V Domenica del tempo ordinario - Anno B - 4 febbraio 2018 - 40° Giornata per la Vita

La mano dell’uomo è nella mano di Dio che si è fatto uomo

Mani

foto: @Di KonstantinChristian - Shutterstock.com

di fra Vincenzo Ippolito

Afferrare la mano di Gesù, ricambiare il suo gesto di delicata tenerezza, corrispondere alla sua attenzione, non lasciarsi distrarre da nulla, mentre Lui ci è accanto è ciò che anche noi siamo chiamati a fare per sperimentare la comunione con Lui.

Dal Vangelo secondo Marco 1,29-39
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini. perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

 

Anche questa domenica, dopo aver seguito Gesù lungo il mare (cf. Mc 1,16) e nella sinagoga di Cafarnao (cf. Mc 1,21), il Maestro continua ad annunciare il Regno di Dio e ad operare la salvezza degli uomini nei luoghi della vita quotidiana. La Prima Lettura, tratta dal Libro di Giobbe (7, 1-4. 6-7) rappresenta l’orizzonte della pericope evangelica: l’uomo – è quanto emerge dalle parole di Giobbe – consumato dal mistero del dolore, angosciato da questo “duro servizio sulla terra” che rende i suoi giorni “come quelli d’un mercenario”, alza lo sguardo al Cielo, sapendo che Dio “Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”, recita il Salmo responsoriale (cf. Sal 126). Gesù, nel Vangelo, è il Dio che ascolta il grido dell’uomo e lo risolleva dalla prostrazione della sofferenza. Della salvezza e della liberazione che Cristo è venuto a donare, Paolo, nella Seconda Lettura (1Cor 9,16-19.22-23), diventa annunciatore, nella gioia e nella responsabilità del suo essere apostolo. Solo chi ha incontrato Gesù Cristo e ha fatto esperienza della guarigione e della salvezza che Egli opera, può fare tutto per il Vangelo (cf. 1Cor 9,23) e testimoniare ai fratelli che l’incontro con Lui cambia la vita.

L’itineranza di Gesù

Il brano liturgico odierno (cf. Mc 1,29-39), solitamente indicato come la giornata tipo a Cafarnao, si può dividere seguendo le indicazioni temporali che lo stesso Evangelista riporta. La prima scena, direttamente consequenziale a quanto accaduto nella sinagoga, narra la guarigione della suocera di Simone, in casa (vv. 29-31); “venuta la sera, al tramonto del sole”il Maestro guarisce molti, compiendo anche degli esorcismi (vv. 32-34); “al mattino presto” è il tempo della preghiera solitaria e prolungata, interrotta da Simone che riporta a Gesù la ricerca della folla ed accoglie la sua richiesta di recarsi altrove per l’annunciare il Vangelo (vv. 35-38). L’ultimo versetto (39) presenta l’attività di Gesù, scandita dalla predicazione e dai prodigi che rivelano la presenza del Messia in mezzo al suo popolo. Marco presenta un quadro molto completo del ritmo che scandisce la vita di Gesù – preghiera e annuncio – e di come la sua parola scacci il male di ogni tipo e stani il Nemico e gli intimi la fuga. Se nella precedente narrazione (cf. Mc 1,21-28) il Signore predica nella sinagoga e libera un ossesso, rivelando il suo potere sulle forze oscure delle tenebre, nella casa di Simone guarisce dalla febbre sua suocera, dimostrando come non ci sia difficoltà che Egli non possa vincere. L’Evangelista pone l’accento proprio sulla figura della donna, ma è bene prima fermarci su Simon Pietro e sul cammino che sta compiendo, alla scuola del Nazareno.

