II Domenica del tempo ordinario - Anno B - 14 gennaio 2018

Voltarsi, vedere e parlare: i tre verbi di una relazione matura

coppia, relazione

foto: @di pink panda- Shutterstock.com

di fra Vincenzo Ippolito

Quante volte parliamo, senza vedere e senza renderci conto di ciò che l’altro sta facendo? Il nostro voltarci per vedere l’altro conduce sempre a saper intervenire con amore e determinazione perché la persona che mi è accanto sappia guardarsi in profondità, rendendosi conto del mistero della sua vita e della sua storia.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,35-42
In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi – che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui: erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa», che significa Pietro.

 

Prima di iniziare la lettura continua del Vangelo secondo Marco, la liturgia, in questa seconda Domenica del Tempo Ordinario, – nella prima si celebra sempre la festa del Battesimo di Gesù – ci propone il racconto della vocazione dei primi discepoli nel Vangelo secondo Giovanni. Si tratta di una narrazione diversa rispetto a quella che ascolteremo la prossima domenica, inizio della vita pubblica di Gesù nel Vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,14-20). Lo sappiamo, l’autore del Quarto Vangelo è identificato con Giovanni, il discepolo amato, la cui narrazione è più intima rispetto agli altri evangelisti perché egli alza il velo del mistero di Cristo e ci introduce in maniera particolarissima nei segreti del Cuore del Signore, negli intimi sentimenti del suo animo, roveto ardente di amore per Dio Padre e per noi uomini.
È significativo iniziare il Tempo Ordinario riflettendo sulla chiamata che ciascuno di noi, al pari dei primi discepoli, ha ricevuto. Bello ritornare sull’incontro personale con Gesù che ha determinato la scelta di seguirlo, aprendosi alla grazia della sequela. La liturgia di oggi è un’occasione propizia per ripensare la nostra identità di discepoli e comprendere che solo dalla frequentazione continua della persona di Cristo la nostra vita è totalmente trasformata.

Per meglio sottolineare il tema della chiamata, la liturgia ci dona oggi come Prima Lettura il racconto della vocazione del giovane Samuele (cf. 1 Sam 3, 3b-10. 19). Anche lui ha bisogno di chi lo inizi alla relazione con Dio e gli mostri la via dell’ascolto obbediente per incontrare il Signore. Il suo “Parla, Signore che il tuo servo ti ascolta” è l’atteggiamento umile di chi sente la forza seducente della parola di Dio e desidera affidarsi a Lui e compiere quanto chiede. La Seconda Lettura, invece, pur non sviluppando direttamente il tema della vocazione, attraverso la parola di Paolo indirizzata ai cristiani di Corinto (1 Cor 6, 13c-15, 17-20) possiamo riflettere su come anche con la nostra corporeità si testimoni il primato di Cristo nella nostra vita, perché il suo Spirito ha messo dimora in noi interamente. Il ritmo della liturgia è il battito del cuore di Cristo con il quale noi siamo chiamati a sintonizzare il nostro per entrare nell’abbraccio del Padre e vivere la gioia.

