Foibe

Foibe: le ragioni dimenticate

di Gianni Mussini

Perché per decenni è calato il silenzio sulla strage delle foibe? Dalla penna di Gianni Mussini un viaggio nella storia alla ricerca della vere cause della tragedia.

Nereo Rocco fu l’allenatore del Milan che negli anni sessanta del secolo scorso, primo in Italia e per ben due volte, vinse la Coppa dei Campioni. Nella testimonianza di Gianni Brera, era “il nipote del viennese Ludwig Rok, che faceva il cambiavalute e scappò a Trieste per amore, drio a un’acrobata o ballerina da circo, e spagnola per soramercà [sopramercato]: la mia nona”. Rok diventa Rocco nel 1925, quando per lavorare nel porto era obbligatorio avere la tessera del fascio. Il cognome doveva essere italianizzato in Rocchi, ma l’impiegato dell’anagrafe sbagliò e nacque così Rocco. Prima riflessione: si può chiamare Rocco un triestino, per di più figlio di un Ludwig? La bellezza di Trieste consiste proprio nel suo essere sempre stato un crocevia di nomi, lingue, culture… (Una coppia di miei cari amici triestini fanno di cognome rispettivamente Tudor, dalla Boemia; ed Henke, dalla Germania).

Pure di Trieste erano Aron Hector Schmitz, dal cognome tedesco e dal primo nome inconfondibilmente ebraico, noto a tutti con lo pseudonimo di Italo Svevo (come a dire metà italiano e metà germanico); e anche Umberto Poli, di madre ebrea (una Cohen) e di padre (poco) cristiano che abbandonò la famiglia quando il figlio era piccolino. Tanto che, per farla al padre, Umberto sostituirà il cognome con lo pseudonimo Saba con cui è conosciuto tra i maggiori poeti del Novecento. Nato come Svevo sotto l’impero asburgico, Saba volle però raggiungere Firenze per coltivare sulle rive dell’Arno la propria vocazione letteraria e affinare la conoscenza della lingua e della cultura italiana. Come lui altri triestini di belle speranze e dai nomi ben poco nostrani, penso per esempio a Giani Stuparich o a Scipio Slataper…Quest’ultimo è quasi un ossimoro: cognome boemo e nome romanissimo, che risorgimentalmente si ispira all’elmo di Scipio dell’Inno di Mameli. Ed è toccante paradosso che, con questi nomi esotici, entrambi furono irredentisti e combatterono per l’Italia (Slataper, volontario nella Grande Guerra, morì sul Carso).

Goriziano invece è stato Graziadio Isaia Ascoli, la cui vita scorre tutta sotto gli Asburgo. Professore a Milano, inventò la parola glottologia e fondò la disciplina della dialettologia. Era anche lui ebreo, ma insieme asburgico e italiano (fu accademico dei Lincei). Diceva di sé di essere nato a Gorizia da genitori israeliti, ma concludeva: “I soi fî dal Friûl e mi glori di chest”. Figlio del Friuli e me ne vanto.

Per dire che patriottismo e localismo non sono in contrasto ma possono costituire una virtuosa armonia. Lo aveva detto meravigliosamente padre Dante: “Abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare, noi, che pure prima di mettere i denti abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno e amiamo Firenze tanto da subire ingiustamente l’esilio per averla amata”. Sostituendo all’Arno il Po o il Tevere, la metafora varrebbe anche oggi per tutti noi… Del resto, uno studio inglese sulla composizione genetica di 95 popolazioni differenti ha dimostrato che siamo un po’ tutti figli di Gengis Khan e di tanti altri imbarazzanti personaggi: mai essere troppo orgogliosi della ‘purezza’ delle proprie origini!

Fine della premessa, necessaria per capire come il territorio che grosso modo va dal Friuli al Quarnaro e oltre, è sempre stato un ponte – liberamente transitabile – tra popoli e culture diverse. Un ponte che, come avvenuto in tante altre zone europee, è stato bruscamente tagliato dagli Stati nazionali (così in Alto Adige, Provenza, Paesi baschi ecc.), senza troppo riguardo per le popolazioni interessate. È proprio il nazionalismo, mala pianta della storia, che ha determinato questa frattura. In particolare quell’esplosione di pervertito patriottismo che ha suscitato la Prima Guerra Mondiale (lo dico ovviamente con il massimo rispetto per chi ha versato il proprio sangue: nel sacrario di Redipuglia c’è un mio zio, volontario e caduto sul Carso).

