XII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 25 giugno 2017

Essere sentinelle del mattino

di fra Vincenzo Ippolito

Oggi abbiamo bisogno di essere presenti come cristiani sui tetti per annunciare il Vangelo. Gesù vuole che i suoi evangelizzatori vivano tra l’eremo – il luogo dell’ascolto e dell’intimità – e la città – il luogo del brulicare della vita e delle attività degli uomini – perché è necessario vivere l’armonia della contemplazione in vista della missione.

Dal Vangelo secondo Matteo 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

 

Riprende oggi la navigazione del Tempo Ordinario, nel quale l’evangelista Matteo sarà di nuovo nostro compagno di viaggio fino all’ultima domenica dell’anno liturgico, festa di Cristo Re dell’universo. Tradurre nell’ordinario la grazia del mistero pasquale è la sfida che ci attende e solo lo Spirito Santo effuso in noi a Pentecoste può condurci ad essere presenza del Signore Gesù Cristo che, con la forza del suo amore, tutta la storia abita, permea e trasforma. A ridosso dell’estate è importante non solo mettere in valigia il Vangelo perché la fede in Gesù non va mai in vacanza, ma dedicare ancor più tempo a Cristo e, per amor suo, ai fratelli, senza lasciarsi distrarre da nulla.

Sul cammino della sequela

Nel riprendere la lettura continua del Vangelo secondo Matteo, lasciamo il discorso della montagna (cf. Mt 5-7), in parte già letto prima dell’inizio della Quaresima. La cura provvidente di Dio che, come vesti i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo, così pensa ad ogni uomo, chiamato a cercare prima il regno di Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,24-34, VIII domenica del Tempo Ordinario, 26 febbraio 2017) è stato l’ultimo insegnamento ricevuto dalle labbra del Maestro, prima di inoltrarci nel deserto quaresimale.
Con il brano evangelico odierno, invece, ci troviamo in una nuova sezione (cf. Mt 8-10). Mentre i capitoli ottavo e nono ci narrano l’annuncio del regno, la chiamata a conversione – si pensi alla vocazione dello stesso Matteo (cf. Mt 9,9) – e le numerose guarigioni, ben dieci, segno eloquente della presenza salvifica di Dio in Cristo, il capitolo decimo, da cui è tratta la nostra pericope, è definito il discorso missionario perché trasmette l’invio dei discepoli da parte di Gesù (cf. Mt 10,1-4), con le indicazioni da tener presente nell’opera di evangelizzazione (cf. Mt 10,5-42).

Un primo dato che emerge dal brano è che Gesù invia ed ammaestra i discepoli. C’è, infatti, il periodo della preparazione remota nella quale i chiamati seguendo Gesù, apprendono dalla vita condivisa con Lui il mistero della sua identità, la beatitudine di cui Egli è la sorgente, la parola che salva e dona relazione e gioia in pienezza. È la vita condivisa con il Signore che essi devono annunciare. Il cristianesimo, non è una dottrina, ma la comunione profonda con Dio che si è fatto uno di noi, in tutto simile a noi eccetto che nel peccato. Secondo momento della formazione è la preparazione prossima, che precede l’esperimento diretta sul campo. I discepoli non possono stare sempre con Cristo, hanno bisogno di provarsi, di mettersi in gioco, di trafficare i talenti ricevuti nella vita condivisa con Gesù. Preparazione prossima significa operare una sintesi delle cose apprese, discernere quelle da dire e trasmettere agli altri, ma anche e soprattutto saperle dire, perché non è importante solo ciò che si vuol donare ai fratelli con l’annuncio del regno, ma è altrettanto rilevante la modalità da attuare. Proprio in questo Gesù guida i discepoli perché spesso è proprio il modo che rende fallimentare la nostra impresa ed infruttuoso l’impegno che mettiamo.