Un passaggio di testimone

Ci troviamo nella settimana inaugurale della vita pubblica di Gesù. Dopo il grande prologo (cf. Gv 1,1-18) che fa da sfondo all’intero Vangelo, offrendo i fili tematici che l’autore svilupperà di seguito, nella cornice temporale di sei giorni, assistiamo all’inizio del ministero di Gesù, preparato dalla testimonianza di Giovanni il Precursore. In realtà, seguendo bene il computo dell’Evangelista non si tratta di una settimana intera, perché il compimento del settimo giorno verrà solo con la resurrezione di Gesù, il mattino di Pasqua, il giorno dopo il sabato (cf. Gv 20,1). Da un lato Giovanni vuol far comprendere che Cristo, collegandosi con l’opera della creazione – il termine principio all’inizio del prologo (In principio era il Verbo) rappresenta proprio la ripresa di Gen 1,1 (In principio Dio creò il cielo e la terra) – è venuto a dare perfetto compimento a quanto era stato iniziato, dall’altro lato vuol mostrare che tutto il creato, senza la resurrezione di Cristo, non raggiunge quella perfezione che solo il Risorto dona, vincendo il peccato e la morte. Anche noi abbiamo bisogno di vedere che la Pasqua di Gesù è il compimento delle nostre attese e delle nostre speranze e se non siamo disposti a passare attraverso la porta stretta del mistero di morte e resurrezione di Cristo, non riceviamo il sigillo dello Spirito e la grazia della vita nuova e vera. In questa cornice, scandita dal già e non ancora – il già è la presenza di Gesù, il non ancora l’imperfezione indicata dal numero sei dei giorni descritti dall’Evangelista, oltre che, in seguito, dalle sei giare presenti alle nozze di Cana (cf. Gv 2,6) – possiamo dividere il materiale raccolto nei primi capitoli, tra la testimonianza di Giovanni (cf. Gv 1,19-34) e l’inizio del ministero pubblico di Gesù (cf. Gv 1,35-2,12).
Il brano liturgico odierno è tratto da questa seconda parte e, se vogliamo vedere l’unità di luogo, di tempo, di spazio e di azione – sono questi i criteri da applicare per determinare l’inizio e la fine di una pericope – ci renderemo conto che il nostro testo raccoglie quanto accaduto nella terza giornata descritta dall’Evangelista, l’incontro-chiamata dei primi discepoli. Il primo non menzionato, ma solitamente considerato lo stesso evangelista, che ben ricorda l’ora dell’incontro (v. 39), poi Andrea e Simon Pietro, suo fratello sono i primi ad incontrare Gesù, grazie alla mediazione di Giovanni e a seguire il Nazareno, mettendo la propria vita nelle sue mani. Proprio la figura del Precursore è centrale nell’incontro dei discepoli con Gesù, perché grazie alla sua parola, alla testimonianza che egli dona a quanti lo interrogano sul suo ministero, i discepoli si fidano di Cristo e lo seguono in totale obbedienza e disponibilità.

Leggendo il testo, notiamo che l’Evangelista presenta una catena narrativa ben studiata dove il primo anello è costituito dal ministero del Battista. È lui, infatti, ad innescare i successivi incontri, contagiando i suoi discepoli del desiderio di seguire Gesù. Il primo gesto di Giovanni, che apre la scena dopo l’indicazione temporale – il giorno dopo – che la liturgia taglia, sostituendolo con la più comune introduzione in quel tempo – è il suo fissare lo sguardo su Gesù. In realtà, tutto il brano sviluppa un gioco di sguardi che risultano ancor più incisivi nella dinamica della narrazione, se si tiene conto dei diversi verbi che il testo greco presenta. Giovanni è l’uomo di Dio, il ricercatore del suo volto, l’ascoltatore, nella solitudine del deserto, della sua voce, della sua volontà. Non si lascia portare dalla fama che lo circonda, né ha paura di coloro che vengono per investigare su quello che insegna. Il Battista vive la povertà come essenzialità, solo Dio gli basta, non ha bisogno di nulla. L’esperienza che fa del suo Signore, il vederlo, percepirne la voce, lasciandosi guidare dalle sue ispirazioni, è per lui sorgente di pace. Non aspira a cose alte, ma si piega alle cose umili – ante litteram, vive quanto chiederà l’Apostolo in – riconoscendosi un inutile servo, non degno neppure di sciogliere i legacci dei sandali del Messia. Il suo essere interiormente consumato dall’attesa del Signore, dal suo Spirito che sempre lo guida e sostiene lo conduce a vedere l’invisibile e ad indicare il Nazareno come il redentore che prende su di sé il peccato del mondo.

Il tratto più significativo che emerge nel nostro brano è l’amore che Giovanni nutre per i suoi discepoli. Si tratta, infatti, di una relazione libera, scandita da totale distacco. Il Battista sa che quanti lo seguono non gli appartengono, non li lega alla sua cintura, ma ricerca il loro vero bene, con la determinazione di chi ama veramente. Il suo indicare presente il Cristo, fissandolo gli occhi su di Lui, il suo riconoscerlo l’agnello di Dio (v. 36), come già in precedenza (cf. Gv 1,29) scuote l’animo dei suoi, conducendoli ad un cambiamento, ad un balzo in avanti. C’è una sintonia bella che notiamo tra Giovanni e i discepoli, non ha bisogno di usare molte parole, si fa capire, lo sguardo è il veicolo del comunicarsi i pensieri del cuore, poche frasi sono il modo per comprendere che è giunto il momento di lasciare il nido e sperimentare l’avventura del volo. Che i discepoli abbiano compreso il maestro lo si desume dall’obbedienza che vivono, dalla fiducia che dimostrano, dalla tempestività del cambiamento che operano. L’Evangelista lo appunta “i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù”.

