XV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 16 luglio 2017

Perché attendi che l’altro faccia il primo passo?

di fra Vincenzo Ippolito

Amare significa vivere nella libertà che nasce quando sai che l’affetto che l’altro nutre per te apre orizzonti sconfinati, ti spinge ad andare sempre al di là del reticolato della vita che vivevi prima, oltre i limiti imposti dalle paure che ti attanagliano e alle fobie che come degli spettri, si presentano nel cuore e ti immobilizzano.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,1-23
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:

“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.

Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

 

Mentre la scorsa domenica abbiamo gustato la mitezza e l’umiltà del Cuore di Cristo e siamo stati invitati a rivestirci dei suoi sentimenti, oggi, invece, condividiamo la vita del Maestro lungo il mare, il suo immergersi nel chiasso della quotidianità che è propria dell’uomo di ogni tempo. La vita cristiana si muove sempre tra silenzio e parola, tra solitudine e città. L’una non può esistere senza l’altra, perché l’intimità sperimentata con Cristo ci spinge sempre ad immergerci nel mare della storia, non per farci travolgere dai flutti impetuosi degli eventi, ma per indicare una rotta alla navigazione incerta che tutti viviamo. Lo stesso capita anche nelle nostre famiglie, trasmettiamo fuori il clima che viviamo all’interno e, pur senza accorgercene, diventiamo ignari testimoni della nostra vita familiare. Lungo il mare si ascoltano tante parole, ma solo quella di Cristo, il buon seminatore, offre una direzione bella e nuova alla nostra vita.

Amare come uscita da sè

Il brano evangelico odierno ci proietta nel vasto orizzonte della predicazione di Gesù caratterizzata dall’uso delle parabole. L’evangelista Matteo, nella narrazione dedicata alla rivelazione del regno (cf. Mt 11-13), ne enumera ben sette nello stesso capitolo (cf. Mt 13). Leggiamo oggi la prima – le altre ci verranno donate nelle prossime due domeniche – quella forse più conosciuta, solitamente definita la parabola del buon seminatore. In essa il Maestro non solo offre il suo insegnamento alle folle che vanno a Lui per ascoltarlo, ma spiega anche ai suoi discepoli la parola in precedenza donata, poiché primariamente a loro “è dato conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11). In tal senso, il brano evangelico si può dividere in tre parti: la prima è parabola vera e propria (vv.1-6), cui segue il dialogo di Gesù con i discepoli invitati a capire il perché le parabole conservino un linguaggio oscuro per chi non accoglie Cristo e la sua rivelazione (vv. 10-17); nella terza (vv. 18-23) il Maestro conduce per mano i suoi alla giusta comprensione della parabola del buon seminatore. Procediamo anche noi per gradi perché, sorretti dalla lampada della fede, non capiti di imbatterci in una parola che rimane oscura, pur se considerata semplice sulle prime, per la durezza del nostro cuore e l’incapacità di credere in Colui la cui parola è “spirito e vita” (Gv 6,63).

Il primo dato che notiamo nella pericope è il cambiamento di luogo. Gesù esce dalla casa dove stava insegnando (cf. Mt 12,46-50) e siede lungo il mare. È un movimento che indica non solo l’inizio di una nuova scena, ma la capacità di Gesù di raggiungere l’uomo lì dove vive e opera, perché la salvezza che Egli è venuto a portare non esclude nessuno. Gesù esce, assecondando il desiderio del suo cuore in perfetta sintonia con la volontà del Padre – è quanto abbiamo contemplato la scorsa domenica, meditando Mt 11,25-30 – perché la sua parola non può essere chiusa in un luogo, in una cerchia ristretta di persone, ma deve giungere gli estremi confini della terra. È la corsa della parola che non può arrestarsi dinanzi a quello che gli uomini credono e desiderano, pretendono ed impongono. Anche altre volte notiamo nei Vangeli come i discepoli faranno fatica a portare a comprendere Gesù, la sua ansia di annunciare la salvezza e di vivere la seminagione della gioia e della speranza cristiana. A Simone che, trovato il Maestro immerso nella preghiera solitaria del monte, gli dirà “Tutti ti cercano!” (Mc 1,37), suoneranno quasi incomprensibili le parole di risposta “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo, infatti, sono venuto” (Mc 1,38). A Gesù sembra non basti il piccolo gruppo che si raccogli in casa o che lo cerca perché capace di operare segni prodigiosi. Egli sente di dover spargere il seme del sacco di Dio dovunque, non può restringere la cerchia di coloro che ascoltano la sua parola e a cui è offerta la possibilità di accogliere nella rivelazione piena del disegno del Padre. Questo non significa che Egli desideri il plauso e l’acclamazione delle folle – i Vangeli dimostrano, invece, come fugga dinanzi ad ogni tentativo di strumentalizzare il suo ministero ed impone il segreto (si tratta del cosiddetto segreto messianico) a quanti, da Lui risanati, non sono ancora capaci di ben intendere il mistero della sua Persona – perché Gesù non cerca la gloria degli uomini, ma la loro salvezza, Egli che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (cf. Mt 20,28).

