XXI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 27 agosto 2017

Cesarea di Filippo, il momento della verifica senza paura

di fra Vincenzo Ippolito

Nei nostri rapporti dobbiamo imparare a vivere le verifiche e i chiarimenti. Non serve alzare muri e costruire silenziose barricate per quieto vivere. Si cammina e ci si ferma in ogni rapporto, con noi stessi, con Dio con gli altri, per fare sintesi e riprogrammare il cammino che ci attende. Non dobbiamo mai avere paura del confronto, mai sfuggirlo, ma cercarlo, attenderlo, crearlo.

Dal Vangelo secondo Matteo 16,13-20
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

 

La XXI Domenica del Tempo Ordinario propone alla nostra riflessione la narrazione di un momento centrale del cammino dei discepoli nella sequela di Gesù. Cesarea di Filippo, infatti, nei tre Sinottici (cf. Mc 8,27-30; Mt 16,13-20; Lc 9,18-21) è il luogo della resa dei conti, dove il Maestro tasta il polso della consapevolezza che essi hanno della sua identità di Messia inviato da Dio e della disponibilità a seguirlo, senza condizioni. Già la scorsa domenica la figura della cananea (cf. Mt 15,21-28) ci aveva condotti a rivedere la professione della nostra fede in Gesù, “Signore e Figlio di Davide”, ancor di più oggi siamo chiamati a verificare quale incidenza ha la Persona divina del Cristo nella vita personale, familiare e comunitaria. Dalla risposta alla domanda che il Maestro ci rivolge oggi “Ma voi chi dite che io sia?” (Mt 16,15) dipende la stabilità o meno della nostra vita.

Una tappa obbligata per confrontarsi con Gesù

La lettura continua del Vangelo ci porta a perdere facilmente di vista che, durante la sua vita pubblica, Gesù non solo annuncia la buona Novella e opera la salvezza degli uomini, perché ormai il tempo di Dio è compiuto e il suo Regno è una possibilità a tutti offerta. Egli, mentre annuncia, segue i suoi discepoli e li guida ad una penetrazione sempre più autentica del mistero della sua identità per comprendere sempre meglio cosa significa seguirlo. In tal modo Cristo lavora su due fronti parallelamente, da un lato ammaestra coloro che ha chiamati a seguirlo più da vicino, dall’altro si dona alle folle che incontra durante la sua predicazione come l’Unto di Dio, il Messia promesso, Colui che tutti introduce nella realizzazione delle antiche promesse. È un po’ come capita anche nelle nostre famiglie, da un lato lo sposo vive la bellezza dell’amore unitivo, fedele e fruttuoso nella relazione con la sua sposa – e viceversa – ed insieme continuano a crescere nella dimensione di coppia anche quando il nucleo familiare si allarga con la venuta dei figli. Allora devono imparare a ricoprire vari ruoli contemporaneamente, perché è questo che il sacramento richiede loro. Con Gesù capita una cosa simile perché Egli, pur essendo per tutti il Maestro, deve armonizzare la vita di predicazione – significativa per l’itinerario di sequela dei suoi – con l’intimità che diviene un approfondimento ulteriore della parola spezzata alle folle.

