Ascensione del Signore – Anno A 28 maggio 2017

La certezza della sua presenza, un amore che sa fidarsi

di fra Vincenzo Ippolito

L’amore esige la totalità, perché se trattengo qualcosa di me per me, il mio dono sarà inficiato dalla paura di credere che l’altro non mi custodirà e che io potrò fare di meglio, senza il suo aiuto.

Dal Vangelo secondo Matteo (28,16-20)
In quel tempo, gli Undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».



Un cammino a ritroso

Ritorniamo oggi alla lettura del Vangelo secondo Matteo. Lo avevamo lasciato la II Domenica di Quaresima, quando la liturgia ci proponeva la narrazione della Trasfigurazione di Gesù (cf. Mt 17,1-9). In questo lungo tempo, san Giovanni ha guidato il nostro cammino ed ora veniamo nuovamente affidati all’evangelista Matteo perché la sua parola ci spinga a tenere fisso lo sguardo sul Risorto che ascende alla destra del Padre per pregarlo di farci dono del suo Spirito. La liturgia, infatti, ci offre di leggere le ultime narrazioni che Egli ci trasmette, parole di commiato dai discepoli prima di lasciarli, ma anche investitura di responsabilità ed impegno nell’essere suoi testimoni nel mondo.

Pochi versetti, appena cinque, formano il brano liturgico odierno. Preceduti dalla narrazione delle donne al sepolcro (cf. Mt 28,1-10) e dal racconto delle guardie, dinanzi alla tomba vuota (cf. Mt 28,11-15), la pericope odierna descrive l’apparizione del Signore agli Undici non a Gerusalemme – come fanno Luca e Giovanni – ma in Galilea, secondo le parole del Risorto alle donne: “Andate ed annunziate ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). Gesù vuole che i discepoli facciano un cammino a ritroso, che ritornino sui loro passi, alle origini del loro incontro con il Nazareno. Solo così, nei luoghi della loro prima sequela, potranno ritrovare linfa nuova e ricevere parole di vita che li facciano passare dalla tristezza alla gioia. Il cammino proposto dal Risorto non è semplice da compiere. Esso, prima di tutto, da parte dei discepoli comporta il dar credito alle donne che hanno visto il Risorto, accogliendo la loro testimonianza, fidandosi del loro racconto; solo in secondo luogo, ritornare in Galilea significa anche cambiare la rotta dei propri passi e ricominciare con volontà ed impegno rinnovati dall’incontro con il Signore. Si tratta, infatti, di accogliere una nuova chiamata, per alcuni aspetti più radicale della prima e questo non è poi un gioco da ragazzi come potrebbe sembrare. Verso Gerusalemme hanno camminato seguendo Gesù. Ora devono andare a ritroso, sapendo che incontreranno il Risorto, che non hanno ancora visto, alla fine del cammino, e che vederlo sarà la meta del peregrinare che li attende.

