IV Domenica di Pasqua - Anno A - 7 maggio 2017

Custodire l’altro per riconoscere insieme il vero Bene

famiglia

di fra Vincenzo Ippolito

È necessario tenere lontani i ladri e i briganti nelle nostre famiglie, i nostri rapporti non possono e non devono divenire mercanzia da mostrare sulla piazza digitale, a scapito nell’intimità che deve regnare tra le mura domestiche, sacre come quelle del tabernacolo, perché in essa si custodisce il mistero dell’amore coniugale e genitoriale.

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,1-10)
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

 

La IV Domenica di Pasqua è solitamente definita del buon Pastore perché la liturgia, proponendoci un brano tratto dal capitolo decimo del Vangelo secondo Giovanni (anno A: Gv 10,1-10; anno B: Gv 10,11-18; anno C: Gv 10,2-30), focalizza la nostra attenzione su Gesù pastore grande delle nostre anime. Essa rappresenta anche lo spartiacque del Tempo pasquale perché, se nelle scorse domeniche abbiamo ascoltato e meditato i racconti delle apparizioni del Risorto in Gerusalemme, da oggi, le pagine evangeliche sono tratte dai discorsi di Gesù prossimo alla sua Pasqua. È sempre Giovani il nocchiero nel cammino verso la Pentecoste ed a lui dobbiamo le rivelazioni più belle e significative del Signore venuto perché l’uomo abbia in abbondanza la vita di Dio (cf. Gv 10,10).

Accogliere il vero pastore

Con il brano evangelico di oggi siamo ancora a Gerusalemme, anche se lo scenario è totalmente cambiato rispetto alle pericopi evangeliche delle scorse domeniche. Gesù è nella città santa per la festa della dedicazione del tempio e continua ad insegnare, mentre, soprattutto dopo la guarigione del cieco nato (cf. Gv 9,1-41, IV Domenica di Quaresima, 26 marzo scorso) l’ostilità dei capi giudaici nei suoi riguardi sta crescendo e li porterà, in conseguenza della resurrezione di Lazzaro (cf. Gv 11,1-45, V Domenica di Quaresima, 2 aprile scorso) a decidere della sua condanna (cf. Gv 11,53). Questo clima di freddo rifiuto non ferma Gesù dal suo proposito di annunciare la parola che il Padre gli ha affidato e di compiere le sue opere. Ecco il suo presentarsi nel tempio, incurante dell’opposizione dei capi dei sacerdoti e dei farisei. Nulla può fermare il desiderio di amare l’uomo fino alla fine (cf. Gv 13,1). Come nulla è nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù – è questa la professione di Paolo in Rm 8,39 – così nulla è nessuno può frenare la corsa del cuore del Signore nel dono di sé.

Come siamo diversi da Gesù! Lui sempre pronto a combattere in prima fila, noi a nasconderci nelle retroguardie, Lui a schierarsi in attacco, coraggioso ed intrepido, noi a prendere posto in difesa, Lui ad affrontare le difficoltà credendo sulla parola di vita che il Padre dona al suo docile cuore, noi a confidare in noi stessi, ignari di imboccare la strada della morte. Perché siamo così diversi da Gesù? Perché la grazia del suo Spirito trova in noi tante resistenze, lentezze la sua corsa, freddezza il suo fuoco? Non ha forse il Risorto soffiato sopra di noi l’alito della sua vita nuova? Il Maestro non ci ha forse inviato a continuare la sua missione di perdonare ad oltranza, ignari di ciò che gli altri pensano, vogliono e fanno nei nostri riguardi? Non è forse con noi il Risorto che ci incoraggia con il suo “Sono con voi” (Mt 28,20)? Se non si vive, come Gesù, una relazione profonda di amore ed amicizia con il Padre, come riuscire a combattere la buna battaglia della fede? Se non si avverte lo sguardo di predilezione di Dio, la sua consolante presenza di pace, il suo abbraccio che rasserena le tempeste del cuore inquieto, come affrontare le incomprensioni che la vita ci riserva? Se le radici non affondano bene nel terreno per attingervi forza e nutrimento, i rami non riusciranno a crescere e a sviluppare una folta chioma. Così è anche nella vita spirituale, se l’umiltà del riconoscersi bisognosi di Dio non ci porta a fidarci completamente di Lui, come fa Gesù nei riguardi del Padre, non possiamo credere di andare lontano sulla strada del bene. È necessario bussare al cuore di Dio con la verga della preghiera, perché come dalla roccia percossa da Mosè nel deserto scaturì l’acqua che dissetò Israele, rifocillandolo nel cammino, così dal cuore di Cristo zampilli lo Spirito che ci rende capaci di compiere la volontà del Padre, anche e soprattutto quando intorno a noi c’è incomprensione ed ostilità, diffidenza e incomprensione.

