solitudine

Beata solitudine, sola beatitudine!

di Giovanna Abbagnara

Mi sa che questo blog non risponde alle aspettative di tutti. Parlo di felicità e declino parole come: silenzio, pazienza, solitudine…No, non avete sbagliato palazzo. Chi si fida di Dio non sbaglia mai.

Nell’ora del crepuscolo di ogni giorno solitamente mi piace ripassare la mia giornata. Cerco di fare una specie di sintesi se ci riesco. Mi vengono in mente le persone che ho incontrato, le parole dette, quelle che era meglio non dire, gli sguardi incrociati. A sera durante la Compieta è quasi impossibile, con la stanchezza puoi solo consegnare a Dio le lacune che puntuali non mancano mai all’appello.

Questa sera tornano e ritornano le parole di Erika uscite fuori dal suo cuore come un grido disperato: “Giovanna, io sono destinata a restare sola per sempre, nessuno mi vuole!”. Dopo un sorriso che ho cercato di comprimere nei muscoli facciali per evitare che quella povera fanciulla mi tacciasse di insensibilità cronica, ho fatto una pausa di silenzio molto lunga e ho pensato tra me: “Povera piccola, come è ancora lungo il cammino che ti porterà ad amare la solitudine così tanto da ricercarla come condizione essenziale per poter amare gli altri!”. Per me è stato così. Una scoperta non priva di dolore, un cammino faticoso. Ma chi l’ha detto che la felicità è una conquista semplice?

L’amore, l’amicizia anche quella più sincera e profonda non toglie la solitudine. Certo, specie nell’amore, la solitudine è vissuta con grande sofferenza. Accade spesso che uno dei due è così concentrato su se stesso, sulle proprie esigenze, sui propri progetti da non accorgersi dei bisogni dell’altro e sovente l’altro chiuso nella delusione e nell’amarezza delle sue aspettative infrante continua a pensare che deve essere l’altro a sopperire a tutte le sue mancanze. E così il matrimonio giorno per giorno viene corroso da quel tarlo che si chiama pregiudizio, chiusura, pretesa, rinfacci continui.

Peggio ancora quando ci si sente nel giusto. Spesso la giustizia non è altro che la sete di vendetta che si nutre di rabbia, provocazioni e musi lunghi. E quando la tensione diventa troppo alta per essere contenuta ecco allora che viene fuori con una violenza inaudita scaricando sull’altro a raffica tutti i suoi limiti e i suoi errori. Tutto questo genera un circuito molto pericoloso, perché nell’altro si fa strada la convinzione di non essere abbastanza, abbastanza capace di far capire all’altro quanto è importante per noi.

La pace del proprio cuore non dipende dall’altro. Se vogliamo vivere una profonda e piena comunione, dobbiamo imparare a restare soli, ad amare la solitudine come lo spazio in cui mi sento amata innanzitutto da Dio. “Beata solitudo, mia sola beatitudo” recita una massima antica ma sempre attuale. È vero che l’uomo è un essere in relazione ma lo sbaglio è considerare la solitudine come uno spazio di abbandono. In realtà è proprio quello il tempo necessario e insostituibile  della relazione. Quale relazione? Quella più importante e al di sopra di ogni altra: la relazione con Dio che quanto è più profonda tanto più mi donerà la possibilità e la capacità di amare chi mi è accanto.

Scrive papa Francesco in Amoris laetitia: “Allo stesso tempo, è opportuno incoraggiare ciascuno dei coniugi a prendersi dei momenti di preghiera in solitudine davanti a Dio, perché ognuno ha le sue croci segrete. Perché non raccontare a Dio ciò che turba il cuore, o chiedergli la forza per sanare le propri ferite e implorare la luce di cui si ha bisogno per sostenere il proprio impegno?” (227). Scrive Raïssa Maritain nel suo Diario: “Credo di dover entrare con coraggio nella via della solitudine che è amara alla natura, ma molto salutare. Vivere con Dio solo. Non vedere che Lui in ogni cosa”. Se cerchiamo di rivestire la solitudine con l’amore dell’altro pensando di colmare così il vuoto interiore inganniamo l’amore e anche noi stessi. Un poeta meraviglioso che vi invito a leggere, Clemente Rebora in una sua celebre composizione tratta dai Canti anonimi del 1922, racconta di un uomo in una stanza che aspetta. Un uomo e il suo presentimento di qualcosa di buono che sta per fiorire, il presagio di sussurri di polline per uno sboccio imminente. Un arrivo discreto – un bisbiglio – atteso come ristoro nella realtà dell’esistenza quotidiana, fra le «quattro mura / stupefatte di spazio». Don Giussani ha parlato di Rebora come di un «uomo povero; perché il “pauper evangelicus”, il povero del Vangelo, è chi, non avendo nulla da difendere […] di fronte alla verità, registra la realtà, e la realtà si presenta come un disegno”.

Ecco dovremmo scoprire la solitudine come lo spazio della relazione con Dio che ci proietta nell’attesa di qualcosa di buono. E questa solitudine dovremmo imparare a rivestirla di povertà. Il povero del vangelo è colui che non si aspetta nulla dagli uomini ma vuole che le sue mani siano solo piene di Dio, della capacità di amare gli altri come Lui ci ha amati. Nella solitudine comprendiamo che la comunione con gli altri discende dalla comunione con Dio. È lì la nostra forza e la fonte di una felicità non transitoria ma costante, dove anche la delusione è rivestita di gioia.




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1 risposta su “Beata solitudine, sola beatitudine!”

Basta uno sguardo carico di verità su di sé e l’uomo può sentirsi solidale con tutti gli altri uomini. L’esperienza della solitudine diventa il passo decisivo per il cammino verso la scoperta della risposta alla domanda che ci proietta verso la propria umanità, nel silenzio di una vita a volte troppo caotica, ricca di pretese e aspettative ma povera di identità.

Grazie Giovanna per questo blog che ci aiuta a percorrere le vie della fede e della preghiera partendo da noi stessi per poi alzare gli occhi verso Dio. L’unico di cui possiamo fidarci.

Se è possibile impariamo a creare la felicità.

Non so se avete anche voi un’amica che ama messaggiarvi a tutte le ore… oggi quest’ amica mi ha inviato un post sul WhatsApp, (premetto non leggo sempre tutti i post per una questione di tempo), ma questo ha catturato la mia attenzione.
Si racconta la storia di due cani che, in momenti diversi, entrarono nella stessa stanza.Uno ne uscì scodinzolando, l’altro ringhiando.
Una donna li vide e, incuriosita, entrò nella stanza per scoprire cosa rendesse uno felice e l’altro così infuriato. Con grande sorpresa scoprì che la stanza era piena di specchi:Il cane felice aveva trovato cento cani felici che lo guardavano,mentre il cane arrabbiato aveva visto solo cani arrabbiati che gli abbaiavano contro.
Quello che vediamo nel mondo intorno a noi è un riflesso di ciò che siamo.Tutto ciò che siamo è un riflesso di quello che abbiamo pensato.La mente è tutto.
Quello che pensiamo diventiamo.

Impariamo ad essere felici, lo diventeremo di certo!

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