Santa Famiglia - Anno B - 31 dicembre 2017

Essere segno di Dio nella vita dei figli

di fra Vincenzo Ippolito

Maria e Giuseppe comprendono che sono genitori e aiuteranno il loro Bambino a crescere secondo Dio solo se lo affideranno consapevolmente al Signore perché sia Lui a guidarlo e a fargli comprendere il suo volere. Questo, però, non li deresponsabilizza come genitori, anzi li porta ad essere guide sagge di Gesù infante, sapendo che essi sono il segno di una custodia più grande.

Dal Vangelo secondo Luca 2,22-40
Il bambino cresceva, pieno di sapienza.
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino (Gesù) a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 

La liturgia del tempo di Natale ci conduce per gradi ad approfondire il mistero della nascita del Salvatore. I giorni che seguono il Natale del Signore, infatti, ci donano di meglio comprendere il mistero dell’Incarnazione. Seguendo la liturgia, infatti, il nostro cammino è ritmato da un continuo approfondimento del mistero: Dio si fa uomo (Natale del Signore – 25 dicembre), grazie al Si di Maria che è la vera Madre di Dio (Solennità della Santa Madre di Dio – 1 gennaio), in una famiglia che è il contesto naturale in cui ogni vita è accolta e si sviluppa (festa della santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe). La liturgia ci dona di contemplare nella casa di Nazaret l’unione santa di Maria e Giuseppe che ha in Gesù Cristo il suo fulcro e la sua forza. Guardando oggi alla santa Famiglia, chiediamo con perseveranza la grazia di Dio, la presenza di Cristo, il vincolo dello Spirito-amore per vivere la sfida del dialogo costruttivo nei rapporti, l’avventura dell’unità nella relazione di coppia e la grazia della comunione tra noi.

Nel cuore pulsante di un popolo credente

La pagina evangelica che la liturgia ci offre oggi è tratta dai racconti dell’infanzia del Vangelo secondo Luca. Dopo le narrazioni della nascita (cf. Lc 2,1-7), della visita dei pastori (cf. Lc 2,8-14) e della circoncisione (cf. Lc 2,21), l’Evangelista presenta uno dei quadri più belli della fede della santa Famiglia e della volontà risoluta di Maria e Giuseppe di camminare nella volontà di Dio, educando il loro Piccolo secondo la legge dei padri. Nel brano evangelico è facilmente ravvisabile un’introduzione (vv. 22-24), le figure di Simeone ed Anna che profetizzano del Bambino (vv. 25-35. 36-38) e la conclusione (vv. 39-40) che getta uno sprazzo di luce sulla vita nascosta a Nazaret.

Siamo soliti indicare il brano di Lc 2,22-40 come la presentazione di Gesù al tempio e sembra essere questa la vera chiave di lettura che lo stesso autore vuole offrire dell’evento che sta narrando. Difatti, leggendo il brano, si resta alquanto spaesati perché in esso sembrano convergere tradizioni diverse. Si menziona, infatti, il rito della purificazione, che riguarda la madre del bambino (cf. Lv 12,1-8), insieme alla presentazione del primogenito, che comportava anche il riscatto del fanciullo (cf. Es 13,2. 11ss). L’evangelista Luca, ricordando questi momenti importanti per ogni famiglia ebrea, più che soffermare l’attenzione del lettore sui singoli riti che la Legge prescriveva, vuol mostrare – già lo aveva fatto con Zaccaria ed Elisabetta (cf. Lc 1,6) – come Maria e Giuseppe camminano irreprensibili davanti a Dio, secondo quanto l’Antico Testamento stabiliva. In questa luce si comprende anche il loro pellegrinaggio annuale per la festa di Pasqua (cf. Lc 2,41). Maria e Giuseppe vivono profondamente innestati nel credo del popolo eletto e la fede dei padri, l’esperienza dell’alleanza, le promesse dei patriarchi, le benedizioni d’Israele rappresentano l’orizzonte nel quale la loro vita coniugale e familiare cresce e si consolida, il terreno fecondo dove Gesù impara a vivere la relazione con Dio e l’appartenenza al suo popolo. Maria e Giuseppe sentono di essere parte del popolo eletto, di una nazione santa, si relazionano con Dio che si rivelò ad Abramo, Isacco e Giacobbe e che donò ai suoi schiavi in Egitto la liberazione e la terra promessa come eredità per sempre. Per loro, come per ogni pio israelita, la legge non è un codice di comportamento formale, ma il segno di un amore sponsale con il Creatore. Vivere nella giustizia e camminare nella volontà di Dio significa lasciare che la parola della Scrittura plasmi la vita ed orienti le scelte concrete del vivere e dell’agire. Essere genitori del Figlio di Dio fatto uomo non porta i due Giovani a sentirsi superiori agli altri e a misconoscere le pratiche rituali della tradizione d’Israele, ma a viverle con una maggiore consapevolezza, con una responsabilità ancor più profonda. Lo stesso Gesù viene educato nell’osservanza della legge di Mosè che Egli dimostrerà di conoscere nella sua predicazione – pur non fermandosi ad essa, ma svelandone il compimento nella sua Persona – in totale solidarietà con il popolo palestinese dal quale Egli viene secondo la carne.