Animoso e coraggioso, intrepido e sereno, Gesù sta nel tempio. La paura dell’indifferenza non lo tocca – chi ama riesce ad andare oltre, vedendo sempre e solo il bene della persona amata – e così dalle sue labbra fluisce la sua parola di vita, la cui profonda sorgente è il suo cuore sempre pronto al perdono e alla misericordia. Proprio l’amore, la misericordia infinita che Egli sente irresistibilmente dentro di sé per l’uomo lo conduce a passare dalla figura alla realtà, dall’antico tempio a Lui che è la dimora definitiva per incontrare il Padre. Le immagini che Giovanni utilizza in questo capitolo sottolineano proprio questo passaggio. Oltre alla figura del pastore, bene attestata nell’Antico Testamento in riferimento a Dio che guida e cura il suo popolo, l’Evangelista presenta anche quella della porta. Nel tempio c’era infatti una porta definita delle pecore – Giovanni vi aveva fatto già riferimento in 5,2 – un ingresso dove venivano fatti entrare gli animali per i sacrifici rituali. Gesù si rivela come il compimento di antichi segni, espressi nei luoghi dove Egli insegna. Il dialogo del Signore con la samaritana avviene accanto al pozzo di Giacobbe (cf. Gv 4,1), quasi a dire che è Gesù il vero ed unico pozzo che dona l’acqua viva che zampilla (cf. Gv 4), come il tempio antico è sostituito dalla persona di Gesù, che distrutto nella morte, in tre giorni verrà riedificato dalla potenza del Padre (cf. Gv 2,19). Anche ora il passaggio da compiere è dalla figura alla realtà, dai segni al compimento, dalle cose sacre all’umanità santa di Gesù, nella quale il Padre parla e opera in pienezza. Questo salto, a bene vedere, riguarda anche le nostre relazioni. Anche noi siamo chiamati a passaggi significativi ai quali Gesù è sempre pronto – si pensi a quello appuntato dall’Evangelista, passaggio definitivo per Lui e per noi con lui “… prima di passare da questo mondo la Padre” (Gv 13,1) – passare dalle parole dell’amore al dono di se stessi, dall’amore richiesto e tante volte preteso all’offerta silenziosa, dai diritti accampati e contro voglia concessi al servizio non retribuito neppure da un semplice grazie! Siamo pochi allenati a questi salti perché, forse, non guardiamo verso Gesù sempre e non lasciamo che il suo coraggio motivi la traduzione dell’amore confessato nella concretezza dell’amore dato, consegnato, senza riserve.

