XXXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - 12 novembre 2017

Lo Sposo verrà, noi lo aspettiamo…

di fra Vincenzo Ippolito

È l’olio dell’amore che nella nostra vita non deve mai mancare, è questo l’unico olio che può ri-orientare la nostra fedeltà, una volta che il grido della vita nuova ci sveglia dal sonno.

Dal Vangelo secondo Matteo 25,1-13
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

 

Sul finire dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa riflettere sul tema della vigilanza, proiettando lo sguardo su Cristo che ritornerà alla fine dei tempi. È importante, infatti, che il cuore del discepolo non si lasci ingabbiare dalle realtà effimere e passeggere di questo mondo, ma resti saldo nell’attesa del Signore che viene. La nostra fede, fondata sulla Rivelazione, ci fa dire “E di nuovo [Cristo] verrà a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine”. La vigilanza cristiana, sembra insegnarci oggi l’Evangelista, è l’altra faccia della medaglia dell’amore perché solo chi ama con cuore indiviso il Cristo sposo porta nel fragile vaso della sua vita l’olio dell’amore che mai si consuma.

Il Regno tra il già e non ancora

Mentre nelle ultime domeniche abbiamo ascoltato Gesù nel tempio di Gerusalemme, in disputa con i suoi avversari (cf. Mt 21,22-24,1), la pagina evangelica odierna è, invece, ambientata sul monte degli Ulivi, lì dove il Maestro dialoga con i suoi discepoli. Sotto l’incalzare delle loro domande sulla fine del mondo, Gesù introduce un nuovo insegnamento, dettato quasi tutto d’un fiato, senza che ci siano interruzioni (cf. Mt 24,3-26,1). L’Evangelista raccoglie il materiale di quei dialoghi in due densi capitoli che, nella struttura attuale del Vangelo, precedono la Pasqua di morte e resurrezione. All’interno di questa lunga catechesi sulla fine del mondo, Matteo presenta tre parabole – del servo vigilante (cf. Mt 24,45-51), delle dieci vergini (cf. Mt 25,1-13) e dei talenti (cf. Mt 25,14-30) – che si richiamano a vicenda, per alcuni elementi che ritornano nei tre diversi brani. La liturgia ci dona oggi il secondo quadro di questo trittico, sempre dedicato al ritorno del Signore. Il genere parabolico che l’Evangelista utilizza qui come altrove – abbiamo avuto modo di vederlo in più riprese durante questo anno liturgico – serve da un lato a svelare e chiarire dall’altra a nascondere il mistero, perché l’immagine o il simbolo usato non potrà mai rendere intellegibili in modo compiuto ciò che accadrà alla fine del mondo.

Il brano inizia con un’espressione a noi familiare – “Il regno dei cieli sarà simile” (v. 1) – alquanto diversa però dall’introduzione riscontrata altrove – “Il regno dei cieli è simile” (Mt 13,24.31.44.47) con il verbo al presente – perché nella nostra pericope, come nell’intero capitolo, lo sguardo del lettore è rivolto al futuro. Dal confronto operato tra i vari brani evangelici, comprendiamo che c’è un regno già operante su questa terra e che, in maniera nascosta, come il lievito nella massa, agisce con la potenza misteriosa di Dio, ma al tempo stesso, il regno di Cristo già presente non è una realtà unicamente terrena, poiché troverà il suo naturale compimento nel mondo che verrà. Il discepolo di Gesù confessa che il suo Signore è presente nel mondo e la sua forza penetra nella storia. Non deve però credere che tutto si esaurisca nell’orizzonte del temporale, perché in Cielo trova compimento la Chiesa che Cristo ha voluto in terra come suo corpo, vivificato dalla grazia dello Spirito. In tal modo, noi viviamo tra il già e il non ancora. Concittadini della città terrena, siamo pietre vive della città celeste e proprio in questa doppia identità si muove la vita cristiana. Chiamati a ricordare le grandi opere compiute da Dio nella storia, dobbiamo avere i piedi ben piantati nel presente, scorgendovi il misterioso incedere del Signore, con lo sguardo verso i cieli nuovi e la terra nuova, perché non abbiamo una dimora stabile su questa terra. Il nostro cuore non deve quindi appesantirsi nelle preoccupazioni che possono soffocare il seme della parola di Dio, ma la vita eterna deve motivare il nostro impegno nel mondo. Il Cielo verso cui camminano non è il rifugio nel quale scappare, quando la vita è scandita da tribolazioni e difficoltà, perché aver fede significa sapere che Dio ci vuole lì dove siamo per testimoniare la tenerezza di quell’abbraccio di amore misericordioso che sarà perfetto solo nella vita eterna.