Finita la Grande Guerra, la Conferenza per la pace di Parigi impone condizioni esageratamente punitive nei confronti degli sconfitti Imperi centrali. L’Italia, pur non soddisfatta nelle sue aspettative, ottiene comunque Friuli e Venezia Giulia, con Trieste; e in più l’Istria e piccole parti della Dalmazia (Zara). Più tardi avrà anche Fiume. Alla fine, circa 15.000 italiani rimasero in territori assegnati alla Jugoslavia, mentre si ritrovarono entro i confini del Regno d’Italia ben 490.000 slavi. In tutti quei territori la parte italiana della popolazione viveva per lo più nei centri urbani e costieri, essendo costituita dalla borghesia mercantile e imprenditoriale. Nel contado invece la popolazione era quasi tutta slava… Ma l’onomastica citata in precedenza ci dice che molti erano gli incroci etnico-culturali.

Con il regime fascista la situazione si complica, poiché il nazionalismo diventa in Italia componente ideologica fondamentale. Non senza elementi positivi, beninteso: un certo senso di appartenenza e coesione sociale; l’efficienza prodotta anche dal forte centralismo; la stessa spinta propulsiva di un movimento che nel 1919 nasceva come rivoluzionario. Ma certamente il rispetto delle minoranze e delle nazionalità diverse da quella italiana era nullo: di qui l’italianizzazione non solo dei nomi (Rocco), ma anche dei luoghi (Cormaiore per Courmayeur). Ciò che è meno innocente di quanto non sembri, se è vero che “In principio era il Verbo”, come ha pur detto Qualcuno… Oltre a ciò, con la riforma Gentile – benemerita per la sua impostazione generale (su di essa vive di rendita ancora oggi la nostra scuola) – fu però abolito l’insegnamento delle lingue croata e slovena in zone in cui queste popolazioni erano, come visto, in maggioranza. Ancora, molti degli impieghi pubblici furono attribuiti a funzionari italiani; ciò anche per rivalsa nei confronti del governo asburgico che, negli ultimi tempi, aveva privilegiato slavi e tedeschi. Tutte cose che – con intensità e gradazioni diverse – succedevano anche altrove, in un’Europa malata di nazionalismo; ma che cominciano a farci comprendere alcuni dei prodromi del fenomeno terribile e inescusabile delle foibe.

Il risentimento anti-italiano sfociò in qualche caso in azioni addirittura terroristiche. Ci furono arresti e condanne a morte. Ma la situazione precipitò con la Seconda Guerra Mondiale e in particolare nell’aprile del 1941, quando la Germania – per soccorrere l’Italia (che si era illusa di spezzare le reni alla Grecia) e intanto consolidare il fronte meridionale del Reich – sferrò un poderoso attacco contro la Jugoslavia, a cui parteciparono anche i nostri soldati: concluse le operazioni, ottenemmo una zona di occupazione che dalla Slovenia andava sino alle Bocche di Cattaro. Si iniziò anche in questi nuovi territori, con la parziale eccezione della Slovenia, un processo di italianizzazione forzata con forme anche brutali di oppressione che sfociarono in veri e propri crimini di guerra. Stavolta noi Italiani non siamo stati “brava gente”, come vorrebbe una comoda vulgata auto-assolutoria. Anche se certamente in qualche caso lo siamo stati: singolare quanto avvenne nel campo di concentramento di Arbe, allestito dagli Italiani nell’omonima isola sul Quarnaro, dove, mentre i prigionieri slavi vennero trattati durissimamente, diverse migliaia di Ebrei furono internati a scopo protettivo, in condizioni e ambienti molto migliori, per scamparli dalla deportazione nei campi di sterminio nazisti. Strano il guazzabuglio del cuore umano: non giudeofobi (nonostante le orrende leggi razziali del 1938), ma slavofobi… Mah.

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la situazione si aggravava ulteriormente. I partigiani di Tito occuparono gran parte delle zone in precedenza assegnate all’Italia dando il via a una sorta di terrore rosso, con diffusi episodi di giustizia sommaria di cui fecero le spese fascisti, ma anche oppositori politici democratici e cittadini che, per il loro prestigio sociale o culturale, rappresentavano una minaccia di italianità rispetto al nuovo verbo slavo e comunista. È proprio per eliminare i cadaveri di tutti costoro che nel settembre del 1943 cominciarono a essere impiegate le foibe (ma in queste cavità carsiche capitava che venissero gettate anche persone vive, legate a una grossa pietra che le trascinasse verso il fondo: eppure qualcuno riuscì incredibilmente a salvarsi).