Non è semplice per noi vivere questa pluralità di ruoli e saper armonizzare i momenti nei quali siamo chiamati a rispondere diversamente a seconda della persona con cui parliamo, della relazione che viviamo, della situazione che dobbiamo affrontare. Si tratta di vivere nella continua custodia di se stessi e delle persone a noi affidate, senza abbassare la guardia, non tanto sugli altri, quanto su noi stessi perché la relazione di coppia o anche quella educativa con i figli non cada di tono per stanchezza e superficialità. Gesù sa ben vivere – i Vangeli lo testimoniano – la bellezza dell’armonia. Gli apostoli non si sentono esclusi durante la sua predicazione, anzi non solo sono i primi a dover ascoltare l’insegnamento del Signore, ma spesso sono anche i suoi collaboratori diretti, come nella moltiplicazione dei pani (cf. Mt 15,35-36), a beneficio delle folle. I discepoli avvertono l’amore e la predilezione di Cristo, non possono dire che il Maestro li abbandoni. Anche se tra loro si innescano dinamiche di gelosie e di prevaricazione, non è mai Gesù a determinarle con il suo comportamento.
Dovremo maggiormente imparare da Gesù a crescere nelle relazioni tra noi – nel rapporto tra sposi e tra adulti in genere – e, al tempo stesso, aiutare i nostri giovani a maturare. Non si può aspettare di essere perfetti per insegnare agli altri, ma, appresi i rudimenti dall’esperienza fatta, bisogna gettarsi nella mischia, sapendo che si impara facendo. Sono queste due leggi importanti che dobbiamo avere ben presenti: chiarire il proprio ruolo e viverlo senza fraintendimenti e, la seconda, crescere aiutando gli altri a maturare e divenire indipendenti. Quante volte i figli, nella relazione educativa, vedono i genitori talvolta come amiconi e altre volte come severi giudici delle loro azioni! Quante volte le incomprensioni tra i coniugi hanno pesanti ripercussioni nella relazione con i figli che divengono cassa di risonanza nel bene come nel male della vita matrimoniale! Armonia, equilibrio, prudenza sono le virtù da chiedere continuamente al Signore nella preghiera e da imparare avendo sempre dinanzi agli occhi il Cuore di Gesù, vaso eletto di ogni virtù.

C’è un altro importante aspetto che l’Evangelista sembra sottolineare in Cristo Maestro ed è la sua capacità nel saper discernere i tempi più opportuni per ammaestrare i suoi e ascoltarli. La dinamica educativa che Egli vive è scandita da tempi condivisi con le folle e di momenti di comunione tra loro. In questo ritmo cresce e si consolida la chiamata dei discepoli e matura in loro, perché curata, la parola che Gesù semina con abbondanza. Il Maestro avverte che è giunto il momento di fare il punto del cammino di sequela. I discepoli non ne hanno consapevolezza, ma Egli sì, sa che non possono e non devono sfuggire a questa verifica perché essa serve a far compiere un balzo in avanti ai suoi. È necessario crescere e camminare spediti sulla via di Dio, ma per fare questo è necessario ascoltarli, vedere a che punto di maturità sono giunti, come sta maturando nel terreno buono del cuore il buon seme, come il lievito della sua Presenza sta facendo crescere la massa dei pensieri della mente, se il granello di senape sta diventano un grande albero.
La vita di sequela è scandita non solo dalla necessità di camminare, ma anche di fermarsi per verificare, non siamo dei contenitori da riempire – quanto spesso si vive l’educazione alla fede come un semplice apprendimento dottrinale! – ma delle persone che hanno ciascuna una velocità nella corsa ed una sensibilità nell’avvertire le situazioni che si presentano. Per Gesù i discepoli hanno un nome ed una storia e ciascuno ha il suo posto nel suo cuore e nella sua vita, vanno ascoltati perché il suo essere Maestro si modelli alla diversità caratteriale e di maturazione che ciascuno vive, senza che questo significa addomesticare ed annacquare la proposta della radicalità evangelica da vivere nella sequela. Cesarea di Filippo è il momento della verifica, del confronto pacato e sereno, ma anche determinato e sincero nel quale è importante guardarsi negli occhi senza la paura di essere giudicati, ma con la colpevolezza di potersi fare aiutare.

Nei nostri rapporti dobbiamo imparare a vivere le verifiche e i chiarimenti. Non serve alzare muri e costruire silenziose barricate per quieto vivere. È necessario parlare delle situazioni che ci hanno ferito perché se facciamo finta di nulla, le dinamiche tra noi si verificheranno di nuovo e le nostre reazioni saranno ancor più gravi perché frutto della tensione precedentemente accumulata. Si cammina e ci si ferma in ogni rapporto, con noi stessi, con Dio con gli altri, per fare sintesi e riprogrammare il cammino che ci attende. Non dobbiamo mai avere paura del confronto, mai sfuggirlo, ma cercarlo, attenderlo, crearlo. Naturalmente è fondamentale imparare a saperlo gestire perché non diventi da confronto, scontro e, anche se questo dovesse avvenire, dov’è il problema? Si riparte perché nella vita ci vengono sempre offerte possibilità nuove. L’importante è desiderare la comunione e lavorare per l’unità. Confronto, chiarimento, verifica, riprogrammazione sono le parole che non devono mai mancare nel vissuto dalle nostre famiglie.