È lungo il mare che il Maestro si ferma, siede quasi attendendo che le folle vadano a Lui, come già era successo quando aveva preso posto sul monte delle beatitudini (cf. Mt 5,1). Sì, Dio siede ed attende sulle strade della nostra vita, nei crocicchi dove sa che noi dobbiamo passare. Ci aspetta come fece con la donna samaritana al pozzo (cf. Gv 4,5-6), a mezzogiorno, quando siamo stanchi e sfiniti per il nostro continuo andirivieni che ricorda la fatica dell’intera notte passata dai discepoli a pescare, senza nessun risultato. Gesù mostra un’immagine di Dio alla quale non siamo abituati, non perché non sia presente nelle pagine della Scrittura, ma perché siamo noi che non teniamo a mente l’esperienza di fede fatta dai padri. Dio non resta nel giardino di Eden dopo la cacciata di Adamo ed Eva perché anche Lui diviene pellegrino e forestiero con l’uomo. Da quel momento, anche il Signore è ramingo, segue la sua creatura, la rincorre, la seduce perché, da buon pastore, una volta trovata, se la possa mettere in spalla e ricondurla nell’ovile sicuro del suo regno. Il Signore è sempre in cammino con il popolo nel deserto e, ieri come oggi, lo conduce verso la terra promessa. La sua arca, segno della sua presenza e dell’alleanza che Egli stipula con Israele, dimora sotto una tenda e non teme di vivere la precarietà che è una delle note dominanti di chi ama.
È alto il prezzo per conquistare o riconquistare l’altro/a, nella secca del rapporto. Gesù ci insegna a non attendere mai che l’altro faccia il primo passo, ma ci insegna a farlo, senza battere ciglio, spinti dall’amore che Egli infonde in noi. Amare significa uscire dalla casa delle proprie sicurezze ed intraprendere il cammino che serve anche all’altro per acquistare la libertà e gettare il giogo della propria schiavitù. Uscire dalla casa per noi vuol dire abbandonare le proprie idee e le sicurezze che ciascuno porta con sé, per trovare nel bene della persona amata, nel dono di sé, l’unica sicurezza, la sola meta da raggiungere. Amare significa vivere la precarietà, quella di stare lungo il mare dell’altro/a, nella sua dispersione, soggetti ai mutamenti dei venti e alle contrarietà delle stagioni, aspettando che si accorga del nostro essere mendicanti, bisognosi della sua parola e della sua cura, dell’attenzione e del suo affetto. Amare significa vivere nella libertà che nasce quando sai che l’affetto che l’altro nutre per te apre orizzonti sconfinati, ti spinge ad andare sempre al di là del reticolato della vita che vivevi prima, oltre i limiti imposti dalle paure che ti attanagliano e alle fobie che come degli spettri, si presentano nel cuore e ti immobilizzano.
La nostra fede deve conoscere il mare aperto della vita, non possiamo stare chiusi in noi stessi, ma è necessario sperimentare l’orizzonte sconfinato del cielo azzurro che è l’altro per me, il suo cuore che è un mare le cui acque, ora tranquille e carezzate dal sole, ora agitate perché percosse dai venti, devo navigare con coraggio. Dobbiamo vivere l’avventura di andare alla ricerca della terra sempre nuova della responsabilità e della maturità alle quali si giunge sempre con tanto fatica, seguendo la stella polare della volontà del Padre. Quello che il Signore mette nel nostro cuore come ansia ed esigenza di bene è necessario che lo mettiamo a disposizione degli altri, perché Dio arricchisce noi per raggiungere altri. Perché allora blocchiamo la corsa della trasformazione in noi e non lasciamo che la grazia, valicando la casa del cuore, raggiunge il mare impetuoso della vita dell’altro/a?

