XXXI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 5 novembre 2017

Gesù ci insegna l’arte di amare senza paura

di fra Vincenzo Ippolito

Il formalismo e la superbia, la volontà di prevalere e di avere l’ultima parola sugli altri sono atteggiamenti che, soffocando l’amore, possono diventare stili di vita. L’incontro con Gesù può farci passare all’altra riva, ad una vita diversa, a relazioni più mature.

Dal Vangelo secondo Matteo 23,1-12
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

 

A grandi passi ci avviciniamo alla fine dell’anno liturgico, con la solennità di Cristo Re dell’Universo e queste ultime domeniche continuano a donarci i dialoghi di Gesù con i suoi avversari, nella cornice del tempio di Gerusalemme. Si tratta delle ultime battute di un amore non accolto, di una misericordia donata senza essere riconosciuta da coloro che, esperti nella Legge di Mosè, avrebbero dovuto esultare nel vedere il Cristo venuto secondo le Scritture. Gli interlocutori delle ultime diatribe – sadducei e farisei – sono stati ridotti al silenzio dalla sapienza del Maestro di Nazaret. Ora è Lui a prendere la parola e a sferzare la saccenteria di quelle guide cieche che non vogliono vedere in Lui il Dio che dicono di conoscere e il suo volto luminoso che è sempre e solo misericordia.

Un amore che ammonisce e corregge

Attraverso le pagine evangeliche che la liturgia ci ha donato in queste ultime domeniche, Matteo ci ha proposto la figura di un Gesù che non rifiuta il confronto e non si sottrae alla discussione, anche quando il fine delle domande dei farisei e dei sadducei non era ricercare la verità e comprendere le Scrittura, quanto, invece, il metterlo alla prova, dimostrando l’infondatezza del suo insegnamento. La pericope liturgica odierna continua sì la lettura del Vangelo in maniera continuata – dal brano di Mt 22,34-40, letto la scorsa domenica a quello odierno di Mt 23,1-12, il passo è breve, abbiamo saltato solo una piccola pericope (cf. Mt 22,41-46) che narra la domanda di Gesù ai farisei circa il rapporto tra il Cristo e Davide – ma quello che cambia è il tono dell’insegnamento del Nazareno. Egli si rivolge ora “alla folla e ai suoi discepoli” (v 1) specifica l’Evangelista, uscendo dalla cerchia ristretta dei suoi avversari e donano la sua parola a tutti coloro che non hanno nessun preconcetto nell’ascoltare la sua parola. Ci sono momenti nella nostra vita di fede che il Signore parla nel segreto del nostro cuore e indirizza la sua voce per crescere in un rapporto di gioiosa intimità con Lui, in altri, invece, Egli preferisce indirizzare la sua parola a tutti, perché è Lui che ci rende Chiesa, presenza viva di carità nel mondo. Il Signore vuole che viviamo l’armonia di una fede personale che non rifugge il confronto e la relazione fraterna con gli altri, perché c’è una profonda sinergia tra la professione comunitaria della fede e la nostra vita personale, l’una si alimenta dall’altra, perché è nella reciprocità che si cresce come discepoli e ci si aiuta nel vivere il Vangelo. È quanto capita anche nella vita di coppia ed in famiglia. Gli sposi sono chiamati a vivere la fede in modo personale, ma non esclusivo, perché il rapporto con Dio non è un ricerca intimistica di un rifugio, un estraniarsi dalla realtà. Il confronto con l’altro/a, invece, non solo aiuta e stimola nella radicalità alla parola del Signore, ma sostiene e ci libera da ogni possibile sbandamento, da letture parziali della vita. Pregare come sposi è essenziale per vivere la grazia sacramentale, non basta la preghiera personale che non deve essere mai trascurata, ma bisogna vivere anche la relazione con Dio insieme alla persona che Egli ma ha messo vicino per realizzare il suo progetto d’amore. Il Maestro non parla solo al cuore di ciascuno, ma in momenti significativi – si pensi alla preghiera fatta insieme, alle celebrazioni domenicali o altri incontri di catechesi – il Risorto, vivo e vero nella sua Chiesa, parla a tutti e si lascia riconoscere nella Parola e nell’Eucaristia. In questo modo le nostre famiglie e comunità educheranno le nuove generazioni ad una fede adulta dove la dimensione personale, alimentata dalla vita spirituale vissuta insieme, arricchisce la comunità. In tale osmosi cresce la nostra fede e in cammino come i due discepoli di Emmaus, facendo l’esperienza di un cuore che ci arde dentro non solo perché come Mosè abbiamo contemplato il roveto ardente del cuore del Signore, ma anche perché, lungo la via, il Maestro ha aperto le nostre menti all’intelligenza delle Scritture.

