciarci amare come anche di amarlo. È questo, infatti, il cammino che Gesù popone ai discepoli e a quanti ascoltano la sua parola. Che senso ha seguire il Maestro se il seme del suo insegnamento non mette radici in profondità? Ma come può il seme crescere se il terreno non viene dissodato? Come può essere liberato dalle spine e dai cardi, dalle pietre e dalle erbacce se il divino Agricoltore non pretesta la sua alacre opera e rende un giardino irrigato ciò che, per incuria dell’uomo, è una pianura dove regna incontrastata la morte? Questo fa in noi la parola del Signore, se accolta con gioia e totale disponibilità di cuore e di mente.

Sradicare la presunzione ed il disprezzo 

Ciò che Gesù vuole operare in noi, come anche in coloro che ascoltano la sua parola, è bandire atteggiamenti doppi, combattere l’arroganza e la presunzione, sanare discrepanze tra ciò che si vede all’esterno e quanto si pensa nella mente, si desidera nell’animo e ci si porta nel cuore. Per questo si rivolge ad “alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” (v. 9).  

È terribile la presunzione e la superbia, il considerarsi superiori agli altri, il guardarli dall’alto in basso, disprezzandoli perché membri di un diverso e più infimo rango. Il Signore qui entra nelle più oscure del nostro cuore, perché vuole guidarci a saper scandagliare i pensieri, discernere i moti dell’animo, osservare con attenzione ciò che ci portiamo dentro perché spesso facciamo entrare in noi pensieri che sono dei veri e propri cavalli di Troia, noi li crediamo innocui, ma in realtà contengono una nemica forza nascosta che, quando meno ci aspettiamo, ci conduce alla resa. Il demonio – oh, quanto superficialmente misconosciamo la sua azione, bollandolo inesistente, quando, invece, egli proprio questo desidera, non essere considerato, così da operare inosservato e incontrollato – “come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” (cf. 1Pt 5,8). Egli lavora nella retroguardia, semina la zizzania di notte, quando non è visto, con il favore delle tenebre e, di giorno, guarda come la semente mette radici nelle debolezze delle forze umane. Tanti pensieri che appaiono santi, in realtà possono nascondere una sottile superbia, quel senso di umana supponenza e gratificazione che spesso non viene riconosciuto, né smascherato, ma che è deleterio per noi e per i nostri rapporti. Per questo è necessario bonificare la nostra interiorità, discernere i pensieri, bene ponderare ogni cosa. Ecco perché san Giovanni ci mette in guardia “non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio” (1Gv 4,1).

Se guardiamo senza edulcorazioni lo spaccato della nostra vita, di coppia e familiare, ci rendiamo conto di quanto male causa la presunzione ed il disprezzo degli altri. Veleni mortiferi che escono dal cuore dove Cristo non regna come Signore, essi si spandono nell’aria, rendendola invivibile e causando non solo la fine di tanti nostri rapporti, ma anche impedendo il nascere di tanto bene in noi e tra noi. È deleterio per i figli crescere in un ambiente familiare nel quale i genitori guerreggiano a chi deve prevalere, perché, giudicandosi reciprocamente, fanno vincere il proprio io, senza riuscire a costruire il noi, quell’unità tanto sognata e desiderata nel momento del fidanzamento. L’amore rifiuta il disprezzo. L’amore bandisce la presunzione. L’amore non imbocca la via della superbia perché è per natura sua umiltà.

Perché è così difficile tra gli sposi vivere da eguali, non sentirsi migliore di chi mi sta accanto? Che senso ha cercare di superare l’altro/a, visto che è parte di me? Essere geloso della persona che è una sola carne con me, vuol dire fare guerra a se stessi e disprezzarla vuol dire ledere in profondità il patto nuziale stipulato nel sangue del Signore Gesù. Perché è così difficile da comprenderlo? Perché, sapendolo, si cade continuamente? Per qual motivo non riesco a vedere nell’altro un aiuto e non un nemico, la mia forza e non il mio antagonista? I doni che egli/ella ha sono anche i miei, come anche ciò che di buono il Signore ha messo in me è anche suo! È questa la bellezza della complementarietà che l’essere una sola carne crea tra gli sposi.