È propria della sequela di Gesù la tensione che ciascuno di noi vive tra il regno già presente e il regno che sarà. Mentre alcuni sono tutti protesi a dare visibilità qui in terra al Regno di Cristo, altri, di contro, credono che l’unico interesse da coltivare sia la salvezza eterna. Entrambe queste posizioni sono da evitare. Da un lato la vita cristiana non si esaurisce nel solo impegno terreno, per quanto la sete di giustizia e di pace, di solidarietà e di cura del creato siano esigenze autenticamente evangeliche, perché l’impegno fattivo in questo mondo mancherebbe della tensione ultraterrena. Dall’altro lato non si può solo desiderare ed operare per la salvezza ultraterrena propria ed altrui, totalmente disinteressati alle realtà terrene, perché in questo modo, la fede professata risulterebbe disincarnata e priva di quella incisività richiesta ai cristiani per essere sale della terra e luce del mondo. Una relazione sempre più profonda con Cristo, la quotidiana meditazione del Vangelo, il riferirsi costantemente al Magistero della Chiesa, il confronto in coppia e nella comunità parrocchiale, il dialogo con un presbitero o un religioso, il discernere la volontà di Dio qui ed ora sono i mezzi che ci permettono di vivere in quella meravigliosa armonia che il Padre desidera e ricerca in ciascuno di noi. Non è semplice lasciare che il cuore non si appesantisca nelle cose di quaggiù, come non è facile credere che il Regno che cerchiamo di costruire con determinazione ed impegno ogni giorno sarà compiuto solo in cielo. Per questo bisogna chiedere al Signore il dono della prudenza e della temperanza, per saper vagliare il tempo presente, orientato tutto a quello eterno.

Nelle nostre famiglie, la tensione verso il Regno che verrà è una componente indispensabile della vita di fede. Non possiamo vivere come se l’orizzonte dei nostri rapporti fosse solo questo mondo. Lo sposo deve guardare la sua sposa sapendo che camminano verso il Paradiso e che insieme sono chiamati a costruire qui in terra la loro dimora celeste. La sposa è responsabile della salvezza del suo sposo ed insieme devono concorrere perché il loro rapporto fiorisce nel mondo che verrà, dove il cuore di Dio Padre la nostra patria. Lo stesso devono fare anche con i figli. Difatti, si è genitori non solo nel pensare alla loro vita e al loro futuro, ma bisogna egualmente e con sempre maggiore impegno sentire il peso dell’educarli per il Cielo, formandoli nell’amore e nella giustizia, non conformandosi alla mentalità di questo mondo, ma conducendoli a sapere che è Dio il giudice supremo, il Padre che ci ama e dona forza perché il nostro impegno sulla terra ci conduca nel Regno eterno che Egli prepara per tutti i suoi figli. L’educazione è un’arte che senza tensione escatologica, priva di uno sguardo rivolto al mondo che verrà, risulta piatta, perché incapace di vedere ogni cosa nell’orizzonte dell’eternità. Luigi e Zelia Martin, genitori di Teresa di Gesù Bambino sono una meravigliosa testimonianza di cosa significhi educare per il cielo i propri figli, avendo cura che il cuore sia totalmente orientato all’amore di Dio di cui il prossimo gode qui in terra il suo concreto riflesso.