Conosciamo veramente gli altri?

La prima domanda di Gesù – “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” Mt 16,13 – serve a verificare la capacità empatica dei discepoli nei riguardi delle folle. Già la scorsa domenica, con la narrazione della cananea, abbiamo notato l’incapacità degli apostoli a capire il dramma di quella madre, facendosi voce della sua voce angosciosa nei riguardi di Gesù. Ora il Maestro vuole che siano essi stessi a parlare per mostrare cosa hanno appreso dalle folle, come hanno ascoltato i fratelli, come sono riusciti a comprendere della fede di coloro che assiepavano i luoghi della predicazione del Nazareno e chiedevano il suo intervento salvifico. Prima ancora della risposta dei discepoli è di fondamentale importanza la domanda fatta da Gesù. Essa contiene già in sé già la sua identità – Figlio dell’uomo – quella verità essenziale che tutti sono chiamati a riconoscere. Il Maestro parla in terza persona proprio per sottolineare la sua vera identità e chiarirla indirettamente ai discepoli. La domanda potrebbe anche suonare in questo modo: Cosa ha compreso la folla del mio essere Figlio dell’uomo? Ha trovato in me la gioia che io dono, la grazia che effondo, la pienezza che offro, l’amore che gratuitamente concedo? Io sono il Figlio di Dio incarnato per la salvezza di ogni creatura: le folle che mi corrono dietro se ne sono accorte? Hanno capito con la mente ed accolto con il cuore che io sono Dio, nell’umanità assunta, che sono il Salvatore dell’uomo, non un semplice guaritore, un pellegrino la cui parola riscalda il cuore per un momento e poi scompare?
Gesù, da un lato afferma la sua identità, dall’altro chiede cosa sono riusciti a comprendere del suo mistero quanti lo hanno incontrato. C’è una dimensione oggettiva – il suo essere Figlio dell’uomo – ed una soggettiva, quest’ultima dell’uomo che incontra il mistero e lo comprende a secondo della propria capacità recettiva, oltre che della portata rivelativa che lo stesso mistero concede di sé. In Gesù di Nazaret, Dio ha detto tutto di sé e ha dato tutto. L’uomo è quindi chiamato ad attingere da Cristo l’acqua della grazia che lo disseta, la potenza dello Spirito che lo sostiene, la forza della misericordia che lo risana e tutto questo in pienezza, perché Gesù è la compiacenza del Padre, in Lui il Padre parla e rivela se stesso, ascoltando la sua parola e accogliendo con fede la sua testimonianza si sperimenta la salvezza e si entra nel Regno.

La domanda di Gesù è disarmante. Essa rivela la sua presenza nella nostra vita, il suo desiderio di farsi conoscere ed amare, incontrare per donarci la salvezza. Al tempo stesso, le sue parole portano l’uomo a rientrare in se stesso, come il figlio fuggito dalla casa paterna (cf. Lc 15,17), per verificare la propria vita, la sua e quella dei fratelli, per confrontare quanto la dimensione oggettiva dell’identità di Cristo sia incisiva nella vita personale di fede, per vedere quanto la sua grazia viene fatta fruttificare e se, per la paura, i suoi talenti vengono messi sottoterra, rendendoli inoperosi. Accorgersi del cammino degli altri è il senso della missione dei discepoli. Se vivono in mezzo alla gente, ma il cuore è altrove non possono dire di seguire il Maestro e di essere segno della sua presenza, continuazione della sua opera di compassione e di redenzione. Anche noi per vocazione, per la nostra apparenza a Cristo, per lo Spirito che dentro di noi crea unità ed è lievito di comunione, non possiamo chiuderci nella salvaguardia del nostro piacere, nell’indifferenza verso gli altri, come se il benessere personale o familiare fosse la meta del nostro impegno nel mondo. La persona che mi è accanto è parte di me, ma anche quella che non conosco e mi passa accanto deve sperimentare la mia cura e la carità che Cristo riversa nel mio cuore. Non esiste un cristianesimo isolato, un discepolo di Gesù estraneo alla storia. Questa è la negazione della nostra fede, dei misteri dell’Incarnazione e della Pasqua. Noi, infatti, crediamo nella presenza permanente di Cristo nella storia degli uomini. Fa bene chiedersi, come Gesù spinge a fare, cosa del vero bene che è Cristo gli altri sono riusciti a capire e gustare! Fa bene ed è giusto preoccuparsi della maturità a cui sono giunte le persone che ci sono accanto!