Quante volte diciamo cose buone, ma sbagliamo i tempi o anche i modi con cui le diciamo? Quante volte l’impulsività e l’ira determinano fraintendimenti o anche fratture insanabili, perché non siamo stati capaci di saper contenere i nostri sentimenti, come la situazione richiedeva?
Anche in questo Gesù è il nostro Maestro. Egli ci mostra che è un’arte non solo saper capire i tempi più opportuni per intervenire, ma anche donare modalità che traducano la rettitudine del bene che si indica. I giovani hanno bisogno non solo di chi gli mostra con la vita la via della bellezza e del bene, del giusto e del buono, ma di chi indica modalità concrete per tradurre i principi ricevuti in comportamenti. Senza questa mediazione, l’educazione diviene un prontuario di regole, ma non è di questo che i giovani hanno bisogno. Mediazione educativa significa affiancarsi agli altri e condividere la sfida di tradurre in vita l’idealità, fidandosi dello Spirito che come ha permesso al Verbo di farsi carne nel grembo della Vergine, così guida noi a passare dalla parola ai fatti, perché è il Paraclito che riduce le distanze tra il dire ed il fare. Mediazione educativa significa anche accogliere i momenti inevitabili delle difficoltà, non considerarli pietre di inciampo e battute di arresto, perché tutto è grazia nella vita, dal momento che con noi c’è il Maestro, Cristo Gesù, da Lui impariamo a divenire grandi e a crescere nella misura di umanità che Egli ci indica con la sua stessa vita.

La pedagogia che Cristo vive con i suoi discepoli, fatta di cammino progressivo di crescita, accompagnamento personalizzato – si pensi a Pietro o ai due figli di Zebedeo, spesso redarguiti lungo la via della sequela – l’educazione impartita da Cristo fatta di paziente seminagione di insegnamenti, sempre legati a fatti, avvenimenti significativi, incontri importanti, miracoli e guarigioni mirabili, diviene importante anche per noi, perché guardando a Gesù possiamo apprendere come vivere il cammino di formazione in preparazione ai sacramenti. Per accogliere la grazia della Prima Eucaristia o Prima Comunione la vera preparazione remota è fatta in famiglia, tra le mura domestiche, dove, prim’ancora di iniziare il catechismo, il fanciullo vive, insieme agli altri membri della sua famiglia, la domenica come giorno del Signore e della comunità, con la partecipazione alla celebrazione eucaristica ed è così guidato a vedere che la vita dei suoi genitori è plasmata dal Cristo Parola di salvezza e Pane del cammino. Solo così la preparazione prossima fatta in parrocchia – è pur sempre prossima, anche se dura più anni, perché ad incidere come vera formazione è la vita, non la preparazione intellettuale – la catechesi settimanale troverà un terreno già coltivato e sul quale operare con frutto. Lo stesso deve dirsi per gli altri sacramenti. Due fidanzati sono guidati dalle rispettive famiglie a vivere la bellezza dell’amore e a camminare verso la volontà del Padre. Gesù ci insegna a riscoprire il ruolo della vita concreta nel percorso formativo perché non possiamo dire di essere preparati in base a quello che abbiamo appreso per conoscenza intellettuale. La vera formazione passa dai nostri sensi, dagli occhi di un bambino che vede pregare i suoi genitori egli apprende l’importanza dell’intimità con Dio, come dalla carità fattiva verso le persone in difficoltà apprenderà a vedere Cristo nei bisognosi. Il nostro essere Chiesa deve non solo condurci a prendere le parole di Gesù per trasmetterle, senza edulcorazioni e compromessi, ma anche e soprattutto a fare nostra la sua vita, il suo agire, il suo pensare, la modalità del suo annuncio.

Vincere la paura con la forza dell’amore

Gli ammonimenti che Gesù rivolge ai suoi discepoli, almeno quelli della nostra pericope, sono precedute da una delle frasi più ricorrenti sulle labbra del Signore. “Non abbiate paura” (Mt 10,26) dice il Maestro per ben tre volte nel brano odierno (cf. Mt 10,26.28. 31), incalzando perché il cuore dei suoi non conosca lo sconvolgimento, l’agitazione che il demonio crea, la confusione che il Nemico causa. Dio conosce, infatti, il nostro cuore e sa che dinanzi alla sua parola invece di avvertire la confidenza e l’abbandono in Lui, si genera il timore perché Egli ci mostra le vette della vocazione evangelica e spesso veniamo atterriti dalle altezze delle cime. Ecco perché il Maestro, anticipandoci e senza attendere che noi palesiamo ciò che ci portiamo dentro, dice “Non abbiate paura”. Difatti, ogni qualvolta Egli pronuncia queste parole come per incanto torna la bonaccia nel mare agitato del cuore nostro. Non avvenne forse così quando i discepoli, sulla barca, videro Gesù, camminare sul mare? La paura li assalì e, credendo di vedere un fantasma, si misero a gridare. “Coraggio, sono io – disse loro Gesù – Non abbiate paura” (Mt 14,27). Il mattino di Pasqua, l’angelo del Signore, apparendo a Maria di Magdala e all’altra Maria, non le rincuorò forse, vincendo lo spavento ed il naturale timore? “Non abbiate paura” (Mt 28,5) disse loro perché la vista del suo apparire non le portasse a non comprendere il suo annuncio di gioia per la resurrezione del Crocifisso.