Gesù non può correre il rischio – almeno Lui cerca di evitarlo! – che alcuni entrino nella Città santa, al suo seguito, appesantiti da atteggiamenti non consoni all’essere suoi discepoli. Spesso anche noi ci trasciniamo nel cuore piccoli e grandi compromessi. Il Maestro, dal canto suo, non può permettere che questo avvenga, perché chi lo segue deve mettersi seriamente in discussione e giocare il tutto per tutto nella relazione con Lui e con i fratelli. In tal modo, Luca conduce progressivamente il suo lettore a quella consapevole scelta di povertà che parte dalle cose materiali, ma che poi deve giungere al cuore, perché è lì che il discepolo deve spogliarsi delle sue più profonde sicurezze, gettando ogni tipo di maschera e unendosi a Colui che si fece povero e visse l’umiltà fino alla morte di croce. Anche nella nostra vita giunge un momento in cui il Signore ci mette alle strette, chiedendoci di fare un salto nei buio, sapendo che Egli è capaci di afferrarci sempre, perché il suo bastone è la nostra sicurezza, il suo vincastro la nostra forza. Solo Gesù può aiutarci ad entrare in noi stessi perché Egli – è ancora Agostino a dirlo – è più intimo a me stesso di me stesso e quindi solo Lui “scruta le menti e saggia i cuori” (Ger 17,10).

La tentazione di centrare su di sé la propria vita

Due amori hanno fatto due città – scrive Agostino di Ippona – l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e l’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Proprio questi due amori sono esemplificati nei due uomini che Gesù presenta nella parabola. Scrive san Luca “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano” (v. 10). Apparentemente non c’è diversità tra loro, perché entrambi sono mossi da una medesima buona intenzione, pregare, in un luogo sommamente sacro come il tempio, casa di preghiera per tutti i popoli. La differenza quindi non sta tanto nell’essere uno fariseo e l’altro pubblicano, quanto, invece, nel modo in cui si articola la preghiera di ciascuno.

È significativo notare lo stile usato dall’Evangelista nella narrazione. La descrizione del fariseo è scarna, a parte la sua postura, nulla ci viene detto dei suoi gesti, mentre molto più articolato è il racconto della sua preghiera; di contro, nel caso del pubblicano si nota una minuziosa attenzione ai suoi gesti, mentre la sua preghiera è un continuo ritornello di un’unica frase “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Entrambi le preghiere hanno Dio per interlocutore – è veramente così? – ma sono animate da diverse intenzioni che si esprimono poi in atteggiamento contrari.

Il fariseo è il classico fedele sicuro di se stesso. Egli sembra procedere nel tempio a testa alta, nessuno può dirgli nulla perché integerrimo nell’osservanza anche delle minime prescrizioni della legge. Non è difficile immaginarselo nel suo procedere, nell’avanzare incurante di tutti, fino a fermarsi, rimanendo in piedi, quasi nel gesto sfrontato di venire a contesa con Dio, dimostrando le sue credenziali, la sua giustizia derivante dalla sterile osservanza di precetti che non alimentano il cuore e rendono disumana la vita. Alla postura si accompagna una preghiera dello stesso tenore, non solo fatta “tra sé”, ma “rivolto verso di sé” perché è il suo io il centro della sua supplica, una chiara autogratificazione che non è ricerca di Dio, l’ascolto della sua volontà, manifestando la docilità a fare ciò che a Lui solo piace. Quanto diversa è la voce del salmista che tiene i suoi occhi al Signore perché abbia di lui pietà (cf. Sal 122,2)! Che poi tutto giri intorno a lui, lo dimostra anche ciò che nella preghiera dice. Difatti, da un punto di vista formale, la sua è una orazione ineccepibile. Inizia con una espressione rituale di ringraziamento – “O Dio, ti ringrazio” – ma subito dopo il registro cambia rispetto ai testi eucologici dell’Antico Testamento. Mentre nella preghiera d’Israele il pio fedele loda e ringrazia il Signore per i benefici che gli ha accordato, qui, invece, il fariseo opera una notevole calata di tono, è partito bene, ma si perde per strada, manifestando, in primo luogo, la sua superiorità sugli altri uomini, giudicandoli e disprezzandoli come “ladri, ingiusti e adulteri” e decretando la sua totale separazione da loro. Anche il suo sprezzante giudizio nei riguardi del pubblicano manifesta presunzione e superbia.

Nella sicura cittadella costruita dal suo egoismo non c’è posto per nessuno, se non per se stesso, non solo gli altri sono messi alla porta, bollati con gli appellativi più offensivi, ma perfino Dio, verso il quale la sua preghiera sembra rivolta, è fuori. Nella roccaforte della sua autosufficienza il fariseo continuamente brucia incensi alla propria immagine che difende, cura e adora, incurante che c’è un mondo a ruotargli intorno, con uomini e donne che ricercano sinceramente la via della verità e della gioia. A questa situazione di terrificante egoismo, in un delirio di religiosa onnipotenza, nell’atto di auto elogiarsi dinanzi a Dio si aggiungono le sue parole volte a far leva sull’osservanza della legge, con la pratica costante del digiuno due volte alla settimana – quello prescritto da Lv 16,29 era una volta all’anno, nel giorno dell’espiazione – e la decima che i farisei pagavano su quanto avevano, evitando l’eventuale pericolo che non fosse stata pagata da coloro dai quali acquistavano le cose di cui avevano bisogno. Così scrupoloso nelle patiche legali, tanto indifferenti nella carità verso il prossimo. Altre pagine lucane chiariscono la dinamica dell’autosufficienza che scandisce una condotta scandita dal solo formalismo.