A questo punto i Tedeschi, con l’appoggio della neonata Repubblica Sociale Italiana (creata da Mussolini nel Nord Italia), lanciarono la cosiddetta Operazione Nubifragio, riconquistando molti dei territori occupati dagli Jugoslavi e costituendo la Zona di operazioni del Litorale adriatico, formalmente retta dagli italiani ma in realtà saldamente in mano nazista. Possiamo immaginarne le conseguenze in termini di massacri e terrore, spesso in risposta ad azioni partigiane che pure proseguirono (eroico il comportamento della Brigata Proletaria dei Cantieri navali di Monfalcone). L’Operazione Nubifragio terminò il 9 ottobre 1943.

 

L’anno dopo iniziò l’arretramento delle forze dell’Asse italo-tedesco anche sul fronte jugoslavo. Nell’autunno del 1944 a Zara, con il ritorno dei soldati titini, si ebbero nuovi episodi di giustizia sommaria ai danni degli italiani, stavolta con la particolare tipologia degli annegamenti in mare (le vittime erano legate a grosse pietre). La guerra volgeva ormai al termine. Nella primavera successiva Tito diede l’ordine di occupare, oltre all’Istria e alla Dalmazia, anche la Venezia Giulia, con Trieste, anzi “Trst”, per mettere gli Alleati di fronte al fatto compiuto. L’impresa riuscì perfettamente nel mese di maggio dello stesso 1945. È questo il periodo in cui la repressione e l’uso delle foibe si intensificò. Tra le vittime, politici come il socialista Licurgo Olivi, l’azionista Augusto Sverzutti, i democristiani Carlo Dell’Antonio e Romano Meneghello; ma non mancarono sacerdoti, tra cui il Beato don Francesco Bonifacio, assassinato “in odium fidei” nel 1946, dunque a guerra finita da un pezzo. Nel complesso i dati sugli infoibati oscillano – a seconda delle fonti – tra i cinquemila e i quindicimila. Non vanno dimenticati i campi di concentramento, come quello di Borovnica, i cui prigionieri subivano sevizie del tutto degne dei lager nazisti, con crocifissioni e altre pratiche sadiche che non è il caso di ricordare.

 

In questa esposizione abbiamo già incontrato le cause principali del fenomeno delle foibe: gli opposti nazionalismi; la repressione fascista; le diffidenze etniche; lo spirito di vendetta; e su tutto la guerra che ogni cosa esacerba. Ma bisogna aggiungere il motivo tutto ideologico del comunismo titino, dalla connotazione fortemente nazionalistica e totalitaria. I partigiani comunisti combattevano per una patria che era anche patria politica e sociale: la loro rivoluzione voleva fare piazza pulita delle ‘anticaglie’ costituite dai ceti borghesi, dagli avversari politici (anche di sinistra, anche slavi), dai sacerdoti… Qualcosa che, più in piccolo, abbiamo visto pure qui da noi nella zona del cosiddetto “triangolo rosso” emiliano, dove in quanto anticomunisti vennero eliminati diversi proprietari terrieri, industriali, professionisti, borghesi e di nuovo sacerdoti.

 

Credo però che, quando si parla di queste cose, bisognerebbe fare l’esercizio spirituale di cercare i “buoni” anche nella parte che la storia – oltre che la buona coscienza – ha proclamato colpevole. Penso per esempio a quel sottoufficiale del campo di Kaufering (Dachau) che – secondo la testimonianza del neurologo ebreo viennese Victor Frankl (l’inventore della Logoterapia) – ha cercato di aiutare molti dei suoi detenuti passando loro un po’ di cibo a rischio della propria vita. Penso al mite fascista Giorgio Perlasca che, fingendosi il console di Spagna a Budapest, procurò salvacondotti a circa seimila ebrei; allo stesso nazista Oskar Schindler, convinto che “chi salva una vita salva il mondo intero” (una frase del Talmud che mi ripeto nella mia quotidiana attività per il centro di aiuto alla vita). Penso infine a quel Salvatore Cippico di cui parla Claudio Magris in Alla cieca: militante appassionato del partito comunista, dopo aver sperimentato Dachau, fu imprigionato – con tanti compagni di partito – dal regime di Tito nel bagno penale di Goli Otok, la terribile Isola Calva. Pagava così la sua fedeltà a Stalin, in rotta con Tito. Fedeltà mal riposta, certamente, ma che forse non è sbagliato definire “epica”.