È un dato imprescindibile: educare significa donare all’altro ciò in cui si crede e quanto si vive ed è questo che i genitori di Gesù fanno. Rispettano le leggi romane – si pensi al censimento, cf. Lc 2,4 – ma, allo stesso tempo, fanno della fede ebraica il nerbo della loro relazione familiare, delle scelte e dei tempi del loro vivere. Dio non è marginale, ma rappresenta il cuore della famiglia di Nazaret, la divina volontà la meta a cui giungere con l’offerta della propria docilità. Gesù viene condotto a conoscere Dio come Padre, nella dimensione umana assunta nel grembo della Vergine Madre, da due colossi di docilità, quali i suoi Genitori sono. Il Fanciullo respira in casa il profumo del Fiat di Maria sua Madre, ascolta il suo silenzio, contempla il serbare nel cuore suo la parola del Signore, guarda gli occhi della Madre che lo scrutano e lo ammirano, il suo stupore nel vedere che proprio a lei, tra tutte le donne, era stata data in sorte, la grazia di condividere con Dio il suo Figlio unigenito. Gesù ha potuto riconoscere nel legno lavorato dalle mani del suo Giuseppe la vita del suo padre legale, lavorato dallo Spirito, plasmata dalla sua mano, piegata alla volontà dal divino Cesellatore.

Se la fede d’Israele e d il ritmo della liturgia del tempio a Gerusalemme sono le radici solide che portano la pianta della santa Famiglia a produrre frutti abbondanti di grazia, sviluppando la forza di Dio nelle diverse situazioni della vita, la vita parrocchiale, il vissuto di fede dei nostri movimenti, la vita liturgica della nostra comunità, gli appuntamenti fissi vissuti in famiglia – preghiera quotidiana, lettura della Parola del Vangelo della domenica, preparazione ai sacramenti, per fare solo alcuni esempi – rappresentano importanti momenti di crescita nella fede, rispondendo a Dio che ci vuole suoi collaboratori nel conoscere la salvezza che è il suo Figlio Gesù Cristo. Dobbiamo sentire forte il senso di appartenenza alla nostra realtà ecclesiale – parrocchia, gruppo, movimento – non considerandola una cerchia chiusa, ma lavorando perché tra le varie realtà presenti ci sia quella giusta e necessaria complementarietà che è il segno dell’azione dello Spirito tra noi. Com’è importante il sentirsi parte della grande famiglia della Chiesa, vivere un amore filiale per il Papa e accogliere il Magistero suo e dei Vescovi, sentirsi da loro custoditi nella fede e con loro rendere bello e raggiante il volto della Sposa di Cristo nella storia, credibile la sua testimonianza, incisivo il servizio di carità verso i poveri. I nostri figli devono sentire la nostra apparenza alla Chiesa – il sentire cum ecclesia, il sentire con la Chiesa – avvertire che siamo stati generati suoi figli nel battesimo e che in essa cresciamo nella fede, diveniamo ardenti si speranza, infiammati della carità che lo Spirito riversa nei nostri cuori per la trasformazione della vita degli uomini del nostro tempo. Il popolo d’Israele sa che è depositario di una parola salvifica per tutte le gente, così noi dobbiamo sapere che Cristo non è solo per noi, ma per tutti gli uomini.