L’uomo, ogni uomo, dinanzi al rivelarsi di Dio avverte lo sconvolgimento interiore ed il timore. Sente che la presenza del Signore non solo lo atterrisce, ma fa sorgere in lui la percezione di essere indegno della parola che Egli gli rivolge – è quanto avviene solitamente nei racconti di vocazione tanto nell’Antico quanto anche nel Nuovo Testamento – e per Dio il primo scoglio da superare è proprio quello di vincere la paura ed il timore, perché il terreno del cuore non può accogliere la sua parola e farla fruttificare se ci sono pietre che non permettono al suo buon seme di cadere nel terreno buono. Così capita anche con i discepoli. La chiamata alla missione è qualcosa di grande per loro. Gesù gli affida la sua stessa autorità per scacciare gli spiriti impuri e guarire ogni malattia ed infermità (cf. Mt 10,1), ma essi non devono temere, non devono guardare a se stessi, ma tenere fisso lo sguardo su Colui che li chiama e li rafforza con la sua grazia, li consacra con la sua sacra unzione, li invia con la sua stessa autorità. La paura sorge nel nostro cuore quando guardiamo noi stessi ed avvertiamo troppo grande il dono di Dio. Il Signore ci chiede di tenere fisso gli occhi su di Lui, sempre e di confidare nella potenza della sua grazia, nella forza della sua parola, nell’invincibile vigore che Egli concede agli spossati. Se, preso dal turbamento dinanzi alla grazia dell’elezione, il chiamato lascia che lo sconvolgimento si radichi in Lui, la parola del Maestro non potrà attecchire nel cuore. Ecco perché Egli deve sgombrare il terreno da ogni tipo di dubbio.

“Non abbiate paura” non significa forse, fidati di me e del mio amore, confida nella potenza della mia misericordia, appoggiati a me che sono il tuo bastone ed il tuo vincastro? “Non abbiate paura” cos’altro vuol dire se non lasciate operare in voi la mia mano, liberate il vostro cuore da ogni dubbio perché sono io che chiamo ed eleggo, io che scelgo e rafforzo, io che consacro e invio, io che ungo e rendo mio servo, pronto a combattere nella mischia e a vincere per la mia mano potente che tutto sostiene? “Non abbiate paura” non significa forse lascia che la mia parola passi attraverso di te, la mia voce riverberi nella tua che docilmente si abbandona alla mia silenziosa azione? Nella paura, Dio non opera, né può operare perché il discepolo è così centrato su di sé che non c’è spazio per Lui e la sua grazia onnipotente.

