Associazione Figli in famiglia

Carmela e la sua vita accanto ai bambini della periferia di Napoli

Carmela Manco

di Ida Giangrande

Sperare è ancora possibile, anche in un luogo dove la criminalità abbonda? Per Carmela Manco e per l’Associazione figli in famiglia, la risposta è: “Decisamente sì”. Oggi per i lettori di Punto Famiglia, un viaggio nella periferia di Napoli.

È incredibile come tante e diverse realtà possano convivere sotto lo stesso cielo. Quando arrivo a San Giovanni a Teduccio, un paese in provincia di Napoli, mi sembra quasi di entrare in un altro mondo. Non dovrei scandalizzarmi, in fondo sono napoletana anche io. So bene quanto la mia terra può essere bella e maledetta e questo, tuttavia, non mi impedisce di amarla.

Ci sono tanti palazzi che si inseguono lungo la prospettiva della strada principale. La percorro due volte alla ricerca dell’Associazione figli in famiglia, e questo mi dà la possibilità di notare tante cose. Sono le dieci del mattino, l’aria è fresca, c’è un sole radioso. I suoi raggi si fanno largo tra i tetti alti, illuminano le scritte sulle pareti screziate di intonaco dei palazzi. I murales mi scorrono accanto, disegni bellissimi, che denunciano una verità tristemente sepolta nell’anonimato della periferia.

In una di queste strade, in un angolo celato da un cancello, si nasconde un modo sommerso: è l’universo dell’Associazione figli in famiglia. Un’oasi nel deserto per i bambini del quartiere.

“Sperare è ancora possibile!” c’è scritto così sul cartello che mi accoglie all’ingresso. Faccio appena in tempo a parcheggiare la macchina e subito vengo attirata dalle voci dei bambini. Volevo chiedere della signora Manco, Carmela Manco, la responsabile, ma per un attimo mi lascio incantare da questi angioletti, seduti intorno a tavoli di legno arricchiti da tovaglie colorate.

“Ha cominciato lui!” si giustifica un bambino con l’educatrice e lei subito: “Non me ne importa. Tu le parolacce non le devi dire!”. Dopo la signora si gira e prima di salutarmi si asciuga le mani su un grembiule. Faccio per chiedere di Carmela Manco e lei mi compare alle spalle: una signora dall’aspetto accogliente, con una voce rassicurante, che indossa un grembiule da cucina e porta una teiera con del latte. Deve servire la colazione ai bambini e solo dopo potrà dedicarsi a me.

Non mi costa aspettarla. In quell’angolo di paradiso strappato all’inferno, mi sembra di respirare la pace e la gioia di un amore che si dona, che si fa pane spezzato per il nutrimento dei più poveri. Carmela non mi fa aspettare molto, mi raggiunge e cominciamo a chiacchierare. Sono venuta per intervistarla, ma come sempre accade, alla fine il nostro diventa un incontro tra amiche.

“Sono una vergine consacrata!” mi dice. “La mia è la storia di una vocazione particolare. Dovevo sposarmi. All’ultimo minuto ho dovuto rimandare il matrimonio perché mia madre era tornata alla casa del Padre. Un giorno, in una chiesa, ho sentito il desiderio di essere altro per questo mondo. Non mi bastava sposarmi e avere dei figli. Io volevo essere il sale che si scioglie nell’acqua e dà sapore. Volevo essere la Croce che ha avuto l’onore di accogliere Cristo”.

La fisso per qualche istante. Avrei una serie di domande da farle, ma ci rinuncio, anzi me le sono dimenticate. Sentire lei che si racconta, mi appassiona. “Oggi ho 64 anni, eppure mi sento giovane. Ogni giorno per me è una scoperta. Una novità che il Signore mi regala. Il giovane è Lui, è Cristo, che rende ogni giorno speciale, diverso, unicamente meraviglioso. Il motto della mia vita è: per Cristo a tempo pieno. È una frase che ho letto un po’ di tempo fa su un disegno, ma il Signore mi ha dato la possibilità di mettere in pratica questo desiderio del cuore”.