Riconoscere il vero dal falso

Il primo dato che si evince dal nuovo insegnamento di Gesù – la cesura dal precedente capitolo è chiaramente indicata dal cambiamento tematico, anche se gli interlocutori rimangono i Giudei che non accoglievano la guarigione del cieco nato – è la distinzione tra il pastore delle pecore e quanti sono ladri e briganti. Non tutti entrano attraverso la porta, ma tanti si intrufolano da altre aperture che non sono luoghi di accesso, ma punti di luce e di aria. Nella nostra vita, nel nostro cuore, solo Cristo può entrare per la porta, ma tante cose e tante persone cercano in ogni modo di espugnare la nostra cittadella interiore. “Guardatevi dai falsi profeti che vengo a voi in apparenza di pecore, ma dentro sono lupi rapaci” ammonisce altrove Gesù (cf. Mt 7,15), quasi a dire che non a tutti bisogna dar credito e che è necessario discernere i moti del cuore per vedere da dove vengono e dove portano. “Salire per un’altra parte” è il chiaro atteggiamento del ladro. Non deve farsi vedere, ruba ciò che non gli appartiene, prende quanto è degli altri, facendo della complicità del buio la sua forza, della distrazione e della poca vigilanza le sue alleate sicure. Custodire il cuore, vigilare sui desideri è l’arte più difficile, perché non basta aver detto alla persona che si ama una sola volta davanti all’altare, è importante ridirselo ogni giorno, rinnovando il fermo proposito di amare l’altro nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, ridirlo alla persona amata un tempo e da amare oggi, guardandola negli occhi e accogliendo di lei anche il suo crescere, i passaggi dell’età, i figli che non si portano più per mano, ma che desiderano camminare liberi, da soli. Non c’è amore senza vigilanza, non c’è fedeltà senza custodia. L’amore è un dono che discende da Dio. Come i talenti, non solo non vanno messi sotto terra, ma è necessario farli fruttificare, in caso contrario non realizzano il fine per il quale sono stati gratuitamente concessi.

È semplice e anche naturale vivere tentazioni e pressioni di pensieri e di persone che vogliono rubare ciò che non appartiene loro. È nell’indole dell’animo umano, incline al possesso egoistico, derubare l’altro di quanto non può e non vuole donarci. Perché spesso permettiamo che gli altri facciano scempio del nostro cuore? Perché lasciamo che si intrufolino furtivamente nella nostra vita e non ci proteggiamo dal loro formale ricercare il nostro bene? Perché siamo così ingenui da credere che chi sale da un’altra parte e non entra per la porta, non venga per rubare il bene, uccidere i sogni e distruggere il futuro? Dobbiamo avere occhi aperti sempre ed intensificare la custodia e la vigilanza, soprattutto con la preghiera, proprio quando sappiamo di essere più deboli e maggiormente esposti alla tentazione, proprio allora il Nemico viene, suadente e convincente come il serpente nel paradiso di Eden. È vero, si tratta di una lotta all’ultimo colpo contro noi stessi, perché quando non si riceve in famiglia e nella relazione di coppia ciò che si avverte necessario per il proprio vivere e fondante il rapporto condiviso, si scappa, come i discepoli di Emmaus e si imboccano strade contrarie al vero, al bello, al buono e al giusto. Gesù è molto chiaro in questo, solo chi entra attraverso la porta è il pastore delle pecore. Egli non ha bisogno di entrare nell’ovile per altra parte, di cosa deve vergognarsi, cosa nascondere, da chi avere paura? Gesù è l’unico che ricerca il nostro vero bene, perché chiudergli la porta? Egli solo ha donato la sua vita sull’altare della croce per la nostra salvezza, perché non credergli? Solo il Figlio di Maria non ha considerato un tesoro geloso il suo essere Dio e si è fatto nostro schiavo fino alla croce, perché non dare credito alla sua parola e al suo desiderio di rimanere in comunione con noi sempre?

