Giornata per la violenza sulle donne

Beatrice Fazi: “Bisogna avere pietà anche del molestatore”

di Ida Giangrande

Artista poliedrica dal viso gioioso, meglio conosciuta come Melina, di “Un medico in famiglia”. Oggi a Punto Famiglia, Beatrice Fazi racconta la sua storia e sullo scandalo delle molestie nel mondo dello spettacolo dice: “A cosa serve fare nomi e vendicarsi? Bisogna usare carità nei confronti della parte molestata ma anche del molestatore”.

Attrice di teatro, cinema e televisione, ma soprattutto protagonista di un’avventura unica nel suo genere: l’incontro con Cristo. Vuole raccontare ai nostri lettori la sua esperienza di fede?
Sono stata educata alla fede nella mia famiglia d’origine, ho fatto il Battesimo, la Comunione ma poi mi sono fermata lì. Ad un certo punto sono entrata in crisi anche e soprattutto a causa della separazione dei miei genitori. Quello è stato l’inizio di una lenta e inesorabile caduta verso il basso. Ho cominciato a credere che Dio non fosse un Padre buono perché stava permettendo che la mia famiglia si sfaldasse. Quando i genitori si separano per un bambino crolla il fondamento della sua stessa esistenza e così ho cominciato a non andare più a Messa, a non confessarmi più. Persa l’identità di figlia di Dio, avevo bisogno di cercarmene un’altra e il mondo dello spettacolo era ciò su cui puntavo. Volevo diventare un’attrice importante, un sogno che ho accarezzato fin da piccola, e parallelamente a questa passione ho cominciato ad esplorare le emozioni forti. Avevo bisogno di trasgressione, volevo collezionare emozioni, rifiutavo ogni regola, facevo uso di stupefacenti leggeri, dovevo oltrepassare i limiti, ed ero convinta che il successo mi avrebbe dato una ragione d’esserci. Avrei potuto finalmente sentirmi importante per qualcuno come non lo ero stata per le persone a me più care. Così cercando questa realizzazione mi sono persa. Il mio lavoro era diventato un idolo al quale stavo sacrificando tutto, anche il mio corpo. Intorno a me c’erano stereotipi di donna che io non potevo eguagliare. Erano tutte più alte, più bionde, ed io volevo essere come loro. A furia di cercare di assomigliare a qualcuno, però, mi allontanavo sempre più da me stessa. Fino a vent’anni, quando stravolta dal delirio di onnipotenza, dalla ricerca ossessiva dell’affermazione e dell’emancipazione a tutti i costi, ho abortito volontariamente.
Lui era un uomo molto più grande di me, nel quale evidentemente ricercavo la mia figura paterna, e quando ha saputo della gravidanza mi ha lasciata. Le mie amiche atee e cattive maestre mi hanno consigliato di andare in un consultorio ed io l’ho fatto. Ci sono andata e mi sono sentita dire: “Vuoi abortire? Sei sicura?”. Tutto qui. Questo è stato il colloquio dissuasivo previsto dalla legge 194. Io non sono contro la legge, ma se questa prevede che ci sia un colloquio dissuasivo almeno bisognerebbe farlo in maniera adeguata, cercando di ascoltare la donna e illustrando le conseguenze che ci saranno. Infatti io ho pagato care quelle conseguenze, che oggi benedico perché mi hanno permesso di trovare Dio.

Quali sono le conseguenze di cui parla?
La ferita che mi ero provocata urlava vendetta. Loro lo avevano chiamato un grumo di cellule, ma era una persona. Era mio figlio ed io mi ero trasformata nel suo assassino. Il post aborto è stato il mio vero e proprio calvario. Il mio percorso è stato duro e difficile. Era un male oscuro come un fantasma nel buio. Negli anni cercavo di convincermi che avevo fatto la cosa migliore. Odiavo tutti coloro che parlavano a favore della vita, Madre Teresa di Calcutta, san Giovanni Paolo II e pian piano la mia vita affondava sempre di più. Ho cominciato a soffrire di ansia, di anoressia, di bulimia. Ero ossessionata dalla paura di morire. Qualcuno in giro si ostina a voler negare la sindrome del post aborto, e dà la colpa alla Chiesa che avrebbe ingenerato nella società e nella donna il senso di colpa, l’idea del peccato. L’esperienza personale mi dice un’altra cosa. Mi sono trovata a parlare con amiche atee, decisamente non cattoliche, che in seguito ad aborti volontari hanno subìto gli stessi sintomi che avevo io. Il buio nel cuore, la paura, l’ansia, la depressione. È come chiudere un mostro in una cantina al buio: non riesci a vederlo, ma sai che c’è. Oggi sono madre, ma ho avuto, purtroppo, anche quattro aborti spontanei. Posso garantire che il dolore è grande. È un processo naturale che si interrompe.

