Europa

Europa, dove sono le tue radici? Dov’è la tua anima?

di Gianni Mussini

Dalla penna di Gianni Mussini, un meraviglioso viaggio nella storia del Vecchio Continente, terra a misura di uomo e di cielo, dove la tradizione classica incontra il Vangelo di Cristo, gli orizzonti si spalancano e c’è posto per tutti.

È persino scontato citare il vecchio Goethe, secondo cui «l’Europa è nata in pellegrinaggio, e la sua lingua materna è il cristianesimo». Si riferiva, il sommo autore tedesco, alle vie battute dai pellegrini sin dall’alto Medioevo. Su quelle strade scorrevano genti e culture diverse trovando nel Vangelo un comune alfabeto spirituale. Quello linguistico poteva essere il latino o il greco, ma – con Cirillo e Metodio – anche l’ampio florilegio delle lingue slave; più a Nord c’era invece il gran territorio dei popoli germanici, che pure riconoscevano nel latino della Chiesa, e più tardi dell’Accademia, un potente fattore di unità.

È così che nasceva l’Europa, un mondo nuovo in cui la tradizione classica, greca e romana, s’incontrava con quella biblica e con il Vangelo di Cristo, aprendosi a popoli che una volta erano stati barbari. Di qui una visione del mondo che, camminando, conosceva l’orizzontalità del presente ma guardava anche all’insù, a quel Creatore di cui ognuno è fatto a immagine e somiglianza: ecco la nuova idea di persona che, rispetto a quella classica, smantella alle fondamenta ogni discriminazione e ogni forma di schiavitù. Naturalmente non era tutto rose e fiori, come si dice, perché lungo quelle arterie non viaggiavano angeli ma esseri umani ben provvisti di tutti i vizi procurati dal peccato originale. Non c’è da sorprendersi. Sorprende, piuttosto, che quel concentrato ambulante di vizi producesse mediamente gente capace di offrire un tozzo di pane al prossimo e magari di accoglierlo in casa propria (sacra era l’ospitalità, attiva e passiva), mantenendo insomma in termini sopportabili le infrazioni alle norme del vivere civile.

Nello stesso tempo, a furia di guardare in giù e in su, gli orizzonti si spalancavano e scoprivano quelle magnifiche culture, con i loro libri: la Bibbia naturalmente, ma anche gli autori greci («i Greci avevano già capito tutto», mi ripeteva il mio professore di Liceo) e latini. Non si capirebbero splendori medievali come la pisana Piazza dei Miracoli e, a Venezia, San Marco senza quell’aspirazione magnanima. Ma di lì a poco, con il Rinascimento, ecco un nuovo impulso a coniugare umano e divino nel nome di una superiore Sapienza: da dove altrimenti un Michelangelo o un Erasmo da Rotterdam? Dice la grande pensatrice ungherese Ágnes Heller, marxista critica oltre che ebrea scampata alla Shoah, che Gerusalemme, Atene e Firenze «simboleggiano le fonti della nostra cultura». Giusto, ma forse bisognerebbe aggiungere Roma o, magari, Assisi.

Lo stesso Illuminismo, con le sacrosante parole d’ordine di libertà, uguaglianza e fraternità, non si ispirava al meglio della tradizione umana e cristiana? Tanto che, quando – con l’opzione giacobina – ha scelto di rinunciare proprio alla fraternità (la charitas evangelica) ha prodotto i disastri che sappiamo. Come del resto avviene di ogni idea quando si indurisce in ideologia, il caso per esempio delle guerre di religione antiche e moderne. Da questa storia così ariosa e inclusiva viene l’abitudine a elaborare concetti alti e magnanimi, che caratterizza la nostra civiltà: «Non è europeo, non capisce niente delle grandi idee umane», disse una volta a Thomas Mann il suo editore Sammi Fischer, parlando di un comune conoscente. Parole che ovviamente non intendono discriminare i non europei ma mettere a fuoco, in modo paradossale, lo specifico della nostra cultura; proprio per questo dovrebbero mandarle a memoria i politici e gli intellettuali di riferimento chiamati ad affrontare questo nostro tempo, difficile come ogni tempo che si rispetti. Pensare in grande e pensare in alto, senza fare conti meschinelli e senza usare l’Europa per ricevere il massimo concedendo il minimo (la cronaca dei nostri anni, sotto gli occhi di tutti, mi esime dal fare esempi dolorosi).