Ascoltare e capire, non sentire e dimenticare

Le folle, attratte dalla presenza di Gesù, gli fanno ressa intorno ed il Maestro prende posto su una barca perché la sua parola possa raggiungere tutti, nessuno deve essere escluso dalla possibilità di vedere la sua Persona e di godere del suo insegnamento. Cristo utilizza il genere parabolico, ovvero usa immagini desunte dalla vita quotidiana, un linguaggio familiare ai suoi ascoltatori, ma, pur nelle semplicità del suo dire, è la folla che deve porsi in condizioni di poter ascoltare e di comprendere con la mente ed il cuore. La chiave di lettura della parabola è nelle battute finali – la nota frase “Chi ha orecchi, ascolti” (v. 9) – indicando che può capire i misteri del regno non chi è sapiente ed intelligente, ma gli umili ed i poveri, quanti sono interiormente liberi nell’accogliere il piano di salvezza che il Padre rivela nel suo Figlio Gesù. Noi leggiamo la parabola, già conoscendo la spiegazione successiva che il Maestro presenta (vv. 18-23), ma per chi ascolta la prima volta l’insegnamento di Gesù, la sua parola resta oscura, perché la comprensione è dono di Dio solo per coloro che umilmente si rivolgono a Gesù e lo accolgono come rivelatore del piano di salvezza di Dio. Così la Scrittura si apre e dona la dolcezza del suo rivelarsi, proponendosi come parola che apre il cammino e dona orizzonti nuovi di vita a chi si lascia raggiungere dalla sua grazia e apre il terreno del cuore alla divina seminagione. La Scrittura rimane per noi sempre oscura se Cristo non la spiega, se un fratello non ci dona il senso recondito nelle umane parole. Così accadde anche all’etiope di cui narra san Luca nel libro degli Atti degli Apostoli (8,26-40). Egli, seduto su un carro, leggeva il profeta Isaia. “Filippo corse innanzi […] e gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Egli rispose: «E come potrei capire, se nessuno mi guida?»”.
Per comprendere la Scrittura dobbiamo umilmente lasciarci guidare da Cristo, come i discepoli lungo la strada di Emmaus. Se, invece, crediamo di non aver bisogno di nessuno perché siamo bravi e capaci di vedercela da soli, di saper comprendere la volontà di Dio, potremo conoscere la lettera della Scrittura, non lo Spirito della divina Scrittura, come insegnava ai suoi frati san Francesco. Dio resiste ai superbi, ma fa grazia agli umili (1Pt 5,5). Ha orecchi per intendere le parole di Gesù chi, attraverso una frequentazione continua di Lui, entra nella sua vita e sperimenta nella sua strutturale fragilità che il Signore lo raggiunge, lo guarisce da ogni superbia e gli dona la sua amicizia e la pace del cuore. Avere occhi e non vedere, udire e non ascoltare è proprio di chi non si sente attratto dal linguaggio del Signore, crede di poter fare a meno di Dio. Non c’è peccato più grande della superbia, del credere di poter bastare a se stessi, di non aver bisogno di nessuno. Il Signore, che resiste ai superbi e fa grazia agli umili, apre le menti alla comprensione della sua parola per chi lo accoglie, si pone in ascolto umile della sua voce, si lascia raggiungere dalla sua mano che risana, dal suo occhio che vede e soccorre.

Solo chi parla il linguaggio dell’amore può comprendere il Vangelo. Solo chi ha sperimentato la potenza della vita che ha vinto la morte del peccato può accogliere Cristo e la sua luce che ogni umana realtà rischiara. Non è Gesù che ci esclude dalla comprensione della sua parola, ma siamo noi che ci autoescludiamo, quando facciamo prevalere la nostra intelligenza autoreferenziale, quando dinanzi a Lui accampiamo diritti e non ammettiamo di essere creature. I nostri orecchi sono tappati dai rumori delle voci del nostro cuore che continuamente ci ricorda il nostro essere migliori, degni di ogni onore dinanzi agli altri, ineccepibili quanto ai nostri atteggiamenti, intoccabili per le nostre sempre buone intenzioni. “Chi ha orecchi, ascolti” dice Gesù, ovvero chi è capace di non far sempre funzionare la bocca, perché capaci di parlare e di spaccare sentenze, di credersi dispensatore di buoni consigli, mai bisognoso di una parola che possa rischiarare il suo cammino. “Chi ha orecchi, ascolti” ammonisce il Maestro, ricordando che tante volte pecchiamo di poco ascolto, di una incapacità a mettere il cuore e la mente alle parole che ci vengono donate.
Dove finiscono i fiumi di parole che la liturgia domenicale ci dona? Qualcosa riesce a depositarsi nel cuore oppure tutto vien rigettato come non confacente alla nostra situazione? È un vero cammino quello che il Signore ci propone durante la liturgia domenicale per crescere, a livello personale e come famiglia, nella relazione amorosa con Cristo e tra noi: fino a che punto riusciamo ad aprirci al dono di Dio e lasciamo che il Signore ci muova alla carità e all’accoglienza dei fratelli?