“Tutto è iniziato nel 1983, quando io e don Gaetano, il parroco, ci ritrovammo in una parrocchia sgangherata. Molti venivano per la Messa, ma non avevamo nemmeno le panche per farli sedere.  Io ero qui per dare una mano, mi ero consacrata da poco. Un giorno, ho incontrato per strada un bambino in canottiera. Eravamo a novembre inoltrato. Questo piccolino era inginocchiato sul ciglio della strada e con un cucchiaio raccoglieva il terreno che si deposita tra l’asse e il marciapiede”. Allarga le mani, fa spallucce e dice: “Aveva fame. Con qualcosa doveva pur sfamarsi. Non sono riuscita a guardare oltre. Eravamo nel pieno delle guerre di camorra. Le smitragliate erano un fatto quotidiano da queste parti. Oggi le cose sono sensibilmente diverse, ma all’epoca questo era uno dei quartieri più poveri e desolati di Napoli. Le persone vivevano ammucchiate nelle stanze, e mentre i grandi clan si contendevano il territorio, le famiglie, i bambini soffrivano la fame e la povertà come e forse anche più del Terzo Mondo. La nostra avventura è iniziata da lì. Ci siamo presi cura di quel bambino e grazie a lui siamo entrati nel cuore della sua famiglia. L’obiettivo dell’Associazione è proprio questo: lavorare sulle famiglie. Non serve fare la carità, bisogna restituire la dignità alle persone. Bisogna insegnare alle coppie a fare famiglia. Solo così la società può migliorare”. Mi sorride, forse si è accorta che sono un po’ turbata dalle sue parole. Riprende dopo qualche istante con quel sorriso fiducioso che è tipico di chi porta Gesù impresso nel cuore. “Qui noi non facciamo altro che accogliere i bambini quando l’unico posto che avrebbero dove poter andare è la strada. In inverno vengono dopo la scuola e tornano a casa di sera. In estate sono qui quasi tutto il giorno per i campi estivi”. Mi invita a visitare la struttura, un meraviglioso centro polifunzionale. C’è un laboratorio di falegnameria, il teatro in via di ristrutturazione. La cucina, dove alcune signore vengono per imparare a cucinare e poi il giardino, con l’area giochi per i bambini e una piscina gonfiabile che i volontari stanno provvedendo a riempire d’acqua.

“All’inizio le famiglie della zona ci guardavano con sospetto, ma poi hanno imparato a conoscerci e ad apprezzarci per quello che facciamo. Anche le famiglie altolocate nel mondo della malavita, ci portano i loro bambini. Lo fanno con costanza e fiducia. Credo che tentino di salvarli. Nessun genitore vuole il male per i propri figli. Negli anni, abbiamo costruito una rete di famiglie solidali. Gruppi di cinque famiglie che fanno da supporto non solo per quella che accoglie il minore in affido, ma anche per i genitori di origine del bambino. L’esperienza mi insegna che molte persone semplicemente non sanno che si può vivere in modo diverso. Nessuno ha mai dato loro gli strumenti per poter vivere la vita diversamente e in molti casi, basta semplicemente spiegare delle cose”.

Faccio un po’ di fatica ad accettare le sue parole e avanzo una domanda: “Sento spesso dire che i ragazzi non hanno altra scelta che la malavita. È proprio vero?”. “Non è vero. La malavita è sempre una scelta. Da qui sono passati tanti ragazzi e altrettante ragazze. Alcuni hanno scelto il proprio destino abbagliati dalla possibilità del guadagno facile, della vita da boss. Il prezzo da pagare lo conosciamo tutti: il compromesso morale e la possibilità di finire ammazzati per strada. Altri, però, ce l’hanno fatta. Hanno lasciato questa vita, si sono dedicati al teatro, all’arte, allo sport. Si sono conquistati il bene supremo dell’onestà. Lo hanno fatto non senza coraggio e sacrificio e spesso anche mettendosi contro i propri cari”.

Le porte si aprono e scorgo una colonna di bambini che arrivano in giardino per il bagno in piscina. Il più grande di loro non supera il metro e venti. Hanno gli zainetti sulle spalle, i costumi variopinti. Sono sorridenti, ignari dei pericoli che li circondano e di quanto bene stiano ricevendo. “Ogni volta che arrivano qui noi scommettiamo su ognuno di loro” sottolinea Carmela guardandoli insieme a me, “lavoriamo sui loro cuori convinti di averli conquistati, ma sappiamo che il domani potrà essere diverso. Tuttavia noi speriamo. Speriamo, perché la speranza è davvero possibile!”.




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1 risposta su “Carmela e la sua vita accanto ai bambini della periferia di Napoli”

Grazie Ida per aver sollevato quel velo che spesso vieta di “vedere” il bene e l’amore che ancora esiste in tali zone geografiche.
Complimenti per l’articolo.

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