Chiamato con il fratello Andrea a divenire pescatore di uomini, “mentre gettavano le reti in mare”, Simone segue Gesù nella sinagoga di Cafarnao, insieme con i primi chiamati ed in seguito accoglie Gesù nella sua casa. L’evangelizza Marco, pur senza specificarlo, coerente con il suo stile scarno ed essenziale, lascia intendere che ci sia stato un invito da parte di Simone. Il dato propriamente narrativo e storico permette di andare ancor più in profondità nel comprendere il senso che la realtà contiene. Abbiamo tra le righe, il risvolto esistenziale di cosa significhi seguire Gesù. Noi siamo solitamente convinti che il discepolato comporti il mettere i propri piedi sulle orme di Cristo. In parte questo è vero, ma non basta. Il cammino di sequela è interiore, prima di tutto, perché è nel cuore che si sperimenta la potenza dell’amore divino che spinge alla conversione, per camminare nella vita nuova. Sequela significa andare dietro Gesù perché ci sentiamo raggiunti da Lui che ci ama immensamente. Questo suo venirci incontro comporta da parte nostra fargli spazio. Più Dio entra in noi, più la nostra risposta a Lui è radicale e convinta, permeata dall’amore e protesa al dono. Gesù vuole entrare nella vita di Pietro, non può fermarci sull’uscio. Il racconto di oggi è proprio il segno di come Gesù voglia entrare nella nostra casa, visitandola con altri fratelli. Non si può essere discepoli e vivere la totalità del dono di se stessi dietro al Maestro, senza lasciare che Gesù entri gradualmente in noi, nei nostri rapporti, senza permettergli che permei le nostre relazioni e rivitalizzi le stenocardie che il Nemico fomenta in noi. Non possiamo dirci discepoli, se non lasciamo che la presenza di Gesù sia luce in ogni ambito della nostra vita.

La totalità è una delle note essenziali dell’amore nella coppia e nella relazione con i figli, totalità che vuol dire dono incondizionato di sé stessi all’altro/a. Questa è la cima verso cui camminiamo, ecco perché la croce è la lampada di un cammino di amore che vuol giungere al dono della vita. Ma la totalità deve sempre coniugarsi con la gradualità, proprio come Gesù insegna ai suoi discepoli. Si cammina e camminando si cresce, si procede dietro al Maestro e con Lui si imparare a fare sempre più spazio a Lui. Così è anche nei nostri rapporti. Non possiamo pretendere oppure dare per scontato che il dono rallegri sempre la vita insieme. Ci sono delle battute di arresto che mostrano la nostra creaturalità e ci ricordano che solo affidandoci a Dio, accogliendo la nostra debolezza e che, sorridendo delle nostre cadute, potremo camminare sulla strada dell’amore. Quando non riusciamo ad amare con totalità, quando l’egoismo prende il sopravvento oppure i fumi dell’ira e i morsi del dolore per i torti subiti ci impediscono di guardare l’orizzonte, decretando il ripiegamento su noi stessi, dobbiamo mantenere la calma – solo Dio in quei momenti la può concedere, ma bisogna chiederla, perché, chiedendola, si diventa anche più disponibili ad accoglierla – e vedere che, oltre ai limiti, c’è nell’altro/a la volontà, pur sempre debole, di guardare in Alto. Anche Pietro incapperà nelle stesse trappole, cadrà per il suo egoismo, non riuscirà a ben calibrare le sue richieste e a domare la sua impulsività, non per questo però il Signore lo scaccerà. Egli guarda il cuore e conosce ciò che c’è in ogni uomo. La totalità implica gradualità e la gradualità tempo e l’attesa dei tempi giusti comporta pazienza, ma si può attendere solo se c’è amore.
Pietro ci insegna ad aprire la nostra casa a Gesù, a non aver paura delle febbri che abbiamo, dei problemi che si vivono tra le mura domestiche. Non dobbiamo aver paura di essere aiutati dall’esterno. Per quanto vogliamo impegnarci, ci sono situazioni che non possiamo risolvere da soli o aspettare tempi che non verranno mai. Cristo rappresenta quella mano che dall’esterno ci aiuta, quel braccio che dal di fuori ci salva. Dobbiamo chiedere al Signore l’umiltà per confessare le proprie incapacità, lasciando che Gesù, insieme ai fratelli, visiti le nostre piaghe, le guarisca e risani, con la potenza della sua misericordia.
Perché nelle difficoltà che si vivono a livello di coppia o con i propri figli non si chiede all’esterno una mano? Perché non si lascia che la grazia penetri nei nostri rapporti, guarendo quelle dinamiche di morte che si ripetono continuamente? Perché ci chiudiamo in noi stessi e viviamo il dolore per situazioni che si possono risolvere, ma che comportano in noi il dolore per dirsi deboli e bisognosi?
Se Gesù non fosse entrato nella casa di Simone, non solo la suocera non sarebbe stata guarita dalla febbre, ma il suo discepolato non sarebbe stato vero e la sua risposta al Maestro totale e totalizzante.

