Natale

Fama, successo o “splendore di Dio”: quale gloria cerchiamo nel Natale?

Natale

di Gianni Mussini

“Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Così cantano gli angeli nel presepe dove il piccolo Gesù giace in una culletta rudimentale. Ma quale significato ha assunto la parola “gloria” per l’uomo? E, soprattutto, qual è la vera gloria?

Qual è il tema centrale del Cinque Maggio? Se facessimo un sondaggio, scommetto che la maggioranza risponderebbe: la morte di Napoleone, l’uomo grande e controverso dinanzi a cui si inchinarono “due secoli, / l’un contro l’altro armati”, cioè il Settecento illuministico e l’Ottocento romantico. Risposta sensata. Se però, come insegnava proprio Manzoni, ci “pensiamo su” un po’ più a lungo, forse la risposta cambia.

Ma andiamo con ordine. All’inizio di questa ode che nella sua “veloce bellezza” (così Cesare Angelini) sedusse un campione della letteratura europea come Wolfgang Goethe, troviamo la domanda: “Fu vera gloria? – con la conseguente risposta – Ai posteri l’ardua sentenza”: due battute diventate meritatamente proverbiali. Si parla della gloria dell’eroe capace di dominare il mondo quasi a passo di marcia trionfale (“dall’Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno”) grazie al suo genio militare e alla formidabile rapidità con cui realizzava le proprie decisioni (“di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno”). Non per nulla tutta la poesia è costellata di termini che alludono a questa esplosiva rapidità: folgorante, subito, scoppiò, rai fulminei, lampo, onda, celere, ecc. Rapidità ben sostenuta dal ritmo dei versi e dalla frequenza di parole sdrucciole (immobile, immemore…), oltre che dalle tronche che chiudono ogni strofa (staverrà), e alla quale corrisponde l’ozio senza scoppi e bagliori dell’esilio di Sant’Elena, dove le giornate scorrono nella stanchezza e nell’inerzia: atroce condanna per un uomo d’azione.

Facendo poi il computo dei termini più usati nel Cinque Maggio, vediamo che gloria – dopo il passo citato sopra – ricorre altre due volte. La prima nella strofa meritatamente famosa in cui si dice di Napoleone che “tutto ei provò: la gloria / maggior dopo il periglio, / la fuga e la vittoria, / la reggia e il tristo esiglio / due volte nella polvere, / due volte sull’altar”. Versi magnifici e magnificamente ‘democratici’, se è vero che il loro linguaggio si comprende al volo senza bisogno di sofisticate esegesi (e sì che c’è ancora qualcuno che ritiene il Manzoni lirico troppo aulico e difficile!). Coerentemente con l’assunto, questo sfolgorante condottiero raggiunge “un premio / ch’era follia sperar”, ovvero il dominio di buona parte del mondo; e si noti che premio appartiene allo stesso ambito di gloria: è il frutto del successo procurato dalla fama. Poi verso la fine dell’ode, il poeta ci presenta un Napoleone che, vicino alla morte, si converte per raggiungere un premio ben più duraturo, che supera ogni desiderio umano: il paradiso cristiano “dov’è silenzio e tenebre / la gloria che passò”. Eccola dunque di nuovo la gloria, ma stavolta mutata di segno: non più quella eroica dell’uomo che vuole essere superiore agli altri, ma quella celeste in cui il frastuono terreno e lo sciocco affannarsi dietro effimeri onori non è altro che “silenzio e tenebre”. Parole belle e terribili che poderosamente ci riportano alla serietà dell’impegno cristiano cui chiama il poeta. Il quale subito dopo conclude che nessuna altezza “più superba” di Napoleone si è mai inchinata al “disonor del Golgota”: è la pena più infamante, la Croce, a dettare la scala di valori da seguire. Ecco dunque il vero cuore del Cinque Maggio, di cui la pur avvincente epopea napoleonica è rappresentazione quasi ‘teatrale’.