Le risposte degli apostoli sono vaghe, le posizioni contrastanti. Rispondono sì, ma in maniera ermetica, forse, alquanto evasiva o per lo meno l’Evangelista – uno di coloro che hanno risposto o taciuto – appunta soltanto “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti” (Mt 16,14). O i discepoli non sanno cosa rispondere oppure, per l’autore, era sufficiente dare una sintesi delle differenti risposte fornite. Le poche note offerteci da Matteo ci danno la possibilità egualmente di capire quanto grande sia la confusione sulla figura di Gesù. C’era un grande vociare – più volte gli Evangelisti lo appuntano sia dei discepoli che delle folle – intorno al Nazareno. Le sue parole incantano, i suoi miracoli lasciano stupiti non solo le folle, se Matteo aveva in precedenza appuntato: “Al tetrarca Erode giunse la notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi” (Mt 14,1-2). Nelle risposte degli apostoli riscontriamo una eco di quanto la folla ha percepito e ancora oggi percepisce di Gesù di Nazaret. Ciò che si nota è il carattere impersonale delle affermazioni riportate. La folla è senza nome, ecco perché nelle risposte le voci dei discepoli sembrano coprirsi a vicenda. Non si cita la fonte e si attingono dal passato figure eminenti per cercare di capire il presente. Se da un lato le risposte non centrano l’identità di Gesù e mostrano come si rimanga alla porta del mistero della sua Persona, dall’altro personaggi come Giovanni il Battista, Elia e Geremia – ed è qui il paradosso della scena – mostrano in maniera eloquente come il ministero di Gesù abbia gli stessi caratteri di coloro che lo hanno preceduto e che, come loro non furono capiti, il Figlio di Dio fatto uomo condivide la loro stessa sorte di incomprensione. Del mistero di Cristo percepiscono qualcosa, manca però la pienezza della comprensione. Avvertono il senso del sacro e del divino in Gesù di Nazaret, la loro è una sorta di preparazione al Vangelo, ma non saltano il guado del senso comune e la rivelazione di Dio non li raggiunge in profondità, perché non si fanno raggiungere dalla potenza della vita di Dio in Cristo Gesù. Le folle, senza saperlo, accusano se stesse, decretano il loro errore, considerando Gesù il Battista oppure Elia o Geremia, cadono nella medesima colpa dei padri, non capiscono la rivelazione di Dio che è Gesù. Ci sarebbe da chiedersi: quando i discepoli ascoltavano le folle in queste vaghe affermazioni, sono intervenuti a chiarire la vera identità del loro Maestro? Si sono fatti voce della Verità e hanno condotto gli uomini o, per lo meno, hanno provato a guidare le folle ad una progressiva comprensione della figura di Gesù, secondo quello che Egli è, senza fermarsi a ciò che di Lui appare o si vuol vedere? Ritorna qui la relazione educativa che i discepoli saranno chiamati a vivere nei riguardi delle genti. La professione di fede in Gesù Cristo, la seminagione del Vangelo per conoscere la verità dell’amore di Dio, la docile accoglienza dello Spirito sono i compiti loro affidati dal Signore. Questo significa pascere le pecore per Pietro (cf. Gv 20,15.16.17) e fare discepoli tutti i popoli per gli altri apostoli (cf. Mt 28,19). Entrare in empatia con gli altri non significa solo assorbire ciò che essi dicono e pensano, ma aiutarli a generare in essi la fede autentica in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.

Cosa possiamo dire noi del mistero di Dio?

