CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

“Il mio corpo non era pronto, ma era ora ormai, dovevo lasciare andare mia figlia”

11 Dicembre 2017

culla vuota, bambino

Una madre ricorda la perdita prematura della propria bambina: l’assenza del battito, il travaglio, poi il dolore del parto e alla fine la memoria di una sofferenza che non abbandona. Don Silvio le ricorda che: “Una madre non può dimenticare i figli perciò versa pure le tue lacrime. Altri figli forse verranno ma non potranno sostituire questa bambina”.

Carissimo padre,
è un po’ che non ricevo tue notizie, volevo scriverti prima ma avevo tante cose da sistemare, nel cuore. Circa un mese fa ho partorito e salutato la mia piccola Benedetta Zelia. Non ho avuto il tempo di capire cosa stesse accadendo, mi sono concentrata con tutta me stessa per affrontare quel dolore fisico e interiore. Ho avuto poche riflessioni, ma mi ha accompagnato il pensiero di non essere sola: prima del ricovero ho mandato messaggi a chi sapevo poteva aiutarmi nella preghiera e così è stato. Mi sono sentita come sospinta da un coro di voci, non avevo energie e facevo i passi con la forza dello Spirito.

Non ho avuto un aborto spontaneo. Ero andata al pronto soccorso con una banale motivazione, un’oscura sensazione di angoscia. Troppo poco per i medici. Ho avuto anche il timore che i sanitari potessero rifiutare di visitarmi, ho accentuato le motivazioni per ottenere la visita. Quando sono entrata, il dottore ha visto i miei occhi colmi di lacrime e mi ha fatto sdraiare sul lettino facendosi bastare il mio “sento che qualcosa non va”. Erano due notti che dormivo agitata, ero irrequieta e angosciata, non ho avuto perdite né dolori. Niente! Il dottore ha guardato nel monitor e subito dopo si è girato verso il mio viso, come a dire “questa signora se lo sentiva”. Gli ho solo chiesto se c’era battito, mi ha detto di no. Ho visto la mia piccola lì, rannicchiata e senza vita, nel mio grembo ancora tutto intatto, chiuso, “perfetto”. Non ho chiesto mai perché, né a Dio né ai medici. Era ovvio che le motivazioni non fossero note e probabilmente non le conosceremo mai. E così mi sono venute in mente le parole che ti scrissi annunciandoti la gravidanza, che io prestavo a Dio questo grembo per il tempo che Lui avrebbe voluto, un mese, due, tre… io dicevo il mio sì. Adesso dovevo solo rinnovarlo, nonostante fossi alla soglia del quinto mese, quando ormai, in assenza di problemi, ogni gestante si rilassa e vive serena la sua gravidanza.

Ho detto il mio sì su quel lettino, mentre mi inducevano il parto e i dolori incalzavano. Nella mia stanza avevo solo il silenzio e il ritmo delle contrazioni da ascoltare. Di fronte a me un crocifisso appeso, io guardavo Lui e Lui guardava me, in quelle 12 ore infinite di travaglio. Il mio utero rifiutava di aprirsi, il mio corpo non era pronto, non voleva collaborare. Ho pensato e ripensato, respirato, ogni tanto pianto, ma non potevo abbandonarmi al dolore. Ero stremata, allora ho iniziato a parlare a mia figlia, le ho detto che era ora di andare… dovevo lasciarla andare, lei avrebbe raggiunto il cielo, e intanto il suo fratellino, a casa, stava aspettando me e io dovevo tornare da lui.

Dopo queste parole so solo che ho partorito in cinque minuti. Ora lo so: il parto è questione di testa e cuore, non di utero. Tutta la resistenza che il mio cuore faceva ad accettare così repentinamente quel lutto si ripercuoteva sul mio corpo. Non scorderò mai il dolore di quella giornata. Ero dilaniata.

Se mi chiedi di un altro figlio non so cosa dire, nel cuore spero un giorno, ma nel corpo ho una repulsione. È presto mi dirai, e forse è così. Devo darmi tempo, me lo dico tutti i giorni, ma più che concentrarmi sul mio bambino e sul mio matrimonio, non so cos’altro fare. Ci sto dentro, sguazzo in questo dolore, e so che deve essere così, devo passare per questa strada.

Dio sia benedetto sempre, per tutti i doni, anche per questa sofferenza che, ne sono certa, porterà frutto. Forse non in questa vita. Non importa. Purché non sia vana. E sono certo che non lo sarà.

Come sempre io scrivo tanto, lo sai, ma spero tu abbia modo di leggere e pregare per questa tua figlia tra i tuoi molteplici impegni. Io prego per te e spero per te e il tuo operato ogni bene.