L’amore vero libera chi ama e chi è amato perché non chiude nella ricerca di un tornaconto egoistico il rapporto, ma apre sentieri nuovi, spalanca orizzonti inesplorati che si intuiscono necessari per non morire di asfissia. L’amore è liberante, dona di ravvisare le schiavitù, di guardarle in faccia senza paura e di iniziare un cammino di vita nuova perché l’Egitto diventi solo un lontano ricordo e, purificati nel cuore dalla traversata del deserto, si possa godere della gioia vera nella terra promessa. L’amore è capacità di respirare l’aria di alta quota, scalando nella notte la montagna del dono reciproco, soccorrendo la fatica dell’altro perché la delusione e le tenebre del dubbio e dell’errore siano vinte dalla luce dell’alba che sorge sempre a rischiarare il camino di chi vuole svegliare l’aurora, con la forza di Dio. Il Battista ama senza appropriarsi di Giovanni e di Andrea, li aiuta a costruire il futuro, a vedere in profondità che Dio li sta chiamando a cose grandi e non fa pesare che rimarrà solo, perché pensare a sé risulta sempre un peccato grave quando in conto c’è la realizzazione della vita dell’altro. In amore c’è un solo obbligo da rispettare, mai pensare a sé perché è questa la radice di tutti i mali, credere di aver diritti da accampare, combattere per affermare le proprie ragioni, lottare perché l’idea che abbiamo è la migliore. Questa non è la strada dell’amore, ma della pretesa, dell’egoismo sfrenato, dell’autoaffermazione ad oltranza.
È uno sbaglio grande rinfacciare i sacrifici fatti al figlio che sta vivendo la necessaria lotta per affrancarsi e divenire libero, senza per questo divenire libertino, perché l’amore richiede l’offerta e la volontaria abnegazione, l’egoismo, invece, il contraccambio, spesso anche con interessi molto alti. Giovanni non solo non impedisce ai suoi di crescere e divenire. Chi ama come Giovanni chiede la maturità, spinge all’ indipendenza, propone cammini nuovi, apre strade, pur se in salita, verso traguardi sempre più belli ed importanti. Cosa sarebbe successo se il Battista non avrebbe indicato Gesù, spingendo i discepoli a seguirlo? Egli non avrebbe realizzato la propria vocazione di precursore e testimone e i discepoli non avrebbero conosciuto Gesù come sorgente di gioia e di realizzazione. La posta in gioco è sempre alta, ecco perché bisogna combattere il proprio egoismo e non permettere che determini passi falsi che conducono ad essere sempre più tristi. Rimanere con il Battista sarebbe stata per Giovanni ed Andrea la morte del cuore. Ora, invece, passando dalla stabilità del Precursore alla sequela del Figlio di Dio che, fatto uomo, non ha dove posare il capo, camminano verso la luce.