In tante altre occasioni lo stesso Manzoni ha polemizzato duramente contro i disvalori mondani della gloria e dell’onore (eticamente quasi sinonimi). Per esempio quando nei Promessi sposi denuncia il “punto d’onore” in nome del quale la famiglia del Conte Zio assume le difese del prepotente don Rodrigo. O nell’episodio della Monaca di Monza, costretta a prendere il velo per preservare intatto il patrimonio familiare destinato al fratello primogenito. O in quello del padre di Lodovico (il futuro Fra Cristoforo) che si vergogna di essere stato un mercante, poiché per i signori veri il lavoro è disonorevole… Si potrebbe continuare, ma con queste mie note spero di suscitare una rilettura del romanzo manzoniano anche in tale prospettiva.

Ci sarebbe poi una lettera, tanto straordinaria quanto misconosciuta, con cui l’autore dei Promessi sposi rispose a Marco Coen, giovane poeta veneziano che, tormentato dal desiderio di uscire dall’oscurità, gli aveva chiesto aiuto per realizzare la propria brama di gloria: “Crede Ella forse – gli risponde Manzoni – che l’ottener questa fama porrebbe fine al tormento? No, Signor mio. Al pari di tutti gli altri sentimenti, che mirano a un godimento e non ad una perfezione, lo sdegno dell’oscurità è tutt’altro che nobile”, come del resto – aggiunge Manzoni – “tutti i sentimenti nei quali l’uomo si propone per fine una sua soddisfazione, e non 1’ adempimento di un dovere”. Di qui l’invito a considerare l’arte come un impegno per promuovere verità e giustizia a beneficio del prossimo.

 

Non sorprende che sulla stessa lunghezza d’onda di Manzoni siano altri grandi poeti cristiani, come il duecentesco Jacopone da Todi, che contrappone agli onori del mondo la logica ‘folle’ del Vangelo vissuto nella sua integralità. E soprattutto come Dante, che affronta ripetutamente questo tema: per esempio nel canto XI del Purgatorio, dove lo squisito miniatore Oderisi da Gubbio confessa la propria inferiorità rispetto ad altri artisti che lo hanno sopravanzato. Di qui una riflessione sulla “vana gloria” di tutte le intraprese umane: nella pittura l’eccelso Cimabue ha dovuto cedere il primato a Giotto, mentre in poesia i due Guidi (Guinizzelli e Cavalcanti) sono stati superati dallo stesso Dante. La conclusione è che la fama, il “mondan romore”, non è altro che un “fiato di vento” destinato a confluire nell’eternità amante di Dio, nella sua vera e unica gloria. Si potrebbe ricorrere a innumerevoli altri esempi e altre citazioni, anche aprendosi alle grandi letterature straniere (a tacere dei classici greco-latini), ma mi pare opportuno lasciare la parola conclusiva al grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, autore di una monumentale rivisitazione del tema nei volumi che prendono appunto il titolo complessivo di Gloria, costituendo una vera e propria Estetica teologica (come recita il sottotitolo).

 

Per Balthasar, Dio non viene a noi prima di tutto come maestro o redentore, ma viene per mostrare e irradiare Se stesso nella gloria del suo eterno amore trinitario. Un amore che ha quel carattere di “disinteresse” che il vero amore ha in comune con la vera bellezza. Il mondo è stato creato a gloria di Dio, ed è per mezzo e nella prospettiva di questa sua gloria che viene redento. Sulla stessa linea Benedetto XVI, che nel 2006 in un messaggio natalizio volle ricordare proprio questo spunto del teologo svizzero, secondo cui Dio “non è, in primo luogo, potenza assoluta, ma amore assoluto la cui sovranità non si manifesta nel tenere per sé ciò che gli appartiene, ma nel suo abbandono”, dunque “il Dio che contempliamo nel presepe è Dio-Amore”.

 

È questo il senso del tripudio degli angeli che, nell’aria non più vuota del presepe, fanno strepitare le ali cantando “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Non quadretto idillico di intimità piccolo-borghese ma, continua papa Ratzinger, percezione di una gloria che “indica lo splendore di Dio” suscitando “la riconoscente lode delle creature”. Dice infatti san Paolo che essa è “la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo”. Con la gloria, c’è anche la pace, espressione piena di quella salvezza che viene da Cristo (“Egli infatti è nostra pace”, dice ancora san Paolo). Infine la “buona volontà”, che indica il “buon volere” del Signore verso di noi poiché, come conclude Benedetto XVI, il messaggio di Natale è che “con la nascita di Gesù, Dio ha manifestato il suo buon volere verso tutti”




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