Nell’offerta il vero significato di ciò che accade

Se non c’è una legge che Luca richiami in modo univoco per giustificare la presenza della santa Famiglia a Gerusalemme – abbiamo visto che ci muoviamo tra rito della purificazione e riscatto del primogenito – è perché vuole che l’attenzione si fermi su un altro elemento per lui prioritario. Difatti, l’orizzonte dell’evento del tempio è la consacrazione del piccolo Samuele (cf. 1Sam 1,24-27), la sua offerta per le mani della madre Anna è lo sfondo veterotestamentario della pagina evangelica odierna. Lo stesso Evangelista scrive “[Maria e Giuseppe] portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore” (v. 22). Si tratta di un momento chiave della vita del Signore. Maria e Giuseppe non trattengono per sé il Dono che hanno ricevuto da Dio, non considerano quel Bambino loro proprietà, ma, presentandolo al tempio, è come se lo restituissero al Signore, riconoscendolo segno della sua grazia e della sua tenerezza per loro. Gesù Bambino che viene nel mondo per fare la volontà di Dio, trova che i suoi Genitori condividono con Lui l’intenzione di vivere totalmente protesi a realizzare la medesima sua intenzione e così la presentazione manifesta la volontà di essere votati alla gloria di Dio e l’offerta di se stessi il senso recondito che sostiene ogni loro gesto. In tal modo, non sono le prescrizioni della legge che determinano il rito al quale Maria e Giuseppe si assoggettano – sembra dire l’Evangelista – ma la volontà di riconoscere in quel Bambino che essi presentano il Dio con noi, venuto nel mondo ad offrire la sua vita per la salvezza degli uomini.
C’è sintonia tra Luca e l’autore della Lettera agli Ebrei che, immaginando la volontà che ha spinto il Verbo ad incarnarsi, così scrive: «entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). La volontà di Cristo di offrire se stesso per la salvezza degli uomini viene dall’evangelista Luca espressa con il gesto della presentazione al tempio che Maria e Giuseppe compiono. In tal modo c’è una significativa sinergia nella santa Famiglia, perché tutti, a proprio modo, vivono nella volontà di Dio e sono disposti a mettere la propria esistenza al servizio del piano del Padre. Così Maria con il suo Fiat e Giuseppe con il suo silenzio obbediente non solo prepararono la strada al Salvatore che viene, ma vivono lo stesso suo desiderio di offerta e di consacrazione della propria vita al Signore. In tal modo, il gesto dei giovani Genitori è il segno che la loro vita, come anche la vita del loro Figlio, è totalmente dedita alla causa di Dio. Essi manifestano la loro volontà di riconsegnare a Dio il suo Figlio e, al tempo stesso, di custodire in Lui la sua volontà. Essi sanno che devono aiutarlo a crescere nel piacere in tutto al Padre, senza permettere che gli uomini determino le sue scelte.

Maria e Giuseppe entrano a pieno titolo in questa linea che scandirà la vita di Gesù, nel segno dell’offerta si pongono essi stessi, lasciando che quel Bambino appartenga al Signore perché è il Figlio unigenito di Dio. Il tempio è la sua casa, il Padre la sua eredità, la volontà di Dio il suo cibo. Agiscono essi per Lui, segno della comunità familiare che è chiamata ad unirsi all’offerta di Cristo e di porre la propria vita nelle mani del Padre. Associarsi all’offerta di Gesù al Padre, sapendo che questa è la sorgente della salvezza per i fratelli: è questa la verità che Maria e Giuseppe vivono, unendosi a Gesù. Non si tirano indietro nel loro gesto di offerta, né compiono un solo rito formale, senza che ci sia una profonda partecipazione da parte loro. Si uniscono a Gesù, in suo nome lo presentano al tempio, confessano il loro riconoscere il dono ricevuto, manifestano l’intenzione di vivere nella dinamica del dono concesso. È quanto scrive anche il beato Paolo VI nell’esortazione apostolica Marialis Cultus per il culto della Beata Vergine Maria (2 febbraio 1974): “Maria è, infine, la Vergine offerente Nell’episodio della presentazione di Gesù al tempio (cfr Lc 2,22- 35), la Chiesa, guidata dallo Spirito, ha scorto, al di là dell’adempimento delle leggi riguardanti l’oblazione del primogenito (cfr Es 13,11-16) e la purificazione della madre (cfr Lv 12,6-8), un mistero salvifico, relativo appunto alla storia della salvezza: ha rilevato, cioè, la continuità dell’offerta fondamentale che il Verbo incarnato fece al Padre, entrando nel mondo (cfr Eb 10,5-7); ha visto proclamata l’universalità della salvezza poiché Simeone, salutando nel Bambino la luce per illuminare le genti e la gloria di Israele (cfr Lc 2,32), riconosceva in lui il Messia, il Salvatore di tutti; ha inteso il riferimento profetico alla Passione di Cristo: che le parole di Simeone, le quali congiungevano in un unico vaticinio il Figlio segno di contraddizione (Lc 2,34) e la Madre, a cui la spada avrebbe trafitto l’anima (cfr Lc 2,35), si avverarono sul Calvario. Mistero di salvezza, dunque, che nei suoi vari aspetti orienta l’episodio della presentazione al tempio verso l’evento salvifico della croce. Ma la Chiesa stessa, soprattutto a partire dai secoli del medioevo, ha intuito nel cuore della Vergine, che porta il Figlio a Gerusalemme per presentarlo al Signore (cfr Lc 2,22), una volontà oblativa, che superava il senso ordinario del rito. Di tale intuizione abbiamo testimonianza nell’affettuosa apostrofe di san Bernardo: Offri il tuo Figlio, o Vergine santa, e presenta al Signore il frutto benedetto del tuo seno. Offri per la riconciliazione di noi tutti la vittima santa, a Dio gradita” (Marialis Cultus 20).