Per ciascuno di noi riprendere in mano la propria vita e rivisitarla, oltre a procurarci gioia e una vena di nostalgia, porta con sé talvolta rimpianti e tristezze, perché ci conduce ad entrare in regioni del nostro cuore non semplici da rivisitare, in situazioni e relazioni che spesso, con la complicità del tempo passato, abbiamo cercato di nascondere, gettandole nel mare della dimenticanza. Gesù non vuole che nulla si perda del camino dei suoi e lo stesso chiede anche a noi. È necessario camminare a ritroso, rileggere, con la maturità degli anni, quando i venti dell’euforia e delle passioni giovanili si sono dissolti, il senso del cammino fatto insieme con Gesù e tra noi. Per ricominciare nella vita è necessario – sembra dirci l’Evangelista – scavare nel proprio passato perché il granello di senape che Dio vi ha seminato non tarda a germinare e divenire un grande albero, solo se noi concimiamo il terreno e lo zappiamo con cura. Della vita bisogna assumere tutto, afferrare ogni attimo, rileggerlo alla luce della parola di speranza che la Pasqua del Signore ci dona. Gli Undici devono camminare alla luce della resurrezione, come il popolo peregrinava nel deserto verso la terra promessa, sorretto e guidato dalla luce che il Signore concedeva loro attraverso la colonna di fuoco. Gli Undici camminano a ritroso, ritornano sulle strade un tempo battute perché hanno in cuore una promessa che le donne hanno loro affidato, la certezza di incontrare il Signore, proprio lì dove tutto è incominciato. Anche se spesso non lo sappiamo o non lo vogliamo ammettere, i semi delle speranze del nostro futuro sono nascosti nel terreno del nostro passato, nella grazia del sacramento nuziale non messa ancora totalmente a frutto. Ritornare alle sorgenti del proprio serve per rinsaldare l’impegno nel presente e spingersi in avanti, sapendo che con Cristo tutto è possibile, anche riprendere i cocci della propria vita insieme e dargli nuova forma. A mettere in cammino il nostro cuore è sempre una parola che riceviamo e siamo chiamati ad accogliere come puro dono che viene dall’Alto, una parola che pur giungerci anche attraverso i fratelli. Non fece lo stesso Abramo che lasciò la casa di suo padre a settantatré anni e si incamminò, senza sapere dove andare, ricco della presenza di quel Dio che gli aveva assicurato “Vattene dal tuo paese, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1)? E Mosè non guidò un popolo verso una terra da abitare, larga e spaziosa, luogo dove avrebbero visto stillare latte e miele, perché aveva ascoltato una voce che nella terra della schiavitù riaccese nel cuore la speranza?

Gesù ai discepoli indica il luogo della sua rivelazione e chiedi loro l’obbedienza, se vogliano veramente incontrarlo.  Obbedire è rinnegare se stessi, la propria volontà, la presunzione di sapere cosa è bene fare e dove andare. Obbedire alla parola dell’altro è possibile solo se c’è il registro dell’amore, perché se non si obbedisce per amore, saremo sempre nella costrizione della legge. I discepoli devono sperimentare che la parola di Gesù si realizza, che è vera e credibile anche se trasmessa attraverso delle donne che la società giudaica non considerava degne di fede. Dio vuole l’obbedienza dall’uomo, l’abbandono nelle sue mani – “obbedire è meglio del sacrificio, essere docile è più del grasso degli arieti”, 1Sam 15,22 – perché se la disobbedienza fu la causa della cacciata dal giardino di Eden, l’obbedienza ci guadagnerà la reintegrazione nella dignità perduta. Obbedire a Dio significava accogliere la sua paternità e vivere nell’alleanza con Lui che non è un tiranno dispotico, ma il nostro Padre, proprio come Gesù ci insegna.

Abbiamo bisogno di tempi e luoghi per la nostra rinascita e la rigenerazione del nostro cuore, abbiamo bisogno di ascoltare parole di speranza e di fiducia che riaccendono nel cuore il desiderio di incontrare il Signore. È quanto può capitare anche tra noi, attraverso uno sguardo rinnovato dalla luce del Risorto che ci porta a guardare sotto la sua luce la persona che abbiamo un tempo accolto come segno dell’amore di Dio e che nel sacramento nuziale è nostra carne. Ritornare alla sorgente del primo amore significa scegliere nuovamente la persona che ci è accanto, ma non come era un tempo, quanto, invece, come si presenta ora. Quanto bisogno abbiamo di parole che alimentino nel cuore la speranza che è possibile ricominciare, di persone che ci annunciano la necessità di rivisitare la nostra storia per vederla alla luce della Pasqua che è non solo il compimento della vicenda storica di Gesù, ma il traguardo di ogni figlio che si lascia attrarre dal Padre, che si abbandona nell’obbedienza alla sua volontà, che confida nella potenza della sua insondabile misericordia. Si rinasce solo se si ha il coraggio di guardare in faccia la propria storia per scorgervi i semi di vita che il Signore vi ha posto. La nostra diventa storia di salvezza se, guidati dalla fede, chiediamo al Signore di abitare le nostre passate situazioni di morte, vivificandole come Egli ha fatto con il corpo martoriato del suo Figlio passato attraverso le atrocità della crocifissione.

