XVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 6 agosto 2017

La preghiera nasce nella dimora del silenzio del cuore di Cristo

preghiera

di fra Vincenzo Ippolito

Pietro e Giovanni, Giacomo come ogni discepolo suo non può vivere unito a Gesù, seguirlo fino alla croce se non impara ad essere figlio. La preghiera è mistero di figliolanza, è la certezza vissuta e sperimentata di avere Dio come Padre che ci ama e pensa a noi e ci custodisce dal maligno, senza toglierci la prova, ma sostenendoci nella tribolazione e nella difficoltà.

Dal Vangelo secondo Matteo 17,1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

Lasciando il ritmo della liturgia domenicale, celebriamo oggi la festa della Trasfigurazione del Signore. In pochi casi, durante l’anno liturgico, le solennità o le feste del Signore, della Madonna e dei Santi prevalgono sulla liturgia della domenica. Oggi è uno di quei pochi casi e questo accade proprio perché si tratta di un evento della vita terrena del Signore. Nostra guida è sempre l’evangelista Matteo, che ci conduce su un alto monte e svela ai nostri occhi, insieme con Pietro, Giacomo e Giovani, il mistero della luce divina che avvolge il Maestro, vero uomo e vero Dio, la compiacenza del Padre, l’unico da ascoltare con piena docilità di cuore.

Partecipare alla preghiera del Figlio

Proprio perché la liturgia prevede delle letture bibliche appropriate alla celebrazione della Trasfigurazione del Signore, non seguiamo, come ogni domenica, la lettura continua del Vangelo secondo Matteo – lo riprenderemo la prossima domenica – ma, attingendo sempre dalla narrazione del primo Evangelista, leggiamo e meditiamo la pericope che narra l’evento del Tabor. Questo, nella nuova strutturazione del rosario voluta da san Giovanni Paolo II, rappresenta il quarto Mistero della luce, il momento in cui Gesù manifesta la sua gloria e prepara i discepoli allo scandalo della croce.

Il nostro brano (cf. Mt 17,1-9) è mirabilmente incastonato tra i due annunci della Passione (cf. Mt 16,21; 17,22-23) che rappresentano lo sfondo del rivelarsi di Gesù sul monte. In esso convergono, da un lato, la consapevolezza che diventa sempre più chiara in Gesù di offrire la sua vita, in obbedienza al Padre e, dall’altro lato, la difficoltà dei discepoli a portare il passo con il Maestro, proteso a camminare spedito verso il compimento della sua missione. Emblematica, in tal senso, è la figura di Pietro. La sua confessione di fede, esatta nella formulazione – “Tu sei il Cristo, il Figlio del dio vivente”, Mt 16,16 – non è seguita dalla giusta comprensione del vero senso delle parole pronunciate, vi è un divario tra ciò che si dice e quanto vien fatto. Anche gli altri discepoli vivono la sua stessa difficoltà. Non a caso, infatti, Matteo appunterà, chiudendo il secondo annuncio della Passione “Ed essi furono molto rattristati” (Mt 17,23). La luce del monte, nel cammino del discepolato, mostra come la ricerca costante della volontà del Padre da parte di Gesù è il vero ed unico senso del cammino di sequela del discepolo, perché non esiste nessun altro percorso dietro a Cristo che possa evitare la croce. Per ogni seguace di Cristo vale quanto ha scandito la vita del Maestro, per crucem ad lucem, per crucem ad gloriam, attraverso la croce alla luce, attraverso la croce alla gloria.