Alla breve introduzione del brano – “Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli”(v. 1) – seguono due parti, altrettanto significative e incisive per chi legge il Vangelo. Nella prima (vv. 2-7), Gesù critica aspramente l’atteggiamento degli scribi e dei farisei, nella seconda (vv. 8-12) vengono offerte delle indicazioni concrete perché l’accoglienza di Cristo determini relazioni nuove nella comunità dei credenti. Si può anche parlare di una parte distruttiva (pars destruens), indicando con questo termine il desiderio del Maestro di togliere, tra i suoi discepoli, “il lievito vecchio per essere pasta nuova” (1Cor 5,7), e condurci per mano ad essere sempre più consapevoli di quanto una vita incentrata sull’affermazione del proprio egoismo non determini la crescita della comunione, ma porti alla divisione. Nella seconda parte, invece, Cristo vuol costruire (pars costruens) la nuova identità della sua comunità, donando le istruzioni essenziali perché il centro sia Lui e Lui solo, perché “in Lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo del Signore” (Ef 2,21). Da questo comprendiamo la sua parola decisa, il suo dire inequivocabile, il suo ammonirci con autorevolezza, il suo correggerci con fermezza. È sempre l’amore a spingerlo a parlare, il desiderio del nostro bene ad intervenire senza tentennamenti. “Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pro 3,12), ma, al testo stesso, da buon Pastore, offre anche vie nuove e percorribili perché l’errante, oltre a fare ammenda, sappia concretamente come riprendere il giusto cammino. Ammonire senza donare indicazioni concrete per crescere a cosa serve? Solo ad umiliare, non a ricercare l’autentico bene e a costruire la comunione. È importante, invece, vedere i passi da compiere, indicarli ed aiutarsi nel farli, proprio come Gesù mostra oggi nel Vangelo. A questo serve il correggere ed il parlare chiaro. Di questo hanno bisogno i nostri figli per crescere. La vita spirituale, come quella fisica, non fa salti, ma sono necessari tempi e modi per interiorizzare la grazia e rispondervi al meglio. Il nostro deve essere un cammino di verità, senza avere paura di vedersi ed accogliersi così come siamo, anzi come il Signore ci guarda, accoglie ed ama. Solo così, invece di continuare a batterci il petto per i nostri errori, asseconderemo la potenza della misericordia di Dio che ci investe e trasforma in nuove creature. Il formalismo, il fariseismo, la superbia, la volontà di prevalere sugli altri, di avere l’ultima parola sono atteggiamenti che possono diventare stili di vita. L’incontro con Gesù può farci passare all’altra riva, ad una vita diversa, a comportamenti più maturi, se ci lasciamo da Lui interpellare per fargli posto, la nostra vita non crollerà perché ben salda su di Lui.

Tutto pervaso di misericordia

La critica di Gesù è rivolta prima di tutto agli scribi e ai farisei. Le precedenti dispute hanno dimostrato le loro perverse intenzioni, ma il Signore, conoscendo bene la loro malizia, è sempre riuscito a non cadere in tranello e a mettere in ridicolo i suoi stessi interlocutori. Ma è giunto il momento di parlare apertamente e di mostrare che Dio vuole l’amore e non il sacrificio (cf. Os 6,6 in Mt 12,1-8) e non disprezza uno spirito contrito (cf. Sal 50,19). Gesù parla non per accusare, ma per mettere in guardia le folle e i suoi discepoli dall’ipocrisia, lievito dei farisei e dei sadducei (Mt 16, 6) che rende chi la pratica sepolcri imbiancati (Mt 23,27). Denunciare le strutture di peccato per non divenire conniventi con il male che serpeggia, in maniera nascosta, o che regna palesemente è un dovere per il cristiano. Gesù chiaramente lo vive e indirettamente, con il suo atteggiamento, lo indica come dinamica che deve scandire la presenza dei suoi discepoli nel mondo. Riconoscere il male e combatterlo evangelicamente significa opporre ad esso non un forza pari o superiore, ma di polarità contraria, quanto, invece, donare misericordia, l’unica forza che può cambiare il corso della storia. Questo porta il discepolo, come Gesù, ad essere sale della terra e luce del mondo, testimoniando la parresia evangelica, la stessa franchezza degli Apostoli (cf. At 4,13.29.31).