Tra le righe, la nostra vita

La parabola di Mt 25,1-13 ci presenta dieci vergini che “presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo” (v. 1). In realtà, la cosa sembra alquanto strana, se confrontiamo la narrazione con gli usi della Palestina ai tempi di Gesù. Delle fanciulle facevano parte del corteo nuziale della sposa, ma non attendevano la venuta dello sposo, come risulta inusuale che l’atteso venga nel ben mezzo della notte. La narrazione evangelica non determina la semplice trasposizione delle tradizioni giudaiche, ma la loro trasformazione in vista dell’insegnamento che l’Evangelista vuol donare. Nella parabola tutto ruota intorno al Cristo sposo e al suo fedele discepolo che lo attende, sapendo che con Lui c’è la gioia vera. La vita cristiana, infatti, nella sua duplice dimensione terrena e celeste, è un corteo festoso verso Cristo Signore. Chi lo ama e lo segue è simile ad una giovane donna che vive nell’attesa di unirsi al suo sposo. Tutti sono chiamati ad attendere Cristo perché se certa è la sua venuta, sconosciuto è, invece, il momento del suo apparire che motiva la costante vigilanza (cf. Mt 25,13). Gesù è la gioia di ogni uomo che, consapevole o meno, lo aspetta perché solo Lui può realizzare le attese del cuore umano e donargli la pace. Su questo sfondo si sviluppa la pagina evangelica, con i suoi molteplici particolari, il cui insegnamento ci viene donato alla fine “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (v. 13). Il dato centrale della parabola è l’incontro. Le dieci vergini, scrive l’Evangelista, “uscirono incontro allo sposo” (v. 1). La vita dell’uomo sembra essere scandita da queste tre note dominanti: uscire, portare le lampade, incontrare lo sposo, tre azioni conseguenziali che trovano senso nel sapere che lo sposo verrà e, pur se lungamente atteso, non lascerà vegliare invano coloro che lo attendono con gioia.

Uscire …

Il primo gesto che le dieci vergini compiono è quello di uscire, un simbolo assai efficace di ciò che siamo chiamati ogni giorno ad attuare, non solo con il corpo, ma soprattutto con la mente ed il cuore. La vita, infatti, è una continua uscita, dalla propria casa e dai propri affetti, come Abramo, da se stessi e dalle schiavitù che ci si porta dentro, come Mosè. La vita, ogni vita è un esodo, da accogliere con coraggio, da vivere con determinazione, da attuare, vincendo la paura di fallire. Non si può desiderare di tornare indietro, come il popolo d’Israele, solo perché la fatica del camminare nel deserto sembra eccessiva, né la schiavitù, che le asprezze del pellegrinaggio solitario fanno sembrare un tempo di delizie, può causare una battuta di arresto. L’uscita è uno stato esistenziale permanente per ognuno di noi. Usciamo dal grembo materno per vivere, rimanervi sarebbe la morte, trovandovi la tomba, come voleva Giobbe, divorato dalla paura del presente. L’utero materno ci custodisce e lì veniamo alla vita, ma è necessario il dolore del parto per ogni madre e per ogni figlio che piange, vivendo il trauma di essere stappato dal suo luogo primordiale. Da quel momento ogni uomo deve abituarsi alla continua ed inesorabile uscita se vuole vivere, se vuole crescere, se desidera appropriarsi del mondo e conoscerlo, assecondando il desiderio di relazionarsi con se stesso, con Dio e con gli altri, in quella lotta continua che il confronto determina. Anche nel costruire una famiglia, l’uomo e la donna escono dalla propria casa e costruiscono nel talamo del cuore dell’altro la propria dimora, in quella uscita continua da se stessi per far posto prima all’altro e poi ai figli che sono il segno concreto di un amore che non è pago se non di donarsi, nell’uscita dell’amore che fa nascere la vita.