La forza della preghiera confidente

Leggendo il nostro brano, vediamo come il centro della scena è la donna ammalata. Scrive san Marco: “La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei”. Ci troviamo dinanzi ad una situazione concreta, ad un caso di malattia di cui non ci è dato sapere la gravità. Riusciamo a capire, invece, che è impedita a letto, incapace di muoversi e di occuparsi della casa. Mentre lo sguardo sembra fissarsi sulla donna, interviene una parola, quasi ad aprire alla situazione, non certo positiva, la via di una risoluzione. Marco scrive “subito gli parlarono di lei”. È la seconda volta che si riporta l’avverbio subito. C’è fretta in Gesù nell’andare nella casa di Simone e c’è fretta da parte dei discepoli nel parlargli della donna, affetta dalla febbre. Non si dice chi siano queste persone, il testo non indica il soggetto. Potrebbero essere quelli della casa, familiari di Pietro e della donna, come si potrebbe pensare a dei discepoli – anonimi o anche quelli menzionati in precedenza – che presentano al Signore lo stato della donna. Si tratta di un particolare irrilevante, se l’Evangelista sceglie di non specificare la cosa, perché bisogna vedere ciò che l’Autore dice, non quanto la nostra curiosità pretende. Emerge, invece, che il testo, in maniera indiretta, parla della preghiera come capacità di presentare al Signore la situazione che si vive, come dialogo sincero con Lui che non entra nella nostra vita per giudicarci, ma per donarci la gioia della sua visita, la grazia della sua presenza. Questi anonimi oranti ci donano di entrare nel mistero della preghiera vera, della capacità di commuovere il cuore di Cristo, fidandosi di Lui in maniera incondizionata e totale. La grande tentazione, quando siamo dinanzi a Dio, è quella di farci suoi consiglieri, di mettergli tra le mani il copione da noi scritto e che Egli deve seguire sulla scena della nostra vita, senza saltare neppure una battuta, mentre noi sediamo comodamente sulla poltrona del regista. Dimentichiamo sempre che Dio non ha bisogno che gli diciamo ciò che deve fare, come e quando deve agire.
La preghiera vera, invece, nasce dalla fiducia incondizionata in Dio e si sviluppa nell’abbandono, rifugge la pretesa dell’offrire consigli e ama non sprecare parola, poiché Dio tutto conosce, anche ciò che il nostro cuore spera e desidera. L’orazione è il dialogo fiducioso di chi si mette nelle mani di Dio, sapendo che per Lui non c’è un luogo più sicuro – “il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita, per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica” recita il salmo 16,5-6 – e che l’amore di Dio supera quello di una madre per il proprio figlio. La preghiera è questa capacità di dialogare con Dio, mettendo a nudo la propria anima, senza il timore delle proprie debolezze, vincendo lo scandalo delle miserie personali che il Nemico pone dinanzi ai nostri occhi, quando compariamo alla presenza del Signore, per scoraggiare il nostro dialogo e indebolire l’atto di fede che stiamo compiendo. La preghiera è un’arte da imparare, non solo esercitandosi, ma guardando Colui che ci sta dinanzi e che, a sua volta, ci guarda. Si prega con il cuore rivolto al Signore, mentre le labbra manifestano i desideri dell’anima che anela a Dio, con la mente che riflette ciò che è bene dire, ma anche con gli occhi che fissano il Signore e si lasciano illuminare dalla sua presenza. È questo il senso delle immagini e delle statue sacre, servono ad attirare lo sguardo e ad avere sempre il Signore davanti a noi, perché nulla ci distolga dall’amore suo per noi. Questi tali del Vangelo guardano verso Gesù e gli presentano semplicemente la situazione della donna. Non aggiungono nulla, a che servirebbe? Non sarebbe forse inutile, visto che Egli viene con i suoi dalla sinagoga dove ha liberato un indemoniato? Che senso ha parlare se Egli scruta la mente e saggia i cuori?