 

Rimangono da individuare i motivi dell’oblio calato sulle foibe per tanti decenni. Certo la Guerra fredda, con Tito nemico di Stalin e dunque amico degli Occidentali, ha contribuito a far comodamente dimenticare quella tragedia. Ma mi pare che al fondo di questo oblio ci siano soprattutto una causa ideologica e una morale. La prima. L’Italia ospitava il più forte partito comunista al di fuori dello schieramento sovietico: un partito forte e fresco, reduce dall’aver dato un apporto decisivo alla guerra partigiana; e che alla fine con realismo e intelligenza scelse una strada non rivoluzionaria e gramscianamente gradualistica. Ma un partito che rimaneva ciononostante ancora profondamente marxista, non dimentico che, appunto secondo Marx, “la violenza è la levatrice della storia”. Errore teorico, dunque, che come tale genera altri errori e – come in questo caso – anche orrori. In tale prospettiva non stupisce che le efferatezze dei Titini potessero venire in qualche modo giustificate: molte cose si sacrificano sull’altare del progresso, vero o presunto. E non stupisce più di tanto neppure l’accoglienza aggressiva e polemica riservata nel 1947, alla stazione di Bologna, dai sindacalisti rossi a un convoglio di profughi istriani provenienti da Pola. Profughi che in diverse altre analoghe manifestazioni venivano sbrigativamente liquidati come “fascisti”. Tutto ciò ci fa capire come mai ci siano voluti decenni prima che una personalità di rilievo come il presidente Napolitano ricordasse (10 febbraio 2007) “l’ondata di cieca violenza che… accompagnò quel disegno di sradicamento della presenza italiana dalla Venezia Giulia”. Napolitano parlava anche di un “moto di odio e di furia sanguinaria”, e di “un disegno annessionistico slavo… che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”. Al riguardo, confesso di pensarla come il cancelliere tedesco Konrad Adenauer: “Non basta avere ragione, bisogna avere ragione al momento giusto”.

 

E la penso come Manzoni, che non si sognava di scusare con il condizionamento dei tempi gli errori di molti, tra cui il cardinal Borromeo, sulla questione degli untori. Scrive nell’introduzione alla Colonna infame che “sarebbe bastato guardar più attentamente a que’ fatti” per scoprire “un’ingiustizia che poteva esser veduta a quelli stessi che la commettevano”. La riflessione manzoniana ci aiuta a capire quella che mi pare la seconda e più vera causa dell’oblio delle foibe: quella morale. L’egemonia gramsciana a cui accennavo prima ha esercitato almeno sino ai maturi anni Settanta del secolo scorso una sua speciale attrattiva su molti, trasformandosi però spesso in duro conformismo. Si spiega così che il tema delle foibe venisse lasciato – con le debite eccezioni – alle destre nostalgiche. E si spiega così – in aggiunta all’inadeguatezza culturale di molti anche non soggetti a quell’egemonia – che sui libri di testo scolastici di questo argomento non si parlasse o se ne parlasse in termini minimizzanti. Salvo poi correggersi dopo il crollo del Muro di Berlino. Vedi questa comunicazione editoriale, che riguarda proprio il nostro tema: “La Zanichelli assicura che la quarta edizione degli Elementi di Storia di Camera e Fabietti (in preparazione per il ‘98/99) conterrà una trattazione esplicita nel testo, documentazione cartografica delle due stagioni più cruente (autunno del ‘43, durante l’armistizio e maggio/giugno ‘45, dopo la disfatta tedesca)”. Peggio el tacon del buso, come dicono in Veneto… Uno storico degno di questo nome dovrebbe pensarci prima!

 

La causa è morale, dunque, e ha a che fare niente meno che con la viltà. Degli intellettuali, prima di tutto, che dovrebbero sempre porsi l’obiettivo della verità (almeno quella con la minuscola). Il poeta Clemente Rebora fu negli anni Venti responsabile di una collana editoriale per cui suo fratello Piero stava curando un libretto di Jacopone da Todi. Come usava allora, Piero volle rendere il testo in italiano moderno, sostituendo in un certo passo la parola viltate con miseria. Ecco che cosa gli rispose il fratello: “Nel secolo di Dante viltà è proprio agli antipodi di bontà: la prima è l’inerzia spirituale che rende incapace di promuovere il bene – la seconda il coraggio morale che genera e verifica il bene verso l’ideale della Vita (Dio). Non si può usare altro termine”.

 

Coraggio morale contrapposto a inerzia spirituale: mi pare questo il sigillo più intonato a ogni discorso sulle foibe.




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