Il primo dato che emerge nel testo è il desiderio di Gesù di guidare progressivamente i discepoli alla giusta comprensione della sua missione, a capire senza fraintendimenti la volontà del Padre su di Lui e, di conseguenza, su quanti lo seguono. Egli non esclude i suoi, pur vedendo la durezza del loro cuore, ma vuole conquistarli alla causa della sua vita donata per amore. L’esperienza del monte serve a Gesù perché il suo animo si tempri ancor di più nell’obbedienza filiale, ma è indispensabile soprattutto ai discepoli perché si elevino e raggiungano la misura alta del dono della vita che è il segno di ogni autentico cammino di sequela. L’orizzonte di questo cammino di maturazione è rappresentato proprio dalla preghiera, “luogo del cuore” dove Cristo è guidato all’offerta dalla relazione con il Padre e dove i discepoli sono chiamati a penetrare la vita di Gesù che è la Parola di Dio fatta carne. È imprescindibile pensare la vita cristiana senza il dialogo con Dio, come è impensabile credere di poter agire con la potenza del Signore in questo mondo senza lasciare che lo sguardo di elezione di Dio penetri nelle profondità del proprio essere nei tempi e luoghi deputati all’incontro prolungato e misterioso con Lui, sull’esempio di Gesù.

Più volte i Vangeli ci presentano la preghiera di Cristo come bisogno vitale del suo cuore di Figlio e mostrano come i discepoli, nel cammino di sequela, siano guidati gradualmente ad imparare e vivere una relazione nuova con Dio, attraverso Gesù. È questo il punto nevralgico della preghiera che i discepoli apprendono alla scuola del Nazareno. Non si può credere di pregare senza Gesù, di parlare con il Padre privi della forza dello Spirito di Cristo che in noi grida “Abbà, Padre!”. Pregare non vuol dire rivolgere a Dio parole che, come un fiume in piena, riversano le ansie e le angosce della nostra vita nel mare del cuore divino. Tutto deve passare attraverso Gesù, nelle sue mani trapassate dai chiodi siamo chiamati a deporre le nostre lacrime, nella ferita del suo costato troviamo la pace, nel suo cuore la gioia vera che nulla e nessuno potrà mai strapparci. Come definire cristiana la preghiera senza Gesù Cristo? Come sperare di essere esauditi dal Padre senza passare attraverso il cuore di Gesù? Questo è il cambiamento che i discepoli sono chiamati ad accogliere: dal Sinai, dove il Signore Dio donò il decalogo come codice dell’alleanza, al Tabor dove è Cristo l’unico ed il perfetto mediatore, Lui l’Agnello del nostro riscatto, la Legge della nostra libertà, la Sorgente della nostra salvezza.
Il discepolo vive di Cristo e come Lui, se lascia che il Maestro lo innesti nel flusso di vita che sgorga dal suo cuore e raggiunge il Padre. Pietro e Giovanni, Giacomo come ogni discepolo suo non può vivere unito a Gesù, seguirlo fino alla croce se non impara ad essere figlio. La preghiera è mistero di figliolanza, è la certezza vissuta e sperimentata di avere Dio come Padre che ci ama e pensa a noi e ci custodisce dal maligno, senza toglierci la prova, ma sostenendoci nella tribolazione e nella difficoltà. Il discepolo deve imparare da Gesù che il dialogo con Dio, avendo Cristo come Maestro, è un bisogno da riconoscere in sé e da nutrire in noi perché senza la linfa della relazione vitale con il Padre come si può testimoniare la bellezza della figliolanza? Senza la certezza di sperimentare con Gesù l’abbraccio del Padre, come vivere la tentazione e la croce, le difficoltà della missione e attendere che il tempo della mietitura separi il grano dalla zizzania? Nella preghiera il discepolo, entrando gradualmente nella familiarità che Gesù vive con il Padre, scopre che è chiamato a vivere di pura fede e di docile recettività della grazia. Solo così la sua vita sarà totalmente orientata alla volontà di Dio e potrà essere testimone della potenza della grazia che abita e trasforma il suo cuore. Da questo comprendiamo che la preghiera è grazia e dono di Dio concessa all’uomo attraverso Gesù Cristo, il Figlio che rivela il mistero del Padre e del suo amore, perché Lui ne è il tesoriere e l’amministratore, ma, al tempo stesso, l’orazione è anche impegno, perché si impara a pregare e a dialogare con Dio. Come in famiglia i genitori, con pazienza, insegnano ai loro figli a parlare e li correggono perché le sillabe mal pronunciate non si ripetano, così Gesù ci insegna a pregare e a saper ben scandire ciò che è parte integrante del suo linguaggio di figlio, nella relazione amorosa con Dio. La preghiera è il linguaggio che appartiene a Gesù e se Lui la insegna a noi è per amore, perché vuole che noi abbiamo libero accesso al cuore del Padre, passando sempre e solo attraverso il suo cuore.