Quale la parola che spinge i nostri passi, la promessa di bene che determina la ripresa del nostro cammino? Se per rinascere bisogna rileggere la propria vita, per me, per noi è un esercizio così difficile? La mia storia, quella del mio matrimonio, della mia famiglia è luogo di rivelazione di Dio? Scappo dal mio passato o vi ravviso la speranza di un futuro sempre più bello?

 

Credere o dubitare?

Il Risorto non si lascia attendere, ma sempre si rivela, compiendo la sua promessa. Il messaggio affidato alle donne era vero e si realizza ed ora gli Undici possono finalmente vedere il Signore passato attraverso la morte. La prostrazione, il loro gettarsi ai piedi del Signore è il segno che si trovano dinanzi a Dio e che percepiscono la straordinarietà del loro incontro, l’irruzione potente di Colui che può tutto e liberamente rivela il suo volto glorioso per la resurrezione. Proprio mentre stanno scoprendo la nuova presenza del Signore, mentre lo stanno guardando, quasi abituandosi alle fattezze del suo corpo che non conosce più le dimensioni dello spazio e del tempo, proprio quando lo stupore li porta a cadere sgomenti per la straordinarietà di quanto contemplano, il dubbio si insinua nel loro cuore. Può apparire strano, ma il momento della maggiore intimità, può divenire, malauguratamente, il tempo della maggiore distanza. È quanto capita in Galilea. I discepoli non riescono a gustare la presenza del Risorto che già il cuore inizia a tremare e la paura a penetrare in quell’intima gioia che gli altri Evangelisti descrivono come naturale conseguenza dell’incontro con il Maestro vivo per la potenza dell’amore del Padre. La presenza di Gesù è il seme di speranza che ancora non è caduto nel loro cuore e che il Nemico già sta rubando, perché non attecchisca in loro la certezza di non essere soli e di poter ricominciare un cammino di sequela.

Nelle relazioni non c’è cosa più nefasta del dubbio e della diffidenza. L’altro/a ti è accanto, con lui/lei condividi la vita, ma dentro di te avverti la distanza da quello che dice, dalle attenzioni e i gesti che pone. Lo avverti come formale, superficiale, a volte scontato e persino banale. Veramente mi ama? Veramente ha piacere di starmi accanto, di condividere le mie gioie e le mie pene? Sul serio si interessa di me e della mia vita, di ciò che il mio cuore sente e prova, in ogni attimo della giornata, di notte e di giorno? La sua custodia è vera e sincera oppure è pura formalità? Porsi queste domande è normale, ma lasciare che a macchia d’olio entrino in noi e vincano la fiducia, destabilizzino l’amore, seminino la diffidenza vuol dire minare alle radici i nostri rapporti e vivere in un clima di paura continua per un ipotetico abbandono, che nella nostra mente conosce i passaggi più angosciosi che la fantasia costruisce sotto i colpi continui del timore. La nostra mente poi collega parole e situazioni e giustifica, attraverso il ricorso a ragionamenti astrusi, i timori e così si prepara il cuore al supplizio della realtà che noi vediamo sempre a nostro sfavore. Anche per i discepoli capita lo stesso. La morte in croce di Gesù li ha profondamente segnati, sembra che siano morti con il Maestro, anche se dispersi lontani dal buon Pastore. È morta la loro incipiente fede e la fiducia che nutrivano per Colui che incantava le folle e faceva rifiorire la vita. L’esperienza li ha così scottati che ora sembra non vogliano tornare a rischiare. Lo vedono vivo dinanzi ai loro occhi, ma il cuore ancora sanguina perché non sono stati capaci di vivere la croce nella comunione con Gesù, come Egli l’ha vissuta in comunione con il Padre. Il vero problema in amore è la solitudine, il sentirsi abbandonati dall’altro/a, non capiti nelle preoccupazioni, fondate o meno che siano, incompresi nelle difficoltà che si presentano, talvolta come fantasmi che la mente costruisce e presenta, spettri cattivi che rubano il respiro e immobilizzano nella corsa del dono. Quando una persona ha fatto l’amara esperienza della solitudine è difficile riprendere la strada della fiducia. Nel caso dei discepoli, però, non sono stati abbandonati, ma essi hanno lasciato solo il Maestro. Tante volte siamo pronti ad incolpare gli altri, ma veramente la solitudine che sperimentiamo dipende da loro, oppure siamo stati noi gli agenti della nostra stessa disperazione? I discepoli dubitano di Gesù, ma possono? Non dovrebbero forse fare un sincero mea culpa per il loro comportamento da codardi, per il loro aver lasciare solo Gesù, anche se Lui non è stato mai solo, perché ha sperimentato, pur nelle atrocità della croce, la consolante presenza del Padre?