Quand’è che è avvenuta la svolta?
Quando ho smesso di raccontarmi bugie. Quando ho smesso di convincermi che quella era l’unica cosa da fare e ho guardato negli occhi il mio peccato. L’incontro con Cristo è avvenuto per caso. Sono entrata in una chiesa e stavano facendo adorazione. Di fronte a quell’ostia consacrata ho avvertito un sussulto interiore e ho cominciato a piangere. Una sensazione di pace che non può essere spiegata, ma che auguro a tutti di provare. Era come se fossi stata attesa lì da sempre. Dio mi stava aspettando. Mi ero separata da lui, lo avevo rinnegato, eppure non si era mai stancato di cercarmi e di chiamarmi. Da quella sera il cammino è stata scandito da molte tappe, prima una Gmg, dal cui rumore assordante sono stata stordita, poi la catechesi, la Parola di Dio e soprattutto la Confessione, un sacramento dal quale non si può prescindere. Ho fatto tutte le catechesi senza mancarne neanche una. Ho cominciato ad andare a Messa tutte le domeniche e grazie a delle guide spirituali, santi sacerdoti, come don Fabio Rosini, passo dopo passo ho cominciato a seguire i sentieri tracciati da Cristo. Poi ci sono i presbiteri del cammino neocatecumenale, i fratelli della comunità, tutte luci sul sentiero che indicano la via e incoraggiano.

Il cinema, la televisione, sono da sempre teatro di compromessi e disvalori. Spesso molti programmi televisivi veicolano messaggi decisamente poco costruttivi. Come coniuga lei il lavoro nel mondo dello spettacolo con la fede in Gesù?
Penso che faccia tutto Gesù. Prego sempre che mi metta una mano sulla testa e che non mi metta di fronte a situazioni difficili. Grazie a Dio faccio l’attrice comica e per me è molto più semplice, non devo esporre il mio corpo. Non ci sono, in genere, scene particolari. Mi sento una privilegiata, perché la mia posizione è molto chiara. È diverso per me rispetto ad una ragazza giovane che può essere veicolo di altri contenuti.

Sabato prossimo sarà la Giornata conto la violenza sulle donne e proprio in questo tempo si parla ordinariamente di molestie nel mondo dello spettacolo e oltre, ma lei in un’intervista ha detto di non aver fatto il nome di un suo molestatore perché: “Vendicarsi non serve a niente”. Cosa è importante fare quindi per avere giustizia?
Quando è successo a me, ero giovane. Lui era un famosissimo attore-produttore ed io ho scelto di non fare il suo nome. A cosa sarebbe servito? O a cosa servirebbe farlo oggi? Significherebbe sollevare polemiche e clamore in un circo mediatico che tende ad infangare le persone! Il giudizio gratuito uccide. Spinge alla disperazione e talvolta anche al suicidio. Innanzitutto bisogna domandarsi perché una donna si trova in una condizione del genere? E se dice sì che cosa cambia nella sua vita? Talvolta ci sono relazioni di sudditanza, basate su una condizione di inferiorità, la stessa che a scuola non ti permette di alzare la mano e dire: “Non ho capito”. Una sensazione che ti fa tacere di fronte a un sopruso, che ti paralizza. Quindi qual è la cosa che aiuta la donna a dire di no? La consapevolezza di essere una persona, di avere una dignità, di essere stata riscattata dal sangue di Cristo. Il passo successivo è comprendere che è persona anche il carnefice. Mi ribello al circo mediatico che si costruisce intorno ad un caso di cronaca come quello di Fausto Brizzi ad esempio. Bisogna usare carità nei confronti della parte molestata ma anche del molestatore. Se una persona arriva a molestare qualcuno è perché non sta bene. C’è bisogno di aiutare a capire che ogni talento è un dono, e che va messo a servizio della persona e della società. Se continuiamo così non faremo altro che massacrare e distruggere. Qualcuno potrebbe non reggere questa specie di linciaggio mediatico. Dove vogliamo arrivare? Continueremo a fare trasmissioni, raccontando particolari scabrosi per cosa? Per fare audience? A cosa serve vendicarsi? Non è più importante offrire un’altra possibilità? Non sarebbe più giusto aiutare in questo caso Brizzi, ma anche altri, a ritrovare la propria vocazione come sposo e come padre? Ho avuto l’onore di lavorare con Salvatore Striano, che è stato in carcere e che oggi benedice quell’esperienza, perché toccando il fondo ha trovato la forza di ritrovare la verità. Io ho avuto una seconda possibilità e vorrei tanto darla ad altri. Abbiamo di fronte una persona che ha sbagliato, come ho sbagliato io. Nessuno mi ridarà indietro mio figlio. Ma sono stata perdonata e so che è anche per intercessione sua che oggi posso parlare. Ho avuto una possibilità per ricominciare e vorrei poterla offrire ad altri.

Un messaggio alle donne vittime di violenza…
Una relazione segnata dall’uso della violenza è malata. Non è la cornice ideale per una vita serena. Le donne devono rendersene conto e chiedere aiuto, anche per proteggere i propri figli. Ci sono tanti centri anti-violenza. Non possiamo farci uccidere, non è giusto. Il problema è quando una donna pensa che sia normale vivere così. La violenza non appartiene all’amore.




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