Si può anche vivere da uomini religiosi, ma non essere uomini di fede; si può essere rispettosi e pii, fedeli e scrupolosi osservanti della legge, dottori che leggono e studiano la Scrittura e ne conoscono le recondite richieste, ma non avere Dio per Padre. Non c’è posto per il Signore nella vita del fariseo. Nel formalismo che lo circonda, di cui si è fatto una corazza, nell’autoelogio di cui le sue parole sono piene, nel narcisismo che crea distanze e muri di divisioni tra lui e gli altri non c’è Dio. Può sembrare strano, il Signore non abita la vita di chi si sente perfetto, non ama stare accanto a chi non gli fa spazio in un cuore contrito e umiliato. 

Può sembrare strano, ma anche noi vestiamo, consapevoli o meno, i panni del fariseo. Come talvolta in ognuno ci può essere il cuore di Giuda pronto a tradire il Signore oppure il timore di Pietro che lo condusse a misconoscere il Maestro – la purificazione del cuore ed il rinnegamento di sé servono proprio a far posto a Dio e alla sua potenza d’amore – così siamo continuamente ammaliati, come Ulisse, dalle voci della superbia, dal desiderio di credersi importanti, migliori degli altri, di fare sempre e tutto bene. Nessuno è capace – lo diciamo in silenzio a noi stessi – di fare quello che noi facciamo, sbrigare una situazione complicata o anche risolvere un problema raccapricciante. Quel sorriso sornione che facciamo sotto i baffi dinanzi agli altri che osservano le nostre doti o il monologo soddisfatto delle nostre qualità è la gratificazione che paghiamo al nostro egoismo, quando il riconoscimento degli altri manca. Convinti di trovar vanto dalle nostre opere – la critica di Paolo contro questa erronea visone nella vita è il filo rosso che percorre molti dei suoi Scritti – non abbiamo bisogno degli altri se non quando il nostro io necessita di essere confermato con la lode, riconosciuto con i complimenti, gratificato con il palese riconoscimento. Com’è duro da far morire il nostro io! Ma se non iniziamo una buona volta questa guerra, nella nostra vita non ci sarà posto né per Dio né per gli altri e vivremo illudendoci.

Ciò che rende infruttuoso l’amore nelle nostre relazioni è proprio l’egoismo, la presunzione, la superbia. Fin a quando siamo disposti ad assecondare i capricci dell’altro/a, le pretese del suo amor proprio, battendo le mani ad ogni minima cosa e profondendoci in complimenti e lodi, tutto procede per il meglio, ma quando, invece, cerchiamo di imboccare la strada della crescita e della maturità dell’amore si assistono a continue ribellioni e alzate di scudi. Spesso capita tra sposi che si vivono vite parallele, ciascuno chiuso nel suo egoismo, senza ledersi e sfiorarsi si va avanti, totalmente passivi, incapaci di comunione, di condivisione, senza sperimentare la bellezza della complementarietà nel dono. Da questo torpore vuole scuoterci il Signore perché non ha senso una vita di coppia, una relazione tra amici, rapporti in una comunità parrocchiale o religiosa se bisogna stare attenti agli equilibri. Solo se ci si toglie la corazza e con coraggio si prende la via del Golgota si può amare sul serio e vincere il formalismo con il desiderio di crescere con Dio e tra noi.

La giustificazione che viene dall’umiltà

Agli antipodi del fariseo è la figura del pubblicano. Egli si ferma a distanza, non ha il coraggio di alzare lo sguardo al cielo, si batte il petto in segno di pentimento, riconoscendo il proprio peccato, e confida in Dio, nella potenza della sua pietà. Egli sa che “presso il Signore è misericordia, grande è presso di lui la redenzione” (Sal 129,7) e si abbandona in Lui, in Lui ripone la sua speranza, da Lui attende la salvezza. Bella la sua preghiera “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, un mormorio che sgorga dal cuore, una richiesta confidente di abbandono nelle braccia di Dio perché “a te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno” (Sal 10,35). Dio giustifica chi si rivolge a lui con cuore sincero, ovvero crea e consolida quella relazione che rende l’uomo partecipe del suo regno, della perfetta e profonda comunione con Lui, della gioia della salvezza.

È necessario riscoprire l’umiltà come la virtù cardine della vista cristiana, sull’esempio del Figlio di Dio (cf. Fil 2,6-11). Questa sola è la via per essere una carne sola, nel comune desiderio di edificare su Cristo la propria famiglia. L’umiltà è la capacità di creare relazioni con Dio e tra noi perché si lascia al Signore il compito di costruire la sua casa in noi e di custodire la sua città d’amore tra noi.




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