Essenziale nella nostra vita è imparare a parlare con Dio anche delle difficoltà dei fratelli. Chi si trova nelle avversità non ha bisogno di chi vada a ricercare le cause di una difficoltà, perché le disquisizioni non servono, quando il problema è già una realtà. I discepoli anonimi del Vangelo sanno di non poter far nulla – avranno provato dei rimedi? Anche questo non ci è dato saperlo – accolgono con serenità il limite che li costituisce e con semplicità e schiettezza si rivolgono a Gesù, semplicemente presentando la situazione di quella donna. Avere l’umiltà di saper affidarsi a Dio, confessando la propria incapacità è una grazia da chiedere. Io mi affido non solo perché ho sperimentato di non poter far nulla, ma perché vivo nell’amore di Dio e mi fido di Lui, non potrei far nulla senza interpellarlo, senza chiedere la sua mano, senza domandare il suo aiuto. Io prego perché ho bisogno di Dio e perché voglio aver bisogno di Dio. Prega chi vive con consapevolezza la propria creaturalità, mentre chi sente il peso del limite, si rassegna e vivrà sempre lo scandalo di non essere perfetto. Chi ha sperimentato l’amore di Dio, ha fiducia in Lui, sa che solo Gesù può stendere la mano e dare vita, solo Lui può intimare e scacciare il demonio, solo la sua parola guarisce, il suo sguardo ama, la sua sola presenza fa germogliare il bene e semina la gioia.

I gesti di Gesù che donano salvezza

Nella sinagoga – lo abbiamo visto la scorsa domenica – Cristo insegna e comanda al demonio di dileguarsi, nella casa di Simone, invece, sono i gesti del Signore che mediano la salvezza e ridonano la salute del corpo alla donna. Si tratta di azioni ben cadenzate che rivelano come l’Evangelista voglia che il suo lettore segua le azioni di Gesù e quasi le lasci imprimere nel cuore. “Egli si avvicinò e la fece alzare, prendendola per mano” recita la traduzione CEI. Volendo tradurre, invece, letteralmente potremo dire: “Ed essendosi avvicinato, lo sollevò, dopo averla presa per mano”. Il verbo centrale di modo finito, intorno a cui ruotano i due participi è la sollevò. Quest’azione è preparata dall’avvicinarsi di Gesù alla donna, cui segue – nel testo, invece, è preceduto dal verbo principale – il suo prenderle la mano. Nulla è a caso nel Vangelo, come nulla è insignificante nella vita del Signore. Avvicinarsi, prendere per mano, sollevare sono i passaggi che scandiscono la dinamica della guarigione che abilita al servizio.