La grazia della consapevolezza

Giovanni il Precursore, una volta indicato Gesù, permettendo ai suoi due discepoli di seguire il Messia promesso, atteso ed ora venuto, scompare dalla scena perché la relazione dev’essere sempre e solo con Gesù. È Lui, infatti, venuto a battezzare in Spirito Santo (cf. Gv 1,33). Potremmo credere che il gioco sia fatto. Ormai Andrea e Giovanni stanno seguendo Gesù, hanno abbandonato la vita di un tempo e devono solo abituarsi a questo nuovo stile, scandito, lo si comprende subito dall’itineranza. Il Maestro che essi seguono quasi li sconvolge, facendo comprendere subito che il cammino di sequela non è come essi lo credono. L’Evangelista lo appunta: Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?» (v. 38). Seguire il Signore non vuol dire mettersi dietro di Lui e andare dove Egli decise anche per loro. La sequela è un cammino di interiorità, perché non sono i piedi che camminano, ma il cuore che deve portare il passo del Maestro, la mente aprirsi alla sua parola, l’animo alla sua voce, il suo futuro alle sue indicazioni, il passato alla sua misericordia, il presente alla grazia della sua presenza. Cristo non ha bisogno di persone che non partecipano interiormente al cammino che compiono, non vuole che si stia con Lui solo perché altri lo hanno detto e testimoniato. È necessario fare esperienza di Gesù, incontrarlo sul serio, scegliere la sequela come cammino per la propria vita, la parola di Cristo come lampada ai propri passi. Che senso ha stare con una persona senza condividere la vita? Stare gomito a gomito non serve se i cuori non si scambiano i sentimenti e le menti i pensieri, gli animi gli affanni e le gioie? Bello è il voltarsi di Gesù verso i discepoli, il suo guardarli con interesse, il parlargli con determinazione, senza che ci possano essere fraintendimenti. Il Maestro vuole che Andrea e Giovanni sperimentino la profondità dello sguardo di Gesù che non giudica, ma che chiede chiarezza e scelta convinta, sequela consapevole e decisione ben ponderata. Voltarsi significa non rivolgere le spalle, ma il volto, desiderare la relazione, aprirsi al dialogo, guardarsi senza timore, conoscersi senza paura. L’amicizia è una grazia che il Signore ci concede perché nessuno può credere di meritare l’amore di Dio con le sue opere e guadagnarsi la relazione con Lui attraverso le azioni. Il Signore si concede all’uomo come amore di totale gratuità. Si entra nel suo abbraccio perché Egli lo concede, si è circondati dalla sua grazia perché è Lui che la effonde, si vive alla sua presenza perché è Lui che si fa vedere e ci mostra il suo cuore come porto sicuro che ci accoglie in ogni nostra tempesta. Egli stesso lo confiderà: “Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). Ci chiama amici e ci chiede di ricambiare la sua amicizia e di gioire della sua visita.

Essere consapevoli della grazia della chiamata è il passaggio che i due discepoli devono fare, perché seguire il Signore significa crescere nella consapevolezza di chi siamo noi e di chi è Lui. È questo il cammino del popolo nel deserto, secondo la rilettura proposta da Dio stesso, per bocca di Mosè: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi” (Dt 8,2). Anche Francesco d’Assisi farà questa stesa esperienza, nella contemplazione amorosa del mistero di Dio, quando chiederà «Chi sei tu, Altissimo Signore mio? E chi sono io, miserabile verme?». Il Signore ci concede, lungo il cammino, di comprendere che la chiamata è una grazia, la sequela un’elezione, la consapevolezza della gratuità dell’amore di Dio necessaria, il ringraziamento e la lode la conseguenza dell’esperienza del proprio nulla.

Nelle nostre famiglie dobbiamo comprendere che l’eduzione alla fede non finisce mai, sempre siamo chiamati a dare testimonianza, ma, al tempo stesso, è bene comprendere che arriva un momento nel quale i nostri giovani devo prendere il volo. Non possiamo tenerli legati e chiedere di seguirci in chiesa solo perché è giusto. Un’educazione alla fede basata su norme cui obbedire è sterile e conduce i giovani ad abbondare ben presto le nostre comunità. È necessario che incontrino Cristo, che rispondano personalmente alla sua chiamata, sentendosi oggetto del suo sguardo di compiacenza e di misericordia, di cura e di tenerezza. Il passaggio dal seguire noi in chiesa al seguire Gesù in chiesa, dall’andare a Messa con noi, portati per mano all’andare, magari anche da soli, sono passaggi significativi che dimostrano quanto la fede trasmessa sia stata interiorizzata, divenendo vita. A questo dobbiamo mirare. Non serve una partecipazione formale, una vita di preghiera ben scandita se non c’è il cuore in quello che crediamo di dire, senza accorgerci che stiamo solo dimostrando a noi stessi di aver pregato o di saper pregare. La consapevolezza è una grazia da chiedere. Di quante cose non siamo consapevoli, di quante grazie concesse non riusciamo a gustare la bellezza, esprimendo la riconoscenza al Signore!
Dobbiamo aiutarci in questo cammino, facendo tesoro della grazia della chiamata e mettendo a frutto la dinamica della gratuità dell’amore di Dio nei nostri riguardi. A pensarci bene il voltarsi, il vedere, il parlare sono tre passaggi che possono scandire la maturità delle nostre relazioni. Quante volte parliamo, senza vedere e senza renderci conto di ciò che l’altro/a sta facendo? Il nostro voltarci per vedere l’altro conduce sempre a saper intervenire con amore e determinazione perché la persona che mi è accanto sappia guardarsi in profondità, rendendosi conto del mistero della sua vita e della sua storia. Amare non significa chiedere l’alienazione né attuarla per sé, quanto, invece, aiutarsi nell’entrare nel cuore per discernere le voci e i desideri, i pensieri che ci abitano e le situazioni pregresse. Chi ama chiede di purificare il cuore e si offre in questo cammino di discesa nel proprio mondo interiore senza paura.