Per imparare l’arte del dialogo con Dio, sembra dirci indirettamente l’Evangelista, sono necessari tempi e luoghi adatti. Per questo Gesù conduce i discepoli su un monte alto e solitario. La preghiera nasce nella dimora del silenzio perché è lì, lontano dal chiasso, che si ascolta Dio che parla in Gesù e si accoglie la sua volontà dispiegata nella sua vita. Prega chi è associato alla preghiera di Gesù, chi partecipa al suo silenzio, chi lascia che sia Lui e Lui solo a guidarlo alle profondità della relazione con il Padre per vivere la bellezza della vocazione ad essere figli nel Figlio Gesù. Essere in disparte non significa nascondersi agli occhi del mondo, neppure fuggire dalla storia per ricercare una pace apparente in cui godere egoisticamente di Dio e del suo amore. Pregare significa lasciare che Cristo ci trasformi in lievito capace di fermentare tutta la massa, infondendo in noi la forza di combattere il male con il bene, senza voler strappare anzitempo la zizzania dal campo del buon grano. Nella preghiera, godendo della compagnia di Gesù, impariamo ad attendere i tempi opportuni, accogliendo la piccolezza dell’essere noi per primi granello di senape che, consegnato alla terra come il Figlio di Maria, muore e fa frutto per la vita del mondo.

La preghiera, mistero di trasformazione

L’evangelista Matteo, nel descrivere la Trasfigurazione, mette in risalto come Gesù sia il centro della scena descritta, mentre i discepoli partecipano, per il puro dono che il Maestro loro concede, alla grazia della relazione con il Padre. Pietro, Giacomo e Giovanni sono presi e condotti sul monte, ma ad essere trasfigurato è Gesù, è Lui che cambia di aspetto perché l’uomo non ha la capacità di pregare e di accedere al mistero di Dio, se non è associato al dialogo orante di Cristo con il Padre. Appunta l’Evangelista “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,2). Leggendo bene il testo, ci rendiamo conto che l’attenzione dell’autore è su ciò che i tre discepoli percepiscono del Cristo trasfigurato. Non ci vengono, trasmesse le parole, né i contenuti del dialogo orante, ma solo gli effetti che il colloquio con Dio ha in Gesù e sulla sua umanità. È come se Matteo stesse dicendo che la preghiera è la terra santa, il luogo eletto – simile a quella del Sinai per Mosè, cf. Es 3,5 – dove l’uomo Gesù incontra misteriosamente Dio e si lascia trasformare dalla grazia della sua presenza. Dio sul monte è per Lui il Presente, il Vivente e più la relazione diviene profonda, più il suo cuore incontra il palpito del cuore del Padre e si abbandona nell’obbedienza alla volontà sua. Gesù cambia di aspetto nella preghiera perché l’incontro con l’Amore trasforma ed incanta, seduce ed accende di santi desideri il cuore e la mente. Il volto di Gesù brilla come il sole perché riflette la luce che riceve da Dio e le vesti sue divengono candide perché il chiarore della divina presenza misteriosamente lo avvolge e lo abbraccia.
Nella contemplazione si sperimenta la trasformazione solo se incontro Dio così come Egli è e si dona. Nella preghiera si è trasformati, solo se il silenzio non è ricerca della propria gratificazione, di un tornaconto personale, di una conferma alle proprie idee, ma incontro con il Padre, nella forza dello Spirito di Gesù che partecipa la sua esperienza pasquale. La trasformazione è la conseguenza della relazione vitale con il tre volte Santo e tale relazione nasce dall’incontro nel quale si sperimenta la potenza dell’amore e si comprende che senza quell’amore non si può vivere, anzi lo si desidera, lo si brama ardentemente, lo si ricerca con ansia. Quando una persona incontra Gesù ed in Lui sperimenta la carità del Padre, si sente spinto a rivivere la bellezza del primo incontro e a godere in misura sempre maggiore della grazia della sua presenza amorosa. In tal modo, più entro nel mistero della preghiera di Gesù, più mi sento attratto da Lui, fonte di amore increato, e la forza dell’amore suo mi spinge a non porre nessun impedimento all’amore suo e mi lascio amare così come sono, perdendomi nel suo abbraccio dove ritrovo la mia identità di figlio nel Figlio Gesù. È la relazione preferenziale con il Padre che fa brillare il volto di Gesù come il sole, è la capacità del figlio incarnato di essere con gli occhi sempre rivolti alla volontà di Dio che lo rende candido nelle intenzioni e capace di essere trasparenza del Padre, dal momento che, chi vede Lui, vede il Padre.