Se per Cartesio il dubbio come metodo porta alla vera conoscenza, nel rapporto con Gesù, come anche nelle relazioni tra noi, la diffidenza logora i rapporti e rende opache le amicizie. Quante volte si vivono situazioni non chiare, in cui la persona amata resta sempre sulla porta, deve meritare il suo ingresso nella nostra vita e non può mai vivere la sicurezza di sentirsi accolta ed amata? Quante volte, pur senza esserne coscienti, imponiamo alle persone che ci sono accanto il peso del nostro dubitare del loro amore e li costringiamo ad una corsa impossibile, per saltare gli ostacoli che il nostro cuore pone nella relazione che non è mai gratuita offerta di noi stessi?

Il dubbio è come un tarlo, mangia non visto e con la pazienza di una goccia scava cunicoli nascosti. Un pezzo di legno può anche apparirti integro, ma, se lo inizi a toccare, ti accorgerai che l’animaletto, che tu avevi creduto innocuo, dall’interno si è mangiucchiato tutto, anche se, all’esterno, rimane solo l’apparenza che tutto sia ben conservato. Spesso il dubbio alimenta il formalismo nei rapporti e solo di rado, quando ormai ci si è assuefatti, si esce allo scoperto e si palesa quel fiume carsico che ha consumato l’anima e ha spinto la fantasia a saltare, immaginando tradimenti o infedeltà che non esistono. Si può anche adorare Dio, prostrarsi dinanzi all’Eucaristia, e nel cuore avere un vulcano. Con la bocca si può anche benedire, mentre il cuore vive la ribellione e lo scoraggiamento. Proprio come capita a Giuda, siede a mensa con Gesù e nel cuore lo ha già venduto, come Pietro, dice con le labbra di amore, ma con i piedi è già fuori il cenacolo per rinnegarlo. L’amore vero vince il timore, l’amore vince tutto, ma solo se è vero sul serio.

 

Parole che guariscono e risollevano

Diversamente da quanto ci presenta Marco, con il rimprovero ai discepoli per la loro incredulità (cf. Mc 16,14), Matteo, dinanzi ai nostri occhi, disegna Gesù nel gesto della delicatezza e dell’accoglienza. Nessun rimprovero, neppure si presenta accigliato, ma “si avvicinò” – il testo greco del v. 17, letteralmente, dice “dopo essersi avvicinato, disse loro”, sottolineando la conseguenzialità delle azioni del Risorto, l’avvinarsi prima e poi il parlare – il Maestro si accosta, come era già capitato sul monte della Trasfigurazione (cf. Mt 17,7), va incontro ai suoi con la compassione di chi è pronto ad usare perdono, mai la verga del biasimo e dell’accusa. L’amore – lo leggiamo tra le righe – non guarda nell’altro il male per riprenderlo, perché lo umilierebbe, senza riscattarlo, colpevolizzandolo, non lo guarirebbe dal morbo che dentro lo sta consumando. L’amore cerca e vive il silenzio, non per ammassare nel granaio del risentimento la zizzania dei torti subiti e spargerli poi, al momento opportuno, rinfacciandoli e infestando così il campo della relazione – questa è vendetta, non amore! – perché chi ama accoglie dell’altro perfino il limite, scorgendovi il luogo dove sperimentare la potenza della comunione che genera la vita nuova. A che serve un amore che non sa contenere l’istintività del rispondere ad ogni torto ingiustamente subito? È veramente amore il sentimento che non scusa, non crede, non spera, non sopporta (cf. 1Cor 13,7)? Solo di amore vive e palpita la vita del Signore nei trentatré anni sulla terra e anche dopo il suo risorgere da morte.