Se da un lato siamo chiamati ad essere a custodire il nostro cuore da ladri e briganti che vengono in sembianze di pecore, pari attenzione dobbiamo avere nella custodia della vita delle persone a noi care. Questo è essenziale in famiglia. Io sono il custode della debolezza dell’altro/a, il guardiano, non l’inquisitore, della vita mia e della persona che amo. Colui che fa da portinaio non solo “dirige il traffico” in entrata ed in uscita, ma discerne chi può e chi non può entrare. Custodire non significa solo preservare, ma discernere le cose buone da quelle che non lo sono, ma non secondo il proprio cuore incline all’egoismo e al possesso, quanto secondo Dio ed il suo amore. La cosa più difficile è proprio quella di saper riconoscere il nostro vero bene, le cose e le persone che ci aiutano a crescere e a maturare nella vita relazionale, in coppia ed in famiglia. È necessario tenere lontani i ladri e i briganti nelle nostre famiglie, i nostri rapporti non possono e non devono divenire mercanzia da mostrare sulla piazza digitale, a scapito nell’intimità che deve regnare tra le mura domestiche, sacre come quelle del tabernacolo, perché in essa si custodisce il mistero dell’amore coniugale e genitoriale. Essere custodi dell’altro significare avere gli occhi aperti non perché nessuno si avvicini, ma perché entri nel cuore dell’altro il bene, perché per quanto il mistero nuziale richiami l’intimità per struttura sua propria, chi ama è sempre portinaio, guardiano di colui che ama, non entra se non è accolto e voluto. Quanto vale questo nel mistero dell’essere educatori dei propri figli! Tante volte i genitori desiderano entrare in maniera spregiudicata per mettere ordine nella vita dei giovani, senza accorgersi che, in questo modo, non fanno altro che violentare e far crescere insicurezza nel loro cuore, dipendenza e incapacità di pensare ed agire in maniera autonoma. Saper stare accanto ai propri figli e far crescere la loro capacità di discernere il bene e sceglierlo è la vera arte da attuare, perché, se non si rendono indipendenti i figli, senza accorgercene, siamo i distruttori, non i costruttori del loro futuro. Rimanere alla soglia deve essere una scelta non imposta e pretesa da loro, ma desiderata e vissuta dagli adulti. Solo quando i giovani si rendono conto che non vogliamo rubare i loro desideri e sostituirlo con i nostri, né uccidere i loro ideali, tantomeno distruggere il futuro che essi guardano e perseguono come una meta, solo allora che non si sentiranno strumentalizzati, ma accolti, ci faranno entrare nel loro mondo per condividerlo e costruirlo insieme, anche con i nostri consigli. Siamo chiamati a costruire insieme il futuro, non a spadroneggiare ed imporre le nostre visioni parziali.

Il timbro della voce del pastore, segno di intimità

Seguendo le parole di Gesù, nella vita ci sono più tappe. La prima è costituita dal sapere riconoscere i pericoli che ci sono nella nostra vita, il secondo passaggio è dato dal vivere nell’intima comunione con il buon pastore. Esiste, infatti, una mutua conoscenza tra le pecore ed il pastore, le prime conoscono la sua voce, mentre Egli le chiama per nome e le fa uscire fuori. Si tratta di azioni conseguenziali, che sono il segno dell’amore scambievole che intercorre tra loro.

Non esiste gesto più bello in amore che sentirsi chiamati per nome. La voce dell’amato ha un timbro tutto particolare, riconoscibile tra mille, perché è l’amore ricevuto e donato che crea la conoscenza, il ricordo, l’affinità. Non capiterà forse così la mattina di Pasqua a Maria Maddalena? Sarà proprio l’essere chiamata per nome dal Signore che la condurrà a riconoscere in Colui che aveva scambiato per il custode del giardino, il suo Signore risorto (cf. Gv 20,16). Si riconosce solo la voce di colui che sia ama e dal quale ci si sente profondamente amati.  Non capita forse questo anche nelle nostre famiglie? Una madre non riconosce forse la voce del suo figlio? Può mai dimenticare il timbro della sua voce? È l’amore che genera il riconoscimento e l’ascolto e l’ascolto, quando ci si sente amati da colui che ci chiama e sappiamo che ricerca il nostro vero bene più di quanto noi potremmo immaginare, fa nascere l’obbedienza alle sue parole che riconosciamo come sorgente di vita e di gioia per noi. Si tratta di passaggi vissuti con l’intima partecipazione del cuore: dall’amore all’ascolto come capacità di riconoscere colui che ci ama, dall’ascolto all’obbedienza, dall’obbedienza alla sequela. Motore di tutto è l’amore. L’amore – scriveva san Bernardo – è la più grande forza della vita spirituale. Per questo Paolo scrive “Se anche conoscessi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che risuona ed un cembalo che tintinna” (cf. 1Cor 13,2). Non solo dobbiamo incentrare sull’amore il cuore del nostro essere discepoli di Gesù – meglio sarebbe dire sul come Gesù ci ha amati si fonda tutta la nostra vita di sequela – ma dovremmo anche capire che giungiamo alla vera libertà solo se lasciamo che Gesù ci doni parole di liberazione, che divengono poi parole di speranza.