La preghiera, come ogni relazione intessuta d’amore, trasforma. Non capita forse così anche nei rapporti familiari? Il dialogo ed il confronto, la familiarità e la frequentazione cercata ed attuata con amore mi porta a lasciarmi trasformare non da ciò che l’altro fa, ma da ciò che l’altro/a è in sé, dall’amore che nutre per me. Se riuscissimo a vivere con maggiore intensità la bellezza dei nostri incontri, la grazia delle nostre relazioni, le possibilità grandi che ci vengono offerte nelle amicizie. A plasmare è l’amore che la relazione comunica, il sentirsi accolti ed amati, cercati ed attesi. È la presenza amorosa dell’amato che, senza saperlo, mi trasforma e rende luminosa la mia vita.

Nella luce del Signore che prega

Nel descrivere la scena della Trasfigurazione, l’Evangelista non presenta solo Gesù e ciò che Egli compie, ma trasmette anche come i discepoli vivono quell’evento. Pietro, Giacomo e Giovanni contemplano la bellezza del volto del Signore, pur senza comprenderla, perché loro, come noi, devono capire che per pregare non basta il silenzio e la solitudine, neppure una ferrea volontà. Per pregare bisogna guardare a Gesù, fare come Lui, rendere la nostra vita perfetta immagine della sua. Il discepolo deve guardare il Maestro per imparare l’arte del dialogo e della relazione, dello scambio e dell’obbedienza. In altri luoghi Gesù insegna ai suoi come i rapporti interpersonali devono essere scanditi dalla certezza di essere fratelli, che hanno come unico padre Dio. Qui, invece, il Nazareno insegna come si entra nel cuore del Padre e si vive la grazia della figliolanza. Non siamo chiamati a fare ciò che ha fatto Gesù – tra noi e Lui la distanza resterà sempre infinita, perché Lui è il Figlio unigenito del Padre, della stessa sostanza divina – ma a fare come ha fatto Gesù, a pregare come Lui, nella forza dello Spirito. Ecco perché è necessario guardare al Maestro sempre, senza distarsi. E più si guarda a Lui, più ci si rende conto che il dialogo orante con Dio è relazione concreta con la Scrittura. Matteo dice che “apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui” (cf. Mt 17,3). La preghiera è il conversare dell’uomo con Dio, nel quale si consegna alla volontà divina e si lascia condurre da quanto al suo Signore piace. Nel conversare come scambio e condivisione, il discepolo accoglie la propria identità nel progetto del Padre che Gesù svela e, rendendosi conto di nulla poter fare con le sole sue forze, chiede ed ottiene la forza per compiere non ciò che a lui piace, ma quanto il Signore chiede. È nella preghiera che siamo chiamati a spostare l’asse da noi a Dio, dalla nostra parola alla sua Parola, accogliendo la sua grazia, perché la volontà del Signore si compie con la forza del suo Spirito.