Il primo gesto del Maestro è l’avvicinarsi. Marco, appuntandolo, vuol indicare prossimità, cura, sollecitudine da parte del Signore. Si tratta della dinamica annunciata all’inizio della vita pubblica, in Galilea, “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Nella vita della suocera di Simone entra Dio, si avvicina il Regno, si compiono le promesse. È la dinamica dell’incarnazione che fuga l’idea di un Dio lontano, la logica della vicinanza che sbaraglia la divisione tra puro ed impuro, il desiderio della prossimità che rompe gli argini di un Cielo trascendente, incurante delle sorti dell’uomo. Gesù è il Dio che si avvicina, non per giudicare, ma per salvare, si accosta per divenire nostro compagno, in punta di piedi si fa accanto per prendersi cura di noi. In Gesù non c’è indifferenza, tutt’altro. La richiesta dei presenti lo trova sollecito a farsi prossimo, a divenire buon samaritano. In Lui, avvicinarsi al letto della donna significa immedesimarsi nella sua situazione, comprendere ciò che vive, farsi interpellare dal dolore che sente, dalla sofferenza che la tiene prostrata, incapace di alzarsi.
Da Gesù impariamo ad avvicinare chi è nel bisogno, ad accogliere che altri ci indichino la strada per farci prossimi, vincendo ogni ritrosia ed egoismo. Amare significa avvicinarsi, prendersi cura dell’altro, entrare nella sua vita, con la dolce tenerezza che l’amore porta con sé. La ragione dell’incarnazione è l’amore, come del nostro desiderio di condivisione e di comunione è sempre e solo l’amore. L’amore richiede l’avvicinarsi come capacità empatica che scatta naturalmente con la persona che si ama. Mi avvicino, la guardo, senza far sentire che i miei occhi scrutano, prendo su di me la situazione che vive, il dolore che prova, la sofferenza che talvolta neppure le parole riescono a tradurre. Abbiamo bisogno di sentire che l’altro/a ci è vicino, non solo con le parole e con il cuore, ma anche con il corpo. In amore bisogna avvertire che l’altro/a c’è e vuole esserci con tutto se stesso, la sua è una presenza che rincuora, uno sguardo che rassicura, un sorriso che risolleva. Esserci ed esserci interamente è ciò che rende vero l’amore. La vicinanza che dobbiamo donarci deve avere la concretezza della carne di Gesù, l’evidenza della sua presenza nella casa di Simone, la cura che sposa il silenzio come capacità di entrare nel dramma che l’altro vive per accoglierlo e farsene carico. La dinamica della vicinanza, la logica della prossimità si impara in famiglia, lì la respirano i figli, ma bisogna portarla fuori dalle mura domestiche, vincendo la cultura dello scarto e dell’indifferenza perché il debole non è da escludere, ma da accogliere, il povero non è da allontanare, ma da avvicinare. Per fare questo, per avvicinarsi all’altro, al diverso da noi per cultura e lingua, nazione e mentalità, razza e religione, bisogna essere spinti dentro dalla stessa forza che Cristo attinge dalla preghiera, nel rapporto con il Padre. Non fece così anche Francesco d’Assisi nell’avvicinare il lebbroso? La misericordia di Dio lo spinse all’abbraccio con colui che prima rifiutava e considerava nemico. Solo Dio può vincere la nostra lontananza e farci comprendere che l’amore abbatte le barriere dell’indifferenza e della diffidenza e ci rende in Cristo una sola famiglia

Il secondo gesto di Gesù – in ordine di tempo – è il prendere la mano della donna. Alla cura e alla sollecitudine che il suo avvicinarsi dimostra, il Signore aggiunge la tenerezza e la dolcezza. L’Evangelista sembra dire che l’avvicinarsi non basta, se non si crea un contatto, se non si entra in relazione, se non avviene lo scambio. In Gesù vediamo dispiegarsi l’amore che diventa prima vicinanza, poi contatto delicato e rispettoso. C’è quindi una gradualità necessaria nella relazione, mediata da gesti e parole che dipendono non solo da chi li pone, ma anche da chi li riceve. Cristo prende la mano della donna. Si tratta di un gesto semplice, dove la relazione non si basa su parole di circostanza, né su una commiserazione verbale che lascia il tempo che trova. Il Signore, donando la sua mano, offre alla donna la possibilità di un incontro che può divenire salvezza, un incontro non mediato dalle parole – anche i gesti parlano, quando li facciamo parlare – ma dal dono della mano di Gesù che è la mano di Dio. Il Signore che con il tatto della sua mano aveva plasmato Adamo ed Eva, Egli che con il suo braccio potente aveva aperto il mare dinanzi al suo popolo, all’uscita dall’Egitto, il Dio grande e potente che aveva scritto sulle tavole di pietra le dieci parole della libertà, affidandole Mosè perché il popolo camminasse nelle sue vie, il Santo d’Israele che, per mezzo di Isaia, aveva ricordato