Il paesaggio materiale e spirituale del Vecchio Continente deriva proprio da questo pensiero magari capace di errori e orrori, ma refrattario alla meschinità, un pensiero insieme a misura di uomo e di cielo. Campanili che svettano, romanici o gotici oppure forniti di quel bel cipollone barocco, in un territorio popolato di case e campi coltivati, con alberi e boschi anche estesi ma mai sconfinati come quelli di altri continenti. C’è una misura europea in tutto questo: persino il Monte Bianco, paragonato all’Himalaia o alle Montagne Rocciose, sembra un rilievo domestico, a portata di mano. Ma pensiamo alle nostre strade, ai palazzi, alle università, ai conventi. In tutto c’è una memoria radicata, e un nome legato a un personaggio, un evento. Tutto parla di persone in carne e ossa o di fatti che le hanno viste protagoniste. Ciò che non succede per esempio – lo notava il francese di origine ebraica George Steiner – negli Stati Uniti dove, per fare l’esempio di Manhattan, le piazze si chiamano «Times Square» e le strade con i numeri che le designano… Da noi c’è infatti una «geografia camminabile», in cui le piazze sono luoghi di amicizia e passeggio senza meta: qualcosa che assomiglia all’ozio creativo degli antichi filosofi e a quello dei santi che, nel silenzio, attendevano la parola di Dio.

Altra invenzione tutta europea, il caffè. Non alludo solo ai grandi caffè parigini o viennesi, popolati di intellettuali, artisti e bohémien. Penso anche e soprattutto ai caffè di paese dove, in piazza del Duomo, ci si siede a chiacchierare, magari leggendo la Gazzetta dello sport e guardando la gente che passa, in attesa della messa. Luoghi in cui si combatte la solitudine e la depressione molto meglio che con il Prozac. Ancora Steiner: «Non si trovano caffè archetipici a Mosca, che è già la periferia dell’Asia. Ce ne sono pochissimi in Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo. Non ce ne sono nell’America del Nord, con l’eccezione dell’avamposto francese di New Orleans. Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori essenziali dell’idea di Europa».

Questa storia così bella e inclusiva non è solo, culturalmente, cristiana. Negli ultimi mesi mi è capitato di andare prima a Toledo, poi a Fatima e Lisbona: la meraviglia dello stile mudéjar, che inserisce nelle architetture cristiane moduli arabi; e la meraviglia degli azulejios di ceramica che accendono di luce chiese, palazzi e persino pasticcerie! E del resto il nome stesso di Fatima viene dall’arabo, insieme a tante scoperte in ambito scientifico, filosofico, agrario, tecnico…

E non parliamo degli Ebrei, non solo «fratelli maggiori» di noi cristiani ma anche cuore vivo e pulsante della nostra cultura, tanto che anche solo in questo scritto mi è già capitato di citarne un paio. Spiegava una volta il nostro Claudio Magris che i nazisti, nel loro tentativo di estirpare dall’Europa quella che consideravano l’infezione giudaica, hanno ottenuto esattamente l’effetto di vedere eliminate da ampie zone della Mitteleuropa ogni presenza germanica. Esempio istruttivo di eterogenesi dei fini, per cui si lavora alacremente a un obiettivo finendo per conseguire il suo contrario.

Ma l’idea dell’Europa è sopravvissuta nonostante tutto, nonostante feroci e ottusi nazionalismi (vera peste del secolo scorso insieme al razzismo), e nonostante due guerre mondiali che parevano consegnare il nostro continente alle nuove grandi potenze del pianeta. Dalle macerie dell’ultimo conflitto è sorta una generazione di uomini che hanno avviato il processo di integrazione europea gettando le basi – con l’abbattimento dei dazi doganali – del vero boom economico del Dopoguerra e soprattutto garantendo decenni di pace e libertà. Tra i molti benemeriti (tra cui Altiero Spinelli, estensore del famoso Manifesto di Ventotene da cui nacque il Movimento federalista europeo), ricordo l’italiano Alcide De Gasperi, il tedesco Konrad Adenauer, i francesi Jean Monnet e Robert Schumann.

Non è forse un caso che tutti costoro, tranne Altiero Spinelli, fossero cattolici praticanti. Ciò che dà ragione, a posteriori, all’intuizione di Goethe. Ma spiega anche uno dei motivi dell’attuale crisi delle istituzioni comunitarie. Per uno sciocco e antistorico rigurgito di anticlericalismo, e nonostante le ripetute istanze di san Giovanni Paolo II (che un po’ se ne intendeva di profezie, anche politiche…) è stata infatti negata l’inclusione nella Costituzione europea di ogni esplicito riferimento alle «radici cristiane». Si parla semplicemente e anodinamente di «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa», formula che – mutatis mutandis – ricorda quella senza anima della toponomastica stradale di Manhattan… Come sarebbe bello, invece se, in modo sobrio e rispettoso, si ricordasse il fondamento cristiano, integrato da quello ebraico e, come abbiamo visto, persino musulmano, della nostra cultura. «Non abbiate paura!», direbbe ancora con quel suo vocione san Giovanni Paolo II ai grigi tecnocrati che, chiusi nelle loro segrete fra Strasburgo e Bruxelles, non hanno mai tempo di camminare per le strade dell’Europa, sedendosi magari a un caffè di fronte alla cattedrale e, perché no, di fianco al circolo massonico. C’è posto per tutti in Europa. Noi non abbiamo paura…




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