Matteo ci dona di comprendere ancor meglio il segreto del conversare di Cristo con Mosè ed Elia. Come risulta dalla tradizione dell’antico Israele, ogni discepolo vive della Parola di Dio ed in essa scopre la volontà divina su di lui. Gesù, come ogni credente del suo popolo, vive questa esperienza in ogni attimo della vita. La parola della Scrittura è il suo continuo confronto, se ne nutre, nel deserto la rumina, nella predicazione la compie e la dona a quanti hanno fame e sete di Dio e della sua presenza viva, vera ed efficace. Il Figlio di Maria prega con la Scrittura tra le mani e la relazione che Egli vive con essa è così penetrante nella sua esperienza di fede che la si percepisce, diventa quasi una presenza fisica della legge e dei profeti. Gesù si relaziona con le Scritture come se si trattasse di persone vive. Da esse si lascia interrogare non in modo superficiale perché – come abbiamo visto nel deserto la scorsa domenica, meditando Mt 4,1-11 – Cristo ha una familiarità tale con la Parola di Dio che la sua conoscenza trasborda nel dialogo con Satana come anche nel corso del suo insegnamento alle folle. Considerare la Parola di Dio presenza viva porta Gesù a relazionarsi con essa in modo personale. Egli prega e dialoga con il Padre, partendo dalla Scrittura. Cristo non spreca parole – come potrebbe Lui che ha comandato di non sprecarle quando si prega? – ma utilizza la concretezza del dialogo storico che Dio ha adoperato con l’uomo dall’inizio della rivelazione. Gesù si sente nel grande flusso della relazione che Dio ha vissuto con Israele e sa, come uomo, di non poter non tenerne conto. Ma il suo essere Figlio per essenza lo conduce a non fermarsi alla Scrittura come norma e regola di vita e a mostrarsi ai discepoli come la Parola viva che tutto vivifica e rende le nostre relazioni riflesso di quella vissuta con il Padre.
Matteo non ci dice il contenuto della preghiera del Signore. Ad alzare il velo del mistero è san Luca che specifica “parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (Lc 9,31). Il dialogo con il Padre riguarda la sua volontà su Gesù, il suo piano di salvezza, il compimento della redenzione degli uomini. È questo il centro di ogni autentica relazione con Dio, la ricerca della sua volontà. La preghiera non può essere solo un contemplare Dio nella sua essenza, rapiti dal fulgore del suo volto. Ogni contemplazione ha il suo risvolto esistenziale nella storia degli uomini. Anche Mosè, attratto dal roveto ardente, è inviato da Dio a liberare il suo popolo e quando vorrà estraniarsi dall’esperienza del suo popolo, Dio lo richiamerà sempre ad essere inserito tra i suoi fratelli, nella responsabilità di essere segno della sua paternità e del suo amore fedele. La ricerca della volontà di Dio è ciò che rende la nostra preghiera veramente cristiana, perché radicata nel vissuto di Gesù che in tutto cerca la benevolenza del Padre suo e nostro.
Pregare come Gesù è una grazia, ma pregare avendo la Scrittura tra le mani è una possibilità che non sempre è da noi sfruttata. Dobbiamo imparare ad avere una familiarità profonda con la Parola di Dio, non basta l’ascolto e la meditazione domenicale, è necessario nutrirsi ogni giorno di essa personalmente, in coppia ed in famiglia, confrontandosi con essa come se stessimo dinanzi ad una persona viva che ci interpella e richiede il nostro assenso, il nostro abbandono in Dio che in essa parla. Per il discepolo è Gesù la parola di Dio definitiva, partendo da Lui si dialoga con il Padre, perché senza la misura del suo amore non c’è relazione vera con Dio Padre e tra noi che siamo, grazie a Lui, fratelli.

Perché non profittare del tempo estivo?

Avvolti dalla nube, i tre discepoli, come già prima nel battesimo (cf. Mt 4,17), sentono la voce del Padre che riconosce il suo Figlio, se ne compiace e chiede loro di ascoltarlo. Perché non vivere momenti di Tabor nelle nostre vacanze, come coppia e come famiglia? Perché non pensare ad un pellegrinaggio familiare ad un santuario mariano oppure a visitare i luoghi dove abbiamo vissuto insieme momenti significativi della nostra vita sacramentale (dove abbiamo celebrato il sacramento del matrimonio, il battesimo di un nostro figlio …)? Potrebbe essere bello anche ritagliarsi ogni giorno un tempo per pregare insieme e guardare verso Cristo, ascoltando la sua parola, chiedendo che si realizzi in noi la sua volontà e affidando il futuro dei nostri figli! Non potrebbe essere questo un modo alternativo per vivere le nostre vacanze?




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