Abbiamo probabilmente bisogno di sensi nuovi, perché se i nostri rapporti interpersonali difettano, è perché non c’è quell’accoglienza di fondo che mi porta ad aprirmi all’altro e a fare spazio in noi al suo dono. Quante volte parliamo linguaggi che non comunicano e non creano rapporti stabili o per lo meno non li fanno crescere! Questo dipende tante volte dalla poca volontà che mettiamo, dal poco impegno, come anche dalla nostra poca predisposizione all’accoglienza. Nelle relazioni, noi assecondiamo le continue richieste che ci vengono fatte, ma le subiamo come se fossero pretese, mai operiamo in noi quel giusto discernimento che ci porta a dire: sono io che devo scomodarmi e mettermi così in discussione oppure è l’altro/a che sta chiedendo cose impossibili? La difficile arte del discernimento è indispensabile per non cadere nella trappola della superficialità e per non sciupare le tante opportunità che ci vengono offerte. Ma cosa ci impedisce veramente di ascoltare Dio e gli altri? Quale la corazza che dobbiamo deporre perché solo il Signore siano nostro scudo e baluardo?
Dio ci chiede un ascolto docile, ovvero la capacità di credere in Lui che parla per noi e ci dona la sua vita. La stessa dinamica deve innescarsi anche tra noi. Se quando qualcuno mi parla, io già penso che la sua parola non mi sarà utile, che i suoi consigli non mi serviranno, che alla sua persona non credo, allora il mio orecchio sarà impedito da preconcetti e quindi il mio sarà un ascolto non vero. Dobbiamo, invece, ascoltare Cristo e i fratelli con libertà, senza pregiudizi, accogliendo dalle labbra del Signore la nostra vita e da quelle dei fratelli delle proposte che vanno insieme vagliate, ma non devono essere accantonate senza un giusto e serio discernimento.

Io chi sono dinanzi a Dio e all’altro/a?

La parabola di Gesù (vv. 3-9), alla luce della sua spiegazione (vv. 18-23), indica il nostro modo di relazionarci a Cristo, nell’ascolto attento e docile, distratto o frettoloso della sua Parola. Il Maestro si presenta nella figura di un seminatore che “uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada […] un’altra cadde sul terreno sassoso […] un’altra cadde sui rovi […] un’altra cadde sul terreno buono” (vv.4a.5a.7a.8a). Si tratta di tipologie diverse, di situazioni distinte che determinano un differente esito per il seme che Dio sparge con tanta larghezza. Ci rifacciamo alla spiegazione proposta da Gesù per entrare nel testo ed operare quella verifica della nostra vita personale, familiare e comunitaria che il brano evangelico richiede.

Emblematico è l’atteggiamento di Gesù-seminatore. Egli non fa calcoli, diversamente da noi uomini sparge il seme della sua bisaccia con un cuore pieno di fiducia nella capacità sia del seme sia di chi lo accoglierà e il suo animo traboccante di speranza per il buon esito che si potrà avere. Come il pastore che, lascia le novantanove pecore nel deserto, e va alla ricerca di quell’unica perduta, finché non la ritrova (cf. Lc 15,4), Gesù-seminatore non guarda dove il seme cade e non trattiene nella sua mano la semente. Egli sparge e basta. Gli si potrebbe dire “Ma non vedi che il buon seme sta cadendo sulla strada?” oppure “Stai attento, semini tra i rovi!” o ancora “Perché mai sembri così indifferente nello spargere ciò che la tua sacca contiene?”. Quella del seminatore non è inavvertenza, né il suo occhio pecca di poca attenzione. Il Signore sa bene dove il seme sta per cadere, ma egualmente dona possibilità a tutti, perché sa che “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37) e che “nulla è impossibile a chi crede” (Mc 9,22). Fiducia in Dio Padre e fiducia nell’uomo. Al suo posto, noi non avremmo gettato o sprecato del seme, ma lo avremmo tutto sparso nel terreno buono oppure avremmo provveduto prima a dissodarlo da ogni impedimento quello sassoso. Il Figlio di Dio, annunciando la buona Novella, non ha forse donato la sua parola ai pubblicani ed ai peccatori? E tanti, piccoli ed umili, considerati inetti ed incapaci a comprendere le parole della Legge, non sono divenuti forse i primi tra i suoi? L’umile pescatore di Galilea, quel Simone fratello di Andrea, non è forse divenuto prima pescatore di uomini e poi principe degli apostoli, chiamato a confermare nella fede i discepoli, a pascere le pecore del Signore per la potenza della fede e dell’amore riposta nel Cristo, vero Figlio di Dio? E quel Levi il pubblicano, considerato parte di quella categoria dalla quale rifuggire, non diviene lo scriba evangelico per aver accolto lo sguardo di Gesù, la sua parola di conversione, la sua impellente richiesta di vita nuova? La parola-seme ha la capacità di trasformare il deserto, di far fiorire la steppa, basta soltanto che lo si voglia, che ci si abbandoni a Cristo e alla potenza della sua grazia, alla primavera che Egli fa fiorire nel nostro inverno.