Nella vita di fede è fondamentale la dimensione dell’offerta e del dono, della restituzione e della consegna per amore. Scrive, infatti, san Paolo: “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). La nostra è una vita consegnata per amore, pur se non abbiamo piena coscienza di cosa questo comporti per ciascuno di noi. Vita offerta per amore è l’esistenza di un uomo alla sua donna e della sposa al suo sposo, mentre nella circolarità del dono ciascuno si ritrova nella nuova identità che il dono ricevuto ed offerto scandisce; vita consegnata a Dio per la salvezza degli uomini è l’esistenza di un presbitero che, assecondando la grazia dello Spirito e unendosi sempre più intimamente al Cuore del Signore, vive il dono incondizionato di sé per rendere presente nella Chiesa il dono nuziale di Cristo ai fratelli; corpo consegnato e bruciato sull’altare del mondo come un olocausto è la vita dei consacrati che, vivendo la dinamica della totale espropriazione, si donano nelle molteplici attività della missione perché i fratelli vivano della vita stessa che essi offrono, bruciati con Cristo, nel roveto ardente della carità dello Spirito. Una vita se non è offerta, perde di senso, perché soggetta alla logica dell’egoismo, mentre un amore che prende, senza nessuna costrizione, la strada del dono è autentico e vero. Amare, infatti, significa vivere senza nulla trattenere per sé e l’offerta è insita nell’amore stesso che voglia vivere la povertà e la gioia del dono. Maria e Giuseppe comprendono che sono genitori e aiuteranno il loro Bambino a crescere secondo Dio solo se lo affideranno consapevolmente al Signore perché sia Lui a guidarlo e a fargli comprendere il suo volere. Questo, però, non li deresponsabilizza come genitori, anzi li porta ad essere guide sagge di Gesù infante, sapendo che essi sono il segno di una custodia più grande. Essere segno di Dio nella vita dei propri figli è questo il senso dell’essere genitori ed educatori, per questo l’offerta ed il dono risultano essenziali. Colui che è stato generato dal mio amore tradotto nella mia carne non mi appartiene, sono un umile servo della vita di Dio, un collaboratore importante, ma pur sempre un ministro di un dono che mi supera e mi trascende.