Noi veniamo guariti nel dubbio e nella paura da gesti di accoglienza e di perdono. L’avvicinarsi di Gesù agli Undici manifesta la tenerezza di chi ama, il perdono di chi accoglie, la compassione di chi perdona, la capacità di andare oltre per riallacciare una relazione rinnovata dalla volontà di non tener conto del passato. Anche noi dobbiamo sentirci raggiunti da Gesù nelle nostre difficoltà, accolti nei dubbi, riconciliati, quando le sue vie per noi sono incomprensibili, abbracciati quando il peso della croce ci rende stremati e ci prostra. Non possiamo dubitare del suo amore, solo perché Lui non rispetta le nostre domande, non esaudisce le nostre suppliche, sembra non tenere conto del grido che sale al suo orecchio giorno e notte, nella disperazione del nostro soffrire. Dobbiamo sempre avere dinanzi agli occhi l’immagine del Risorto che risponde al nostro dubbio con il suo avvinarsi, alla durezza del cuore con la dolcezza del suo tratto, non irritato per la nostra delusione. Egli, infatti, Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe. Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe” (Sal 103,10-12). Le sue parole poi fanno ancor più comprendere il suo avvicinarsi, la capacità di salare l’ostacolo della difficoltà dei suoi e aprire un orizzonte sconfinato che è quello della missione universale. È questo un altro tratto significativo di chi ama, la volontà di non tener conto della difficoltà, non parlarne neppure, ma guardare in avanti. Ci sono situazioni nei nostri rapporti in cui il chiarimento non è solo opportuno, ma anche necessario, tanto per fugare i dubbi, quando, anche per rinsaldare la certezza del reciproco amore. Ma questo non vale sempre, perché ci sono occasioni in cui è bene lasciar cadere le cose. Questo non significa far finta di niente, guardare con superficialità le situazioni, quanto, invece, vivere la maturità della relazione. A che serve porre un peso sulle spalle dell’altro/a quando non è capace di portarlo? Se il chiarimento conduce solo a mostrare che io ho ragione e l’alto/a si è comportato male, serve veramente? In questi momenti è necessario sapersi superare, rendersi conto se è utile al rapporto parlare della difficoltà vissute. Può darsi che se ne dovrà parlare con calma quando le nubi si saranno diradate. Questo significa vivere il discernimento continuo nella relazione di coppia e nei rapporti familiari. Tutto è bene quando viene da Dio ed è dettato dal vero amore, ma anche i tempi sono importanti perché ogni seme ha bisogno non solo del terreno buono, ma anche della stagione opportuna, perché il freddo non bruci le prime gemme.

Un potere condiviso

Il Risorto, nel suo sguardo in avanti, sa bene che i discepoli, dopo l’Ascensione, dovranno continuare la sua missione e avranno bisogno della certezza della sua presenza. Egli, infatti, non li manda allo sbaraglio, ma concede loro il suo stesso potere, la capacità di non essere abbattuti da nulla, perché certi di avere in sé l’amore di Dio a cui nulla è impossibile. Amare significa dare all’altro/a tutto. L’amore esige la totalità, perché se trattengo qualcosa di me per me, il mio dono sarà inficiato dalla paura di credere che l’altro non mi custodirà e che io potrò fare di meglio, senza il suo aiuto. È questo il Vangelo che siamo chiamati a spargere nei solchi della storia, la speranza della compagnia di Gesù, della sua parola che guarisce le ferite dei cuori spezzati, è questo l’insegnamento che siamo chiamati a trasmettere. La sua compagnai è forza nel vivere nella sua parola, nel custodire i suoi comandamenti. La sua promessa di rimanere con noi per sempre è la roccia che può sostenerci in ogni inevitabile tempesta si abbatta sulla casa della nostra vita. “Se Dio è per noi – possiamo dire con san Paolo – chi sarà contro di noi” (Rm 8,31). Credere in Lui che a sua volta crede in noi e ci affida la sua stessa missione è il segreto per partecipare alla realizzazione del sogno del Padre, fare di tutti gli uomini la sua grande famiglia.

 




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