Un abbraccio, in Cristo.
Federica

 

 

Cara Federica,

leggo e rileggo le tue parole, è passato un mese ma tu … ne parli come se fosse successo ieri. Una madre non dimentica. Non può dimenticare i figli, neppure quelli che ha potuto vedere soltanto attraverso il monitor di uno studio medico. I figli appartengono alle tue viscere, sono carne della tua carne, pezzi del tuo cuore. Sono e rimarranno per sempre con te.

Nelle tue parole, sia pure con la compostezza della fede, mi pare di intravedere il pianto di Rachele: “Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più” (Mt 2,18). Con queste parole, tratte dall’antico profeta, l’evangelista commenta la strage degli innocenti. Tu piangi la morte precocissima della tua bambina. Nessuno può e deve impedire il tuo pianto. Altri figli forse verranno ma … non potranno sostituire questa bambina. Versa pure le tue lacrime. E pensa a quanti bambini non vedono la luce perché un’oscura e cieca ragione soffoca il respiro della vita. E pensa a tutti quei bambini che non trovano una famiglia che li accoglie e genitori che si prendono cura di loro. Quanti drammi nascosti, quante ferite mai rimarginate in questa società ipocrita che a parole esalta e difende i diritti di tutti ma calpesta proprio il diritto alla vita.

“Dio sia benedetto sempre, per tutti i doni, anche per questa sofferenza”. Hai proprio ragione. Oggi hai un bambino che rallegra i tuoi giorni e tre figli che sono già in Cielo, angeli della tua famiglia. Questi figli che non hanno mai visto la luce ora vivono nella Luce di Dio. La memoria di questi bambini è per te come il filo invisibile che lega Cielo e terra, questo tempo che corre carico di affanni e l’eternità che ci attende. È questo il primo frutto di quel dolore che ti ha visitato ed ha preso dimora nella tua vita. La memoria diventa speranza, alimenta il desiderio dell’eternità. Vivi questa vita a pieni polmoni, accogli ogni impegno con piena responsabilità, tuo marito e tuo figlio hanno bisogno di una sposa e di una mamma full time, pienamente immersa in questa vita. Ma tu sai che un pezzo del tuo cuore è già entrato nella Città Santa abitata da Dio e avvolta nella gioia dei Beati. Il dolore vissuto diventa così un immeritato privilegio.

Scrivo queste cose mentre ci apprestiamo a celebrare il Natale. Le luci della festa purtroppo abbagliano e offuscano il senso profondo di questo appuntamento: i cristiani celebrano la nascita di quel Bambino che veste di infinita dignità la vita di ogni uomo. Non importa quali sono le sue capacità e le sue opere. E neppure quanti anni o giorni potrà vivere. Celebra il Natale con la certezza che la tua Benedetta Zelia non è scomparsa nel nulla ma ha continuato la sua corsa ed ha raggiunto speditamente la meta desiderata. Un giorno la incontrerai. Avrete tante cose da dire … Custodisci e annuncia questa speranza. Ti abbraccio con affetto.

Don Silvio




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3 risposte su ““Il mio corpo non era pronto, ma era ora ormai, dovevo lasciare andare mia figlia””

Grazie Madre per questa testimonianza. Che forza! Che fede! Che amore! Strano che non accenni per nulla ai funerali. Con immensa stima. Roberto

Che angoscia mamma mia, Io anche Ho un bambino vivo ma ne ho persi 3 con aborti spontanei …erano una gravidanza singola e una gemellare e ora aspetto di nuovo un bambino e sono quasi al sesto mese… e ho il terrore ogni volta che vado in visita… sono tanto vicina a questa signora Spero che il suo cuore riesca a superare questa sofferenza, di non doverla provare io in caso di problemi di trovare la forza di affrontarli

Cara Federica,hai detto una cosa che mi ha molto toccato il cuore. Lasciare andare un figlio non è mai facile neanche quando sono adulti per noi mamme…ma è l’unico mezzo per far il loro bene…

“Ero stremata, allora ho iniziato a parlare a mia figlia, le ho detto che era ora di andare… dovevo lasciarla andare, lei avrebbe raggiunto il cielo, e intanto il suo fratellino, a casa, stava aspettando me e io dovevo tornare da lui”

Benedetta Zelia è andata quando tu hai capito e deciso che potesse andare.Segno che lei era già accanto a te e voleva il consenso per volare verso il cielo e tu verso il figlio che ti aspettava a casa.

È partita con un pezzo del tuo cuore e credimi,basta fare solo un po’di attenzione perché lei sulle ali del pezzo del tuo cuore tornerà molte volte per starti accanto più dei figli che tu pensi di avere vicino.

Ti abbraccio con affetto

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