Il tuo cuore è una strada dove gli uomini passano e ripassano, strada battuta dove non fiorisce nulla perché l’andirivieni di pensieri e moti segreti dell’animo non premettono il nascere della vita? Accogli il seme del Maestro e lascia che metta radici in te. Non aver paura, credi nella potenza del suo amore a cui nulla è impossibile. Ti guardi e hai paura, tremante come sei, di soccombere al mistero del male? Come Abramo, abbi la costanza di scacciare gli uccelli (cf. Gen 15,11) perché non sradichino e rubino i primi germi della grazia di Dio che è in te e non temere la secca. Dio farà scorrere acqua nel tuo deserto. Senti che il tuo animo è un terreno accidentato, dove i sassi sembrano avere la meglio sul terreno, impedendo talvolta perfino di camminarvi? Non temere, il Seminatore ti farà camminare sulle alture, Egli che, per amor tuo, ha conosciuto le asprezze del Calvario. Accogli il seme del suo insegnamento e i nascondigli delle rocce diverranno un giardino irrigato. Dici solo il tuo Sì al Signore della vita che ogni difficoltà appiana, ogni realtà, con il suo amore, trasforma. E se, andando avanti, vedi che il sole delle tribolazioni e delle persecuzioni, impediscono alla parola di vincere la calura, rivolgiti al Padrone della messa, sarà Lui a provvedere perché il suo amore sia per te ombra di giorno e colonna di fuoco di notte e tu vinca ogni difficoltà, perché tutto può chi ama con fede. Ti senti il cuore impestato da rovi e spine e cardi produci senza fine. Guarda il Seminatore, crede in te e nella potenza del suo seme di trasformarti. Non sarà il male a prevalere sul bene, ma il contrario, come il mattino del terzo giorno fu la morte ad essere vinta dalla potenza della vita risorta. Non lasciare che le preoccupazioni del mondo e le seduzioni delle ricchezze siano per te come una spina nella carne e anche se fosse, ripeti con l’Apostolo “Tutto posso in Colui che mi dona forza” (2Cor 12). Confida nel Signore e vedrai la gloria di Dio. Sei terreno buono e fai frutto? Non credere che questo avviene per tuo merito, ma restituisci tutto al Signore nelle parole e nelle opere, per non imbatterti nella superbia che condusse Lucifero dal paradiso a precipitare negli abissi dell’Inferno. Tutto è grazia e nulla di quello che hai è tuo, ringraziane il Signore, spezzati ai fratelli come il Pane sull’altare e dai a Lui tutta la tua lode, con il canto di una vita proclama la sua gloria!

Dall’ascolto la propria identità

Il nostro essere discepoli di Cristo dipende dalla capacità di ascoltare e vivere la sua parola come lo spessore delle nostre relazioni è proporzionato alla nostra disponibilità di accogliere nel terreno del cuore la parola dell’altro/a e di farla fruttificare, senza mettere impedimenti, come nell’offrire le nostre come buon seme. Se nel caso di Dio la sua parola è sempre verità e giustizia, le nostre vanno vagliate perché siano semi che fanno crescere l’unità e la pace, non parole che seminano la discordia e la disarmonia. La parabola del seminatore, oltre ad essere letta per analizzare il proprio stato qui ed ora, offre anche un progressivo itinerario di conversione, perché gradualmente la parola porta frutto in noi. La vita cristiana, come per il popolo d’Israele, è un cammino dalle nostre schiavitù alla libertà dell’essere figli di Dio. Anche noi siamo chiamati ad attuare un quotidiano impegno di conversione perché l’uomo vecchio lasci sempre più spazio al nuovo. La parola di Dio e dell’altro/a ci crea e ci ricrea. Dobbiamo crederci e lasciarci portare non da Cristo e da coloro, che in suo nome, sono il segno più semplice e bello del suo rivelarsi.




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