Avere il coraggio di parlare, dicendo non quello che si pensa – non è sempre detto che ciò che si crede è il vero, il giusto e il retto, per questo è sempre necessaria l’arte del discernimento – ma ciò che il Signore ispira richiede forza d’animo e amore grande, perché chi ama corregge, ma chi non ama mormora e mette in ridicolo il fratello per affermare la propria superiorità. Ammonire, invece, è ricercare il bene, vedere le zone di ombra per portare la luce, offrire il proprio contributo perché si passi dal bene al meglio e dal meglio all’ottimo. Il nostro osservare diviene critica apra, invettiva saccente, quando non siamo interessati al cammino dell’altro, ma solo a mettere in luce i suoi errori, a sparlare delle sue cadute, a dimostrare che non è così perfetto come sembra. Puntiamo il dito contro gli altri, come se noi, poi, fossimo ineccepibili dinanzi a Dio. Poveri noi! Dio ci può ammonire e dobbiamo accogliere i suoi rimproveri e quando la parola del Vangelo ci conduce a guardare in faccia le nostre incoerenze, senza perdere tempo dobbiamo andare da Cristo perché Egli “ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana” (Gb 5,18), è Lui il Medico misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. L’invocazione della misericordia divina deve però andare di pari passo con la carità verso il prossimo, estirpando alla radice la mormorazione, il parlar male e la critica perché, come insegna san Francesco, “ciascuno giudichi e disprezzi se stesso” (Regola II). Avere sempre dinanzi agli altri i propri errori e vivere alla continua presenza del Signore ci porta ad evitare di puntare il dito e di renderci conto che siamo tutti bisognosi della misericordia del cuore di Cristo. Se riuscissimo a orientare diversamente le energie che sprechiamo in parole inutili! È così difficile divenire operatori di pace e, invece di accendere il fuoco del risentimento e aumentare la fiamma del rancore in noi e negli altri, coprire con la misericordia e la comprensione che non è giustificazione del peccato – il peccato non va mai giustificato, ma la misericordia va donata e la comprensione offerta sempre – ma compassione e benevolenza.

Alla berlina, nelle parole di Gesù è il formalismo dei farisei, il loro sentirsi superiori agli altri. Il Maestro, infatti, accusa una vita di facciata, vuota di carità, priva di misericordia, non permeata dalla potenza di Dio che rimane sempre alla porta del cuore per coloro che sono pieni di se stessi. Scribi e farisei siedono sulla cattedra di Mosè, leggono la parola della Legge, ma della Scrittura non sono discepoli perché si perdono nelle siepi di quelle tradizioni che impediscono di avere Dio come unico riferimento e a Lui sostituiscono se stessi ed il proprio perbenismo. Non vivono la signoria di Dio, il primato della sua parola perché di Lui si servono per consolidare il loro potere nei riguardi della gente. La parola della Legge rimane incisiva sulla loro bocca, resta parola di salvezza per chi la ascolta con fede, ma è la loro vita che non proclama, la loro fede che non grida la bellezza della Scrittura, la mancata radicalità che non riflette la santità del Signore. Si tratta di una vita autoreferenziale dove le parole si dicono agli altri, ma non a se stessi e così si vive senza che Dio abbia il primo posto, senza che sia l’unico Signore al di fuori del quale non c’è Dio giusto e salvatore. Perché legare pesanti fardelli sulle spalle degli altri? Perché assistere ad un continuo divorzio tra parola e vita, tra ciò che si dice e quanto si opera?

Gesù chiede coerenza, non ammette doppiezze nelle intenzioni. Egli perdona e usa misericordia con il discepolo che, al pari di Pietro cade e non riesce ad essere fedele sulla strada della sequela, ma non sopporta chi, in nome di Dio, pretende dagli altri senza fare un esame di coscienza profondo e sincero. Coerenza di vita non significa perfezione morale, ma decisione e volontà ferma di seguire Dio e di lasciare che la sua parola motivi e determini le scelte personali, pur nella debolezza che ci caratterizza come creature. La vocazione a seguire Gesù comporta l’ascesi e l’impegno, la preghiera e la forza di guardarsi in profondità, la pazienza con le proprie cadute ed il coraggio di accogliersi e di lasciare che il Signore ci ami. Il centro della vita di fede è Gesù, la nostra forza il suo amore, la potenza che ci guarisce la sua misericordia, la grazia che ci salva, la sua bontà. Quando non c’è un cammino di fede vero, scandito da introspezione e dalla volontà e l’impegno di far penetrare Dio con la sua forza esigente dentro di noi, allora ci si rifugge nel formalismo di atteggiamenti insignificanti e la forma prende il posto della sostanza. E così divenivano importanti per i farisei i filatteri, piccoli astucci contenenti rotoli della Scrittura, legati al braccio e al capo – “te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”(Dt 6,8-9) – e le frange, i fiocchi che, agli angoli della veste dovevano ricordare i precetti dati da Dio – “Avrete tali frange – recita Nm 15,38 – e quando le guarderete, vi ricorderete di tutti i comandi del Signore e li seguirete” – ma ciò che non va, secondo Gesù è il fermarsi all’apparenza e non andare al cuore.