Dobbiamo esser condotti fuori da Gesù, dal chiuso delle nostre precomprensioni, dalle ossessioni delle nostre paure, dobbiamo che Egli ci liberi dalle nostre schiavitù, gettando in mare i fardelli che pesano sulle nostre spalle. Dobbiamo essere sempre pronti a lasciare che Cristo cammini innanzi, senza mai prevaricarlo, come tentò di fare Pietro (cf. Mc 8,33), ma lasciando che Egli sia il nostro Maestro e Signore. Solo Gesù può sciogliere i nostri piedi dai ceppi, sola la sua parola può renderci liberi (cf. Gv 8,32), capaci di seguirlo sempre, senza nulla temere, proprio come ci spinge a dire il salmista “il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Sal 22,1). Essere condotti fuori significa sperimentare la libertà della verità e dell’autenticità, dell’amore e della relazione con Dio. Senza verità non c’è libertà, una verità che è amore può liberarci da ogni schiavitù. Possiamo anche sentire il peso del guardare la nostra creaturalità, la sofferenza di accoglierci nei nostri limiti, ma è questa la strada per essere noi stessi, liberi dai nostri condizionamenti e paure, liberi di vederci come Dio ci vede e ci ama, liberi di librare nel cielo della volontà di Dio, sapendo che è suo il vento che permette il nostro rimanere in alto.

La bellezza della libertà, che nasce dal vero amore, è il segno della relazione di Gesù pastore con le pecore. Non c’è, infatti, costrizione tra loro, la voce del pastore è conosciuta dalle pecore che sono sue, gli appartengono, come anche le pecore sono ben note al pastore, tanto che le chiama per nome. Il nostro deve essere un cammino di libertà. Se l’amore non crea libertà, non è maturo e vero, se l’amore lega e schiavizza, non è ricerca sincera del bene. Gesù libera, la relazione con Lui è profondamente liberante. Dobbiamo imparare da Lui ad intessere relazioni libere e liberanti perché l’amore che non crea libertà è solo egoismo.

Da quali schiavitù Gesù pastore deve liberarci, da quali ceppi salvarci? Perché è così difficile per noi seguirlo, farci sedurre dalla sua parola, obbedire alla sua voce? Cosa blocca il nostro cammino di coppia? Perché spesso ci sembra di non andare avanti e di restare lì ad attendere che la sua grazia operi ciò che, forse, noi non vogliamo veramente?

Passare attraverso il mistero della Pasqua di Gesù

L’incapacità degli ascoltatori a comprendere il discorso di Gesù – “essi non capirono di che cosa parlava loro” Gv 10,6 – conduce il Maestro ad un nuovo insegnamento. Cambia la similitudine, ma il cuore del discorso rimane uguale: la centralità di Cristo e la necessità dei discepoli di confidare in lui e di abbandonarsi totalmente nelle sue mani. Non basta tenere fisso lo sguardo su Gesù per ottenere vita e salvezza – questo rappresenta il primo passaggio, pur se importante – perché è necessario passare attraverso di Lui, entrare nel mistero contemplato della sua Pasqua ed inebriarci del suo prezioso sangue che, come sugli stipiti delle porte degli Ebrei che uscivano dall’Egitto, è capace di ottenerci la redenzione e la salvezza. Passare attraverso Gesù, passare insieme come sposi e come famiglia, come comunità religiosa e parrocchiale nella fornace del suo cuore è la richiesta pressante, anche se indiretta, che Cristo ci propone perché solo così il nostro amore può essere purificato da ogni egoismo e diventare sempre più vero, secondo Dio. Solo così la nostra vita sarà il segno dell’amore e della cura, della vigilanza e della custodia del buon pastore venuto per donarci in pienezza la vita.




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