È in famiglia che dobbiamo vivere consapevolmente le nostre uscite, imparando ad accoglierle con gioia, a sceglierle con maturità, mai a subirle con superficialità, ma a vederle come tappe obbligatorie per crescere e divenire adulti. Il Verbo non è forse uscito dal seno del Padre per farsi uno di noi? E poi non è uscito continuamente per farsi prossimo ad ogni uomo? Maria, la sua tenera Madre, non è uscita dal suo progetto di vita, per entrare nel disegno di Dio? E nella sua vita poi la Vergine non è continuamente uscita, verso Elisabetta, verso Betlemme insieme con Giuseppe, a Gerusalemme per presentare il suo Fanciullo al tempio? Inutile rimanere sulle proprie posizioni, come privo di senso è lo stare rintanati nelle pratiche religiose che non incidono nella vita quotidiana, quasi che la fede si esaurisca nella sola dimensione cultuale. Bisogna uscire e chi non esce muore in se stesso, chi non esce da se stesso, non incontra l’altro, non si lascia amare e non ama. Uscire vuol dire rischiare, riconoscere la propria schiavitù, senza la paura di guardarsi senza maschere. Ci si può anche illudere, come Israele, che la schiavitù è la nostra casa sicura. È la grettezza mentale del non voler accettare la verità, comprendere la realtà e chiamare le cose per nome che ci impedisce di non accogliere le possibilità di vita, di crescita e di maturità che il Signore ci dona continuamente chiamandoci ad andare verso la meta che Egli ci offre, donandoci la sua forza e mettendoci accanto persone che, al pari di Mosè, ci guidano verso la libertà. Il motivo dell’uscita delle vergini è la speranza di entrare con lo sposo al banchetto, di vivere l’intimità con Lui, di partecipare alla sua vita, di bere al calice della sua stessa gioia. Questo è vero anche per noi, si esce da se stessi nel rapporto di coppia e nelle amicizie perché solo facendo spazio all’altro/a si matura e si cresce, si esce dalla terra delle proprie sicurezze per costruire insieme la gioia dell’incontro. Se non esco da me stesso come potrò accogliere il posto che l’altro/a mi fa nel suo cuore? Se non faccio spazio in me alla persona che amo, il suo uscirmi incontro potrà mai raggiunge il suo fine?

…portando le lampade

Per uscire però, bisogna essere ben equipaggiati. È questo il secondo passaggio che la parabola sembra donarci. Le vergini, infatti, in seconda battuta, prendono le lampade per illuminare il cammino e rendere più facile la veglia che le attende. Quante volte si esce sprovvisti del necessario? Quante volte, lungo il cammino, ci si rende conto di aver lasciato qualcosa di importante e siamo costretti a chiederla in prestito o ne dobbiamo fare a meno? Il Vangelo ci ricorda l’importanza di saper ponderare i passi da fare, sempre. Ad esempio, non possiamo costruire una casa, senza calcolare bene la spesa da affrontare, né partire in guerra senza studiare le mosse da fare e passare in rassegna il nostro esercito (cf. Lc 14,25-31). La preparazione è essenziale, prima di iniziare il cammino. Le vergini portano le lampade per uscire e noi cosa portiamo o abbiamo portato nella nostra vita matrimoniale? Come ci siamo preparati a vivere l’avventura della vita insieme? Abbiamo ben calcolato i passi da fare, le rinunzie al proprio egoismo da attuare, i silenzi carichi di rispetto e di cura da vivere per dare spazio all’altro/a? Cosa portiamo di noi stessi e della nostra vita passata come patrimonio non solo materiale, ma soprattutto interiore, spirituale, quale bagaglio di esperienze arricchiscono il nostro rapporto e come le esperienze aumentano con il passare degli anni? Quale preparazione abbiamo fatto e quale formazione facciamo per uscire continuamente da noi stessi, vincendo l’egoismo e la pretesa, l’orgoglio e la presunzione di sapere sempre tutto ciò che bisogna fare?
Ci sono momenti, nella vita insieme, nei quali le nostre immaturità vengono fuori e come i discepoli di Emmaus i nostri dialoghi sono scanditi da parole che mostrano come le delusioni siano il frutto di grandi illusioni. I nostri credevamo, speravamo, volevamo sono il segno che non abbiamo portato con noi, uscendo, la lampada di cui avevamo bisogno lungo il cammino, che siamo stati vinti dalla fretta e non abbiamo pensato, riflettuto, riuscendo a discernere ciò che era necessario portare e quanto era meglio lasciare. La vita di coppia non è la somma delle due precedenti, ma una totalmente nuova che si consolida su due volontà che desiderano costruire la bellezza dell’amore del Signore in loro e tra loro. Non può mancare la luce di Dio nei nostri rapporti, come non può venire meno la nostra predisposizione a saper vegliare. Le lampade sono il segno della volontà di vegliare nella notte, un aiuto perché il buio non vinca sul desiderio che condividono mente e cuore insieme. Ma, è bene ricordarlo, la lampada rimane sempre uno strumento per accompagnarsi nel buio, un semplice oggetto, perché la veglia non dipende dalla lampada, ma dal cuore, dalla nostra capacità di rimanere desti. Siamo noi che dobbiamo ben usare le cose che abbiamo, sapendo il fine che desideriamo raggiungere. Non bisogna credere che siano le cose, per quanto utili, a rendere bella la nostra vita. Uscendo, non portiamo la borsa di Mery Poppins, ma ciò che ci fa essere noi stessi e può aiutarci a vivere nella gioia i nostri rapporti.