Quante volte anche nelle nostre famiglie siamo formali, facciamo il dovuto nel migliore dei casi, ma non imbocchiamo la via dell’eroicità che l’amore vero richiede! Viviamo i nostri rapporti come uno scambio, un commercio e riempiamo le nostre case di tante cose – oggi si parla della camera dei giocattoli per i figli, ma come possono giocare senza che i genitori, almeno in alcuni momenti della giornata non li lascino soli con tv e tablet che non potranno mai sostituire le braccia di coloro che li hanno generati! – ma quello che manca è la cura, l’affetto, la pazienza del perder tempo – anche se l’amore non è mai un perder tempo! – perché le nostre case sono vissute se c’è la vita e la gioia dello stare insieme, non se tutto è in ordine come in un museo. Nella vita, come anche nella fede, possiamo anche indossare i vestiti più belli, ma se siamo vuoti dentro non doneremo agli altri se non il nostro buio interiore e le parole semineranno vento e raccoglieremo tempesta. Dobbiamo abitare ciò che diciamo e crescere nella convinzione che le nostre parole, per quanto oggettive siano, hanno bisogno della nostra traduzione soggettiva, della mediazione della nostra vita che viene trasformata da Dio perché se l’altro manca della fede perché accolga la parola di Dio che gli annuncio, la nostra vita sarà monito imprescindibile della rettitudine e della bellezza di ciò che Dio chiede. Le parole passano, ma una vita plasmata dallo Spirito diventa una parola vivente, come quella di Gesù in cui ogni fibra annuncia e testimonia il primato del Padre. Non dobbiamo però credere che la vita cristiana dipenda da noi e dalla nostra volontà, quanto, invece, essa dipende, dalla nostra docilità, dalla capacità di far operare Dio nella nostra vita, permettendo allo Spirito di servirsi di noi, nel rendere presente ed operante la vita del Signore risorto.

Quando non cresciamo dentro, quando Cristo non regna in noi, quando la sua parola non incide nel nostro vivere e le scelte non sono determinate da un continuo discernimento su ciò che piace al Signore, come gli scribi e i farisei, viviamo di facciata e badiamo alla superficialità e all’apparenza, ma a che serve una fede che non trova conferma nelle opere, a che serve chiedere agli altri un amore incondizionato di Dio se la nostra vita non canta la fedeltà al Signore? Che senso ha pretendere dai fratelli ed ergersi a maestri e guide se poi non riusciamo a dare a Dio il primato che diciamo gli spetta per diritto? Gesù vuol scuotere la sua comunità perché si lavori di interiorità. Dobbiamo essere esigenti non intransigenti, è bene sempre ricordarlo, perché non serve camminare senza guardare chi ci sta accanto e poiché passa la scena di questo mondo, quale vantaggio è cercare di essere al primo posto se poi nel nostro cuore Dio e i fratelli non hanno il primo posto.

Cristo, unico maestro e guida

Il “ma” con cui si apre il versetto 8 indica il cambiamento di rotta dell’insegnamento di Gesù, il passaggio da ciò che gli scribi e i farisei fanno o meno a quello che, invece, i discepoli e quanti della folla vogliono seguirlo, devono attuare con impegno e determinazione, assecondando la grazia dello Spirito Santo. Il centro della vita – sembra dire Gesù – è il Signore, tutto deve ruotare intorno a Lui, pensieri, parole, azioni, sentimenti perché il Creatore deve avere dalla sua creatura il primato. Ogni uomo solo nella relazione amorosa con Dio, suo Signore, trova la pace e sperimenta la gioia. Cambiare rotta a passare da una vita incentrata su di sé ad un’esistenza costruita su Cristo è il vero segno della conversone che l’incontro con Cristo determina. Se questo non avviene siamo fuori strada e non possiamo definire la nostra fede né adulta né matura. Gesù è il Maestro e la Guida verso il Padre. Solo l’umiltà di riconoscerlo ed accoglierlo ci renderà grandi al cospetto di Dio e partecipi della sua gioia.




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