Fare esperienza dell’amore

Alla domanda di Gesù «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi – che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?» (v. 38). La parola del Maestro scuote i due discepoli e li porta a leggersi dentro, ravvisando il desiderio che li abita e che rappresenta la cosa più importante che ora avvertono. Essi vogliono fare esperienza di Gesù, stare con Lui, vivere della sua vita, entrare nel mistero della sua persona. Se Giovanni gli ha indicato Gesù e il Battista non può sbagliarsi – avranno pensato i discepoli – certamente egli avrà visto lontano, è Lui colui che può donarci il riscatto dal peccato, sperato dai sacrifici del tempio, e donarci così la gioia che il cuore desidera. La loro richiesta di stare con Gesù e di dimorare dove Lui dimora manifesta la loro volontà di fare esperienza del nuovo Maestro e di rendersi conto della sequela intrapresa. Non si può scegliere senza conoscere e non si può conoscere senza condividere un pezzo di storia insieme. Scegliere sull’onda dell’euforia è pura pazzia. Ce ne rendiamo conto solo dopo però!
Abitare, rimanere con Cristo significa sperimentare la sua vita, entrare nel suo mistero, conoscerne l’identità, soppesarne le parole, lasciando che si decantino nel cuore. Dio accoglie i nostri tempi di maturazione e di crescita e li accompagna con amore, non ci forza, pretendendo da noi cose che non vogliamo o che non siamo in grado di dare perché non ne abbiamo le capacità oppure perché i tempi non sono quelli adatti. Dio ci chiede e ci concede di stare con Lui, di fare esperienza di Lui, approfittando della comunione che ci offre. Ecco perché Gesù asseconda la richiesta dei discepoli e li introduce lì dove essi hanno chiesto di rimanere. “Andarono dunque e videro dove egli dimorava” (v. 39). L’Evangelista non specifica il luogo, ma chi ha letto le pagine precedenti sa dove il Rabbì dimora stabilmente. Gesù abita nel seno del Padre (cf. Gv 1,18), lì, aggrappato al suo cuore, è sicuro e non teme nulla. L’abbraccio di Dio è la sua casa, il dialogo ininterrotto con Lui la sua forza. Il Maestro introduce i suoi discepoli nel mistero della sua divinità – Gesù è il Figlio di Dio fatto uomo, il Verbo che, uscito dal silenzio, ha messo la sua dimora tra gli uomini – essi sono ammessi nella relazione intima tra il Padre e il Figlio, nel vincolo d’amore dello Spirito.

Fare esperienza dell’amore di Gesù porta alla testimonianza gioiosa dell’incontro con Lui. Non si può, infatti, tenere per sé la straordinarietà del suo sguardo e la scoperta fatta di vivere nella gioia della fraternità e nella comunione che la verità di se stessi genera quando ci si senta amati veramente. La dinamica che lo sguardo di Cristo innesca in Andrea che chiama il fratello Simon Pietro a condividere la sua stessa esperienza è il contagio dell’amore che deve scandire la nostra vita familiare e comunitaria. L’amore di Dio deve diffondersi attraverso di noi ed espandersi. Mai trattenere la corsa dell’amore, mai impedire al flusso della gioia di arrestarsi. Dobbiamo vivere il contagio dell’amore e farlo vivere. Non saremo accusati di essere untori – come Renzo nei Promessi Sposi – perché vivremo l’esigenza dell’amore nel dono della nostra esperienza ai fratelli.




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