La mia vita, il mio corpo, il mio cuore è la lampada in cui brucia l’olio dell’amore, non ci può essere una fibra del mio essere che non sia permeata della fragranza dell’olio purissimo dello Spirito, del nardo prezioso della sua tenerezza che ogni piaga guarisce, dell’unguento onnipotente della dolcezza sua che, versata, sana e le ferite dell’animo nostro rimargina. La mia vita, il mio corpo, il mio cuore è la lampada nella quale il Risorto riversa la sua vita nuova, l’alito della resurrezione che ogni morte sbaraglia, perché io partecipi, per il dono della sua grazia, alla capacità del suo cuore di amare senza che il male mi vinca nel desiderio di donarmi. La mia vita, il mio corpo, il mio cuore è la lampada per la persona che Dio mi ha dato, dall’unione dei nostri cuori, dei nostri corpi, delle nostre vite la lampada delle nostre famiglie misteriosamente contiene l’olio della vita che trasmettiamo ai figli, la grazia dell’accoglienza che a tutti doniamo, la luce della gioia di cui ogni cuore può godere. Non una parte di me, di noi è lampada, ma tutto in me, in noi, mente, cuore, corpo, sentimenti è l’argilla che il divino vasaio plasma perché contenga quel dolce olio che brucia in noi per la sua sola gloria.

… incontro allo sposo

Il terzo elemento che l’Evangelista sottolinea è l’incontro. Le vergini escono non per fare un giro e prendono la lampada non perché le mani stringano qualcosa, durante l’attesa. Tutto è finalizzato all’incontro con Cristo che acquista i caratteri della sponsalità, dell’intimità gioiosa, della relazione profonda. Le dieci vergini, pur nella loro saggezza e stoltezza, hanno tutte un motivo per uscire con le lampade. È l’incontro con lo sposo a determinare la loro preparazione, a spingerle all’uscita, a cambiare il ritmo della loro esistenza. Vivono per Cristo, prendono le lampade per Lui, escono perché lo Sposo è il motivo del loro canto, la causa della gioia del cuore, la speranza che sostiene il rimanere nel buio della notte. Esse vivono la tensione, il desiderio, il trasporto verso lo sposo che polarizza la loro attesa e diventa progressivamente il centro dei loro interessi. L’incontro è la categoria chiave della sacra Scrittura. “Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici – recita la costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione del Concilio Vaticano IIsi intrattiene con essi, per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé”. Per questo Dio si è fatto uomo, per incontrarlo, donargli la sua gioia, comunicargli il suo amore immenso. Nella nostra vita tutto deve essere finalizzato ad incontrarci, non nella metà strada del compromesso, equidistanti dalle sicurezze che ciascuno lascia un momento per poi riprenderle. Non c’è cosa più importante dell’incontro con Cristo e con i fratelli. Ecco perché alla sposa il salmista dice “Dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre” (Sal 45,11) e lo sposo del Cantico sussurra alla sua donna “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni presto!” (Ct 2,10). L’incontro amoroso, lo scambio reciproco, la comunione perfetta, la relazione vera avvengono solo se si ha il coraggio di perdere tutto per l’altro, di considerare l’amato/a la ragione della propria vita, il motivo del proprio canto. Come Paolo, quando si ama, tutto si considera come spazzatura (cf. Fil 3,8) perché l’amato è più importante di ogni cosa ed il pensiero che ci sia qualcosa di più bello e gioioso non può minimamente sfiorare la mente, destabilizzando la sicurezza del nostro amore. È l’incontro che cambia la vita e determina la gioia vera del cuore, come è l’incontro dei discepoli con Cristo che ha cambiato il corso della loro vita, determinandoli a vivere non più per se stessi, ma per Colui la cui parola li incantava, il cui cuore li attraeva, la cui tenerezza inondava l’animo loro, il cui soffio donava la potenza dello Spirito che tutto vivifica. È l’incontro con Dio attraverso l’angelo che ha cambiato la vita di Maria e l’ha resa, da vergine, madre, capace di essere mediatrice di incontri trasformanti con Elisabetta prima e poi sotto la croce con il Discepolo amato dal suo Figlio.

