Diventare padre

“Quando sono diventata madre, il femminismo mi ha deluso”

pixabay

di Gabriele Soliani

Diventare padre anche senza una madre? Oggi si può. Basta scegliere una donna disposta a vendere il proprio corpo. Ma di fronte a questo stato di cose l’emancipazione femminile fa un passo indietro: sono sempre di più, infatti, le donne che combattono per la libertà da questa forma di femminismo radicale.

Per diventare padre occorre una donna che produca un ovulo con 23 cromosomi e lo offra all’incontro con uno spermatozoo che abbia altrettanti cromosomi. Una donna che abbia un endometrio uterino preparato dagli estrogeni e predisposto, all’impianto della morula embrionale, dal progesterone. Una donna che abbia il corpo luteo, cioè un piccolo residuo del follicolo esploso per espellere l’ovulo; che produca il progesterone per tre mesi, in attesa che la placenta lo produca in abbondanza per gli altri sei mesi; che abbia l’utero che si dilati senza contrarsi per nove mesi e che sia in grado di ridurre il progesterone per far partire le contrazioni necessarie ad espellere il bambino attraverso il canale vaginale dilatato. Nonostante la meraviglia della fisiologia della gravidanza e le tante possibilità ancora inesplorate, il coinvolgimento fisico, psichico e spirituale della donna è ancor più grande. Dunque diventare padre, al confronto, è ben poca cosa. 

Il quotidiano la Repubblica intervistando Tiziano Ferro, cantante 37enne per sua ammissione dichiaratamente omosessuale, gli chiede se nel cassetto c’è l’idea di un figlio. “Più sto in America a contatto con genitori gay – risponde Ferro – più comprendo la nostra scelta sentimentale e scopro come funziona la realtà ma anche come dis-funziona. La mia data limite per avere un figlio è quarant’anni. Ora mi sto impegnando come promotore del Lazio Pride. È importante stanare l’odio e la paura nelle province. La mia Latina sta diventando una città del futuro”.

Tiziano Ferro, e come lui il cantante Elton John, Nichi Vendola, il senatore Lo Giudice, hanno voluto la paternità a tutti i costi, perché non hanno una donna al loro fianco ma solo una “femmina della specie umana” che, sotto contratto e denaro, offre-vende la sua capacità di portare in grembo e partorire un bimbo. Di solito poi l’ovulo fecondato viene da un’altra femmina trovata da un catalogo con tanto di caratteristiche fisiche.

Fino a un decennio fa dire queste cose sarebbe stato come parlare di fantascienza medica, ma da quando la “fecondazione artificiale”, introdotta per dare un figlio a chi non poteva averlo, ha spopolato nei laboratori di biologia, gli eventi sono dilagati. Quando si diceva che le pratiche di fecondazione artificiale erano e sono illecite, lo si diceva appunto per le ricadute inevitabili sulla coppia, sul corpo, sugli embrioni trattati come oggetti, sui bambini.

Da qualche tempo, tuttavia, si alzano voci contrarie. Sono sempre più numerose le donne che combattono per la liberazione femminile. Libertà non dalla fantomatica “società patriarcale” ma proprio dal femminismo radicale.

Secondo un sondaggio dello scorso anno il 53% delle giovani donne non si considera femminista: il 34% perché non concorda con gli obiettivi (solo l’11% ritiene importante preservare l’accesso all’aborto) e il 49% perché non approva l’etichetta “femminista”.

“Le donne meritano di meglio”, ha detto recentemente la scrittrice Samantha Johnson sull’Huffington Post in un articolo con un titolo che è un programma: “Quando sono diventata madre, il femminismo mi ha deluso”.

“Nella lotta per assicurare l’uguaglianza, predichiamo alle ragazze che possono, e dovrebbero, fare qualsiasi cosa un ragazzo può fare, così però stiamo fallendo nel prepararle ad una delle più grandi sfide con cui dovranno confrontarsi: la maternità. Stiamo insegnando alle giovani che non c’è alcun valore nella maternità e che essere casalinga è un concetto obsoleto, misogino. Promuoviamo la carriera professionale indicandola come simbolo di successo, svalutando completamente il contributo dei genitori a casa. Dobbiamo dire alle donne quanto è importante essere madri”.

Una riflessione vivace da parte di una donna che non rinuncia a definirsi femminista, in totale disaccordo con il femminismo radicale espresso da Chiara Lalli, per la quale è solo una falsa “credenza che ci sia un istinto materno, una innata e naturale competenza femminile all’accudimento”. Affermazione quest’ultima che ha dell’incredibile.

La più importante filosofa italiana, Luisa Muraro, fondatrice della Libreria delle Donne nel 1975, in prima linea contro l’utero in affitto assieme alla femminista francese Sylviane Agacinski e all’americana Camille Paglia, ha sbugiardato il classico motto del “corpo è mio e decido io” che oggi viene usato a sostegno anche della scelta generosa delle madri surrogate. “La causa è un neoliberismo – non economico ma culturale – che predica la totale disponibilità del proprio corpo. Il che poi era la parola d’ordine nel passato di alcune femministe con quell’io sono mia, slogan poco sensato al quale non ho mai aderito (la vita l’abbiamo avuta in dono, prima di tutto da una madre, dunque è un dono da ricambiare con altre persone). Per questo micidiale neoliberismo tutto deve tradursi in merce, tutto si compra e si vende. Non è solo un business, è una cultura, una tendenza generale a farci ragionare in questi termini”.

Interessante poi l’aggiunta della Muraro: “Sebbene su tante cose la mia morale non coincida con quella cattolica, noi femministe dobbiamo avere il coraggio di dire che l’etica cristiana non è contro le donne. E non dobbiamo avere paura di coincidere nelle parole e nelle azioni, quando coincidono le nostre buone ragioni. Dobbiamo avere la semplicità di farlo. Quando dalle due parti ci si comporta con lealtà e coerenza, e le posizioni sono giustificate, non fanatiche, ci si aiuta in modo importante”.

Ecco perché diventare padre non è un assoluto né umano né giuridico. E non è neppure un diritto dato che calpesta e sottomette altri diritti e altre vite.




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