Il dono dell’anzianità

Nel tempio, i due giovani Genitori sembrano delle persone come tante, venute a lodare e pregare il Signore per il dono di quel Bambino che essi presentano a Dio. Nessuno si accorge della straordinarietà della loro presenza e del Fanciullo che essi condividono con Dio. Ad accoglierli ci sono Simeone ed Anna, due anziani che abitano nel tempio e scandiscono la loro attesa del Messia con la lode e nella preghiera continua. Essi rappresentano l’Israele fedele che, sotto la guida dello Spirito, aspettano la consolazione e la salvezza che viene da Dio. Bella la figura di questo vegliardo, la sua docilità allo Spirito di Dio che gli parla e lo istruisce interiormente – l’Evangelista per ben tre volte (vv. 25.26.27) sottolineerà la signoria dello Spirito nella vita di Simeone – la sua frequentazione del tempio, luogo della rivelazione di Dio, casa di preghiera e di incontro, dove le promesse si compiono e la salvezza è donata a tutti i popoli. Uno dei particolari più delicati del testo è che Simeone “lo accolse tra le braccia e benedisse Dio” (v. 28). Si tratta dello scambio tra generazioni, il Giovane ed il vecchio si incontrano, Simeone comprende le istanze che il Bambino porta, in Lui vede realizzate le attese di salvezza e di redenzione del suo cuore. Non c’è frattura tra loro, ma complementarietà, non opposizione, ma gioia nell’incontro, non rottura tra antica e nuova alleanza.
La novità del Vangelo, infatti, è ben radicata nell’Antico Testamento e le braccia di Simeone lo mostrano plasticamente, perché sono l’alveo dello sviluppo dell’annuncio di Cristo. La profezia dell’anziano illumina il presente della giovane Famiglia di Nazaret e apre al futuro l’offerta che essi stanno facendo del loro Bambino. Simeone, infatti, non solo comprende che sono giunti i giorni della consolazione e Dio ha visitato il suo popolo, ma avverte di essere chiamato a dare testimonianza della sua attesa giunta al compimento ed il suo canto mostra la sua capacità di leggere la storia con gli occhi di Dio.

In Simeone ed Anna scorgiamo la vocazione che Dio affida ai nostri anziani – anche noi lo diventeremo, il mito dell’eterna giovinezza non esiste, se non nel cuore che può rimanere sempre giovane, a patto di vivere con Cristo una profonda relazione di amicizia – una chiamata ad essere segno della fedeltà di Dio alle sue promesse e memoria vivente della sua misericordia. Le persone avanti negli anni hanno un bagaglio di esperienze che non può andare perduto. La loro vita è un potenziale per le nuove generazioni, ma spesso non siamo capaci di metterci in ascolto perché portati dal ritmo frenetico della nostra vita che ci impedisce di avere tempo per costruire ponti tra le generazioni. I nostri piccoli, invece, non solo si trovano bene con i nonni, ma parlano il loro stesso linguaggio della serenità e della pacatezza. Lo scorrere degli anni ha reso i nostri anziani pazienti e gli ardori giovanili, le battaglie intraprese in nome di chissà quale grande ideale, sopite con il tempo, li hanno resi contemplatori realisti di una storia che si costruisce con la determinazione e la calma. Portatori di valori e di esperienze, la loro parola è frutto di una storia che ha sempre qualcosa da insegnare, soprattutto quando è illuminata da una robusta vita di fede. Simeone ed Anna sono persone che conoscono l’essenzialità della vita, che hanno affinato il cuore e la mente in una storia non semplice – Anna è una vedova ottantaquattrenne, senza figli – abitata dalla certezza della presenza di Dio, sorretta dalla sua mano onnipotente. La profezia appartiene a loro perché consumati dalla frequentazione continua del tempio. Il loro tempo non è inutile attesa di una morte che tarda a venire, ozioso passatempo per ingannarsi in attività che non hanno nulla di utile. Non dobbiamo credere che la vita valga per quello che produce – questo è il criterio del consumismo disumanizzante, non della fede che illumina gli anni e li conta con le dita di Dio – perché la vita è un valore in sé, da custodire. Simeone ci ricorda che un’esistenza vissuta nella preghiera e sotto la guida dello Spirito del Signore è ben spesa per il Regno di Dio. Maria e Giuseppe si mettono in ascolto di Simeone ed Anna e non credono che la loro parola sia fuori posto, inutile per le loro giovani vite. Tutt’altro! Si tratta di voci profetiche che indicano il cammino che li attende e che mostrano come Gesù sia la luce capace di rischiarare il buio delle tenebre di ogni uomo. Parole di luce quelle di Simeone che indicano la via, la strada della giustizia e della gioia. Strano che proprio un uomo avanti negli anni debba donare a Maria e Giuseppe la traiettoria che la loro vita deve prendere dietro a quel Bambino che essi portano al tempio.
È significativo poi vedere che Simeone non solo si rivolge a loro in quanto genitori, ma ha una parola anche per Maria. Difatti, nel Cantico di Simeone – solitamente indicato come Nunc dimittis, dalle prime parole della versione latina (Ora lascia) – Maria trova quella luce capace di illuminare la sua vita e orientare il suo futuro nella volontà di Dio. La parola di un anziano, sotto la guida dello Spirito Santo, aiuta la Giovane di Nazaret ad aprirsi all’orizzonte sempre più grande della volontà di Dio, a capire che solo nell’offerta la sua vita ha un senso e che deve in tutto unirsi alla dinamica interiore che sosterrà la vita del suo Figlio: essere luce, consumandosi sul lucerniere della croce per dare chiarore di amore a coloro che sono nella casa. Maria deve unire sempre più il suo Eccomi a quello di Cristo, anche se questo comporta il dolore e la sofferenza che trova nella salvezza e nella gioia degli uomini. Simeone dona a Maria il senso del suo soffrire, come solo un anziano, abituato ai vari dolori di una lunga vita, può fare. In tal modo Maria vive l’umiltà di lasciarsi aiutare dall’angelo nell’annunciazione, da Elisabetta nella visitazione, dai pastori nel loro adorare il Bambino, come ora dal santo vecchio Simeone. Lei accoglie le tessere che le vengono offerte dai tanti che hanno relazione con il Fanciullo che il Signore le ha dato di concepire e partorire e così può lasciare che il mosaico della sua storia gradualmente si arricchisca e divenga sempre più chiaro e comprensibile. Tutti possono donarci quella parola che aiuta il cammino del nostro discernimento e ci conduce a meglio accogliere la volontà che il Signore ci chiede di costruire per la salvezza del mondo.