In famiglia nulla deve essere più importante dell’incontro. Tra marito e moglie i tempi della comunione e del confronto devono essere custoditi, quelli dell’intimità familiare serbati perché rappresentano la liturgia domestica nella quale si fa esperienza della presenza di Gesù, tra i suoi riuniti nel suo nome. Non deve trascorrere una giornata senza aver tempo per incontrare le persone che si amano, senza aver tempo per Dio che sta sempre alla porta del nostro cuore, pronto ad entrare per donarci la sua amicizia e la gioia della sua salvezza. È necessario imparare in famiglia ad incontrare Cristo e a saperlo attenderlo, discernere i segni della sua venuta. È la famiglia la vera scuola dove si apprende che il fine di ogni nostra azione è incontrare Dio e gli altri. Se la famiglia demanda ad altri questo importante compito educativo, sarà un’impresa difficile per i figli imparare altrove l’arte di amare.

Tra saggezza e stoltezza

Le dieci vergini non sono tutte uguali, Matteo lo specifica subito. “Cinque di esse erano stolte e cinque sagge” (v. 2). Il tema della stoltezza e della sapienza, già ampiamente sviluppato nell’Antico Testamento, è un elemento che si collega alle altre due parabole – i servi che il padrone al suo ritorno troverà, sono definiti “fidato e prudente” (Mt 24,45) l’uno e “malvagio” (Mt 24,48) l’altro, mentre buoni e fedeli quelli che hanno fatto fruttificare i talenti (cf. Mt 25,21.23), “malvagio e pigro” (Mt 25,26) chi ha nascosto il suo nel terreno – mostrando i due diversi atteggiamenti della vigilanza. L’Evangelista dona il criterio del suo giudizio, “le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi” (v. 3-4). Non è la capacità di vincere il sonno criterio dirimente – la difficoltà prende tutti e tutte le dieci vergini si addormentano, come Abramo, mentre attendeva di stipulare alleanza con Dio (cf. Gen 15,12) – ma il vero problema è prendere l’olio che può far bruciare le lampade ed illuminare la notte, una volta che la voce le ha destate dal sonno. Non dobbiamo temere le difficoltà, né lasciaci abbattere dalle situazioni che si presentano. L’amore può anche avere delle battute di arresto e l’attesa dell’altro, dello sposo o della sposa che tarda a venire, può anche portarci ad essere vinti dal sonno, come Pietro, Giacomo e Giovanni che, nel Getsemani, sentono gli occhi appesantirsi, mentre il Maestro ripetutamente li incalza a vegliare e pregare con Lui (cf. Mt 26,36-46).

È l’olio dell’amore che nella nostra vita non deve mai mancare, è questo l’unico olio che può ri-orientare la nostra fedeltà, una volta che il grido della vita nuova ci sveglia dal sonno. Una voce può ridestarci, come quella del diletto del Cantico dei Cantici. Abbiamo bisogno di voci di resurrezione che ci spronino a riprendere il cammino e dare senso all’attesa che si è interrotta per il difficile vegliare. Attendere il Signore ed attendersi è possibile se portiamo con noi nei piccoli vasi del cuore l’amore che fa bruciare la nostra vita. Non lo si può acquistare, perché non è in vendita, per questo va sempre custodito e portato con sé l’olio dell’unzione con la quale Cristo ci ha consacrati sua stirpe santa, sacerdozio regale, popolo che a Lui appartiene. Solo lo Spirito può riaccendere in noi la possibilità di entrare e vivere la bellezza delle nozze eterne con Cristo.
La parabola ha lo scopo di spronare la nostra vigilanza. La venuta del Signore motivi la nostra attesa e ci spinga a far circolare nei nostri rapporti quell’amore che più lo si dona e più è capace di centuplicare.




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