Dinanzi a Dio e alla chiamata alle altezze della vocazione cristiana, alla bellezza della vita coniugale, alla radicalità della consacrazione, al servizio del ministero presbiterale è necessario fidarsi di Dio e della sua parola. Mai anteporre i nostri dubbi alla sua volontà, mai presentare le nostre ragioni e giustificazioni davanti al suo progetto che è sempre più grande del nostro cuore. Dio può tutto e ogni cosa opera, ma la paura ed il timore ci bloccano a tal punto che non ci fanno partire, ci frenano prima ancora che iniziamo a correre dietro a Cristo, ci impediscono di scendere nell’arena per combattere, nella speranza di conquistare il premio. È la voce del Nemico a far sorgere in noi le paure, è lui ad incalzarci, ponendoci dinanzi, facendo forza sulla fantasia, i momenti in cui siamo caduti per i nostri peccati. Egli ci sbatte in faccia le nostre incoerenze, per dubitare della trasformazione che Dio può operare in noi. Sì, Dio può cambiarci, se noi lo vogliamo, può sradicare da noi il cuore di pietra per donarci un cuore di carne come il suo, orientato a Dio Padre, pronto a spendere ogni palpito per amare i fratelli.
Dobbiamo aiutarci nel fidarci di Dio, dobbiamo mutuamente accompagnarci nel far spazio alla parola del Maestro, a confidare nella sua volontà, ad abbandonarci alla sua progettualità. Nulla è impossibile per Dio in noi. Il suo “Non abbiate paura” ci deve sostenere nelle avversità non calcolate, nell’imprevedibile che bussa spesso alla nostra porta e spesso entra, senza che venga da noi accolto con gioia. “Non abbiate paura” è la voce del buon Pastore che dobbiamo sentire quando sta preparando il terreno del cuore a parlarci, ad indicarci vie nuove di impegno e di testimonianza, senza guardare verso di noi e le nostre piccoli e grandi incoerenze perché come Gesù guardò con misericordia Pietro e gli altri ed affidò loro la missione di annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf. Mt 28,16-20), pur dopo il fallimento sperimentato durante la sua passione, così chiede anche a noi di sentire la potenza della sua misericordia e di essere sospinti sempre dalla fiducia che Egli benignamente ci accorda. Questo ci abilita ad avere gli uni nei riguardi degli altri coraggio, a fidarci delle persone che ci sono accanto, ad offrire sempre possibilità nuove di riscatto e di vita. Dobbiamo aiutarci in questo cammino di liberazione, perché se la paura continua a mettere in noi radici, non riusciremo mai essere liberi nell’amore, nella fiducia e nell’offerta della nostra vita agli altri. Dio crede in noi, ci affida la sua stessa missione, ci partecipa il suo Spirito, ci dona la potenza che il Padre ha riversato nel suo cuore, solo così non saremo degli eterni insicuri e ci spingeremo con fiducia verso il futuro. Mai scambiare l’insicurezza per umiltà, ma dobbiamo lasciare che Cristo ci renda liberi nell’amore e ci spinga a divenire servi dei fratelli, come ha fatto Lui.

Dalle tenebre alla luce, dal segreto alla parola

Il segreto della missione che Gesù affida ai sui discepoli sta nel rivelare sulle terrazze ciò che si ascolta all’orecchio, nel proclamare nella luce quanto Egli, che è il Maestro ed il Signore, affida ai suoi nelle tenebre. La missione dell’apostolo di Cristo consiste nel vivere questa continua tensione tra interiorità ed esteriorità, tra silenzio e parola, tra tenebre e luce, orecchio e tetti. Questo serve a sottolineare che essere inviati significa non perdere la relazione fondante con chi manda, perché la linfa che scorre dalla vite ai tralci è la ragione dei grappoli maturi che rappresentano, alla vendemmia, la gioia del vignaiolo.
È necessario recuperare nella nostra vita familiare e parrocchiale, nei gruppi ecclesiali e nelle comunità religiose il primato dell’interiorità e dell’ascolto, che significa vivere con passione ed impegno, con totalità e dedizione amorosa il rapporto con Gesù. Egli vuol parlarmi nelle tenebre, brucia dal desiderio di farmi udire i misteri del Padre senza che il mio orecchio si pieghi ad altro. Ecco perché non deve mai mancare la vita di preghiera come luogo dell’incontro con Dio. I momenti quotidiani di personale relazione con il Signore, da cercare e custodire sempre, mai nulla anteponendo all’ascolto di Dio, sono fondamentali per rigenerare il proprio cuore alla sorgente dell’amore, ma soprattutto per ascoltare ciò che il Signore vuole che noi trasmettiamo agli altri. Se un genitore non fa passare le sue parole nella preghiera, se le sue parole non vengono sciacquate nell’Arno – sciacquare i panni in Arno è la nota espressione del Manzoni per indicare la revisione del testo de I promessi sposi – ovvero immersi nell’acqua che zampilla dal Cuore di Gesù non trasmetteranno la volontà del Padre e non si imprimeranno a fuoco nel cuore di chi ascolta. È necessario, infatti, ascoltare Dio prima di parlare agli uomini, proprio come faceva Mosè che entrava nella tenda del convegno e, uscito, comunicava al popolo le parole del Signore, perché, in caso contrario, trasmetteremo noi stessi e la nostra volontà, ma non saremo nella vita dell’altro/a segno della volontà amorosa di Dio che vuole tutti salvi e felici.