Dobbiamo imparare dalla santa Famiglia l’ascolto di chi ci ha preceduto, l’attenzione per i loro bisogni, la delicatezza per la lentezza che scandisce la loro canizie. È vero, spesso non è semplice vivere la pazienza e l’attenzione, ma la testimonianza della loro vita vissuta e consegnata per amore è una testimonianza eloquente per la nostra vita, come anche per la vita delle nostre comunità. I loro occhi sono profetici perché, abituati a scorgere la storia e a vedere come il Signore sa volgere in bene ogni situazione, possono dirci come la pazienza e la calma ci conducano ad essere costruttori di un futuro migliore e quanto sia importante la capacità di sapere attendere, nella speranza, i tempi di Dio, la sua rivelazione, la sua luce che tutto rischiara di senso nuovo. L’anzianità è un dono da saper accogliere e da attendere, se il Signore lo vorrà concedere anche a noi. È il tempo nel quale si racconta la vita perché i giovani imparino a guardare il futuro con occhi limpidi da pregiudizi. I giovani hanno la vista corta, consumati dal volere tutto e subito, hanno bisogno di chi gli ricordi che la calma e la pazienza sono le doti richieste a chi voglia costruire con solidità la sua vita sulla roccia che è Cristo. Abbiamo bisogno, come la Famiglia di Nazaret, di parole di luce sia a livello personale, come anche di coppia e di famiglia, abbiamo bisogno di persone esperte che ci consiglino sulle strade da prendere, che ci aprano gli occhi sulle difficoltà che potremo incontrare. Abbiamo bisogno del sorriso di chi conosce per esperienza la vita e che può insegnarci la pazienza che serve ad attendere la presenza e l’azione di Dio in mezzo a noi.

Una vita scandita dallo stupore

Leggere il brano della presentazione di Gesù al tempio (cf. Lc 2,21-40) nella festa della santa Famiglia significa ripensare a ciò che deve scandire la nostra vita: l’offerta ed il dono di se stessi, l’accoglienza dell’esperienza di coloro che ci hanno preceduto, l’umiltà dell’ascolto e la capacità di aprirsi al futuro il cui significato verrà gradualmente rivelato da Dio nella nostra storia quotidiana. Maria e Giuseppe vivono di meraviglia e di stupore, sanno di non sapere tutto, ma accolgono di vivere nel mistero e di lascarsi portare da Dio. È questo che anche noi dobbiamo imparare, permettendo allo Spirito di guidare i nostri passi e di spingerci interiormente a riconoscere la presenza di Cristo nella vita di oggi per metterci al servizio dell’azione silenziosa, ma potente di Dio nella storia del mondo.




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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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