La seconda domanda che Gesù rivolge ai suoi – “Ma voi, chi dite che io sia?” Mt 16,15 – riguarda non più gli altri, la loro capacità di capire ciò che della rivelazione di Cristo le folle hanno compreso. La domanda del Maestro pone l’attenzione su di loro e, indirettamente, su colui/colei che, leggendo questo brano, è chiamato in prima persona a rispondere a Gesù che incalza. Risulta facile immaginarsi la scena, il silenzio che si crea nella cerchia degli Apostoli e i loro sguardi attoniti e forse smarriti dinanzi alla provocazione di Gesù. Ma i suoi occhi attendono, il suo cuore freme, il suo orecchio è teso. È quanto capita anche a noi. Dio attende una nostra risposta, una presa di posizione decisa e ferma, non solo non possiamo eludere la domanda, ma è da codardi credere di potersi nascondere dietro il silenzio riverente che di devoto non ha nulla se non l’apparenza. Quante volte il nostro silenzio è omertà! Quante volte, per comodo, ci nascondiamo e ci giustifichiamo dinanzi a noi stessi, proprio quando dovremmo con coraggio e franchezza dirci cristiani e confessare che Gesù è il Signore! Il nostro è ridiventato il tempo del martirio, perché tanti nostri fratelli vivono lo scandalo di non essere accolti come seguaci di Cristo in un tempo nel quale la libertà – che spesso degenera in libertinaggio – è il valore da tutti perseguiti, ma non sempre attuato, soprattutto quando si tratta della fede cristiana e dei suoi valori.
L’unico che rompe il silenzio è Simon Pietro. La sua risposta rappresenta la voce della comunità di Matteo, dei cristiani di tutti i secoli che guardano a Gesù e lo riconoscono Signore della propria vita, Rivelazione definitiva del volto del Padre, Figlio di Dio venuto nella nostra fragile umanità per donarci la salvezza. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).

Il primo dato da notare è il carattere personale della risposta e la relazione io-tu che scandisce l’affermazione. Pietro non sta parlando degli altri, ma di sé, non si perde nei vicoli bui del pensare comune, ma si espone in prima persona per mostrare ciò che lo Spirito gli ha fatto comprendere del mistero di Colui che egli considera suo Maestro. Il “Tu” che Pietro pronuncia lascia comprendere la relazione unica e personale che vive e vuol vivere con Gesù. Il suo riconoscerlo “Cristo” indica che l’attesa del popolo d’Israele si può dire conclusa perché “il Figlio del Dio vivente” e non una qualsiasi persona umana, per quanto di straordinaria statura morale, ci è venuto incontro e ha steso la mano per donarci vita vera e salvezza senza fine. La fede è una relazione personale con Dio che in Cristo è il vivente nella mia vita, incisivo nelle mie scelte, determinante per realizzare quanto è proprio della mia umanità. La confessione di fede è il grido della vita per il credente, il sussulto di gioia del discepolo che in Cristo riconosce il senso della sua esistenza, la parola definitiva che non solo riconosce il mistero di Dio presente ed operante nella propria storia, ma lo desidera, lo accoglie e lo vuole per sé.

Anche noi siamo chiamati a dire chi è Gesù veramente per noi e per le nostre famiglie, quale peso ha nelle nostre scelte, come consideralo e sentirlo vivo nella nostra quotidiana esperienza di fede, come rompere il silenzio di omertà e superficialità che ci circonda riguardo alla domanda fondamentale su Dio e su Cristo. Ma “Nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (2Cor 12,3), Gesù lo esprimerà bene in seguito – “né la carne né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17) – ma è necessario lasciarsi guidare dall’alto e permettere a Dio di illuminare le tenebre del nostro cuore. “Nessuno conosce nessuno conosce il Figlio se non il Padre e il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,27). Lasciamo che lo Spirito ci guidi nel mistero di Dio e che la nostra vita sia plasmata dalla professione di quella fede che attraverso noi vuol essere luce del mondo e sale della terra.




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1 risposta su “Cesarea di Filippo, il momento della verifica senza paura”

La croce c’ è ma che del Risorto anche per noi…per risorgere occorr porter ns croce poi satemo risortSignore salvaci Maria aiutaci grazie perdono aiuto. Ave Maria e avanti. Ascolta radio Maria

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