Il Signore parla nelle tenebre, in quale luogo lo ascolto in silenzio adorante? Le mie parole, le mie idee, le faccio passare nella preghiera perché vengano setacciate da ogni forza di egoismo, così da trasmettere il bene ed essere pietre di costruzione e mai di inciampo? Ciò che ascolto, lo proclamo con coraggio, lo dono con convinzione, lo affido con umiltà al cuore e alla vita dell’altro/a? Mi faccio servo o padrone di quanto il Signore mi affida e rifletto che sono e resterò sempre un ambasciatore di misericordia?

Nella parola del Maestro ai suoi discepoli, l’annuncio si lega alla testimonianza, attraverso immagini semplici e al tempo stesso chiarificanti. Il cristiano è chiamato ad essere luce, un chiarore che nasce dalla sua esperienza di tenebra abitata dalla voce del Maestro. Il discepolo è colui che vive per primo lo scandalo della parola che annuncia, è l’uomo che condivide con i fratelli la tenebra della difficoltà e della prova, e che in essa ha scoperto la presenza del Maestro che sempre chiama e la testimonia con coraggio. Condividere la vita dei fratelli ci porta a non seminare dottrine, né a divenire dispensatori di ricette preconfezionate. Come entrare nel dramma dell’altro/a se non sei passato per la stessa notte? Potrà mai la tua parola essere credibile? E come annunciare sui tetti la parola di salvezza se la voce del Maestro non ha ritemprato le nostre forze, spingendoci a ritrovare in Lui nuovo vigore e coraggio? Il missionario che ha incontrato Cristo nella tenebra della sua vita e si è sentito visitato dalla voce del Signore nella sua notte, vive e non potrebbe essere altrimenti, la responsabilità dell’annuncio – “Guai a me se non annuncio il Vangelo”, dice san Paolo in 1Cor – perché il dono della parola agli altri è il segno che abbiamo incontrato il Signore lungo la via, come i discepoli ad Emmaus e la sua parola ci ha fatto ardere il cuore. Dobbiamo sentire la fatica di salire sui tetti per divenire banditori della buona Novella, dell’incontro sperimentato, della misericordia che ci è stata usata, dell’amore che lo Spirito ha riversato nei nostri cuori e ci fa gridare Abbà, Padre. Sì, dobbiamo salire sui tetti come quei tali che calarono il paralitico con il suo lettuccio dinanzi a Gesù (cf. Mc 2,3-4) perché questo ci rende sentinelle che annunciano il passare della notte e l’arrivo delle prime luci dell’alba. Sentinelle del mattino è ogni evangelizzatore, che non ha paura di svegliare l’aurora (cf. Sal 107,3) e di salire sulle terrazze perché “con te mi lancerò contro le schiere, con il mio Dio scavalcherò le mura” (Sal 17,30).

Oggi abbiamo bisogno di essere presenti come cristiani sui tetti per annunciare il Vangelo. Gesù vuole che i suoi evangelizzatori vivano tra l’eremo – il luogo dell’ascolto e dell’intimità – e la città – il luogo del brulicare della vita e delle attività degli uomini – perché è necessario vivere l’armonia della contemplazione in vista della missione. È necessario, oggi più che mai, la nostra presenza nei nuovi areopaghi della società, non possiamo esimerci da questa missione che ci incombe. Senza la nostra presenza, la terra non avrà il sale di Dio, il lievito del Vangelo non fermenterà la massa.

Sempre nelle mani di Dio

La missione è sorretta sempre da una salda speranza in Dio che guida i passi dei suoi annunciatori. La sua presenza e la sua azione continua è la ragione del non aver paura di nulla e di nessuno. Sentire Dio che guida i nostri passi nella sua volontà e fiducia incondizionata nella Provvidenza è il segreto della vita di ogni missionario. È consolante sapere che Dio conta i capelli del nostro capo, che si prende cura di noi, che non ci lascia allo sbaraglio tra le vicissitudini della storia, tra i lupi in mezzo ai quali Egli ci vuole agnelli mansueti, pur con l’astuzia dei serpenti. Sapersi preziosi dinanzi a Dio, custoditi come la pupilla dei suoi occhi dona sicurezze ed infonde nel cuore la gioia di sapersi amati. Se riuscissimo a pensare che anche l’altro/a ci ama così sarebbe più semplice vivere insieme la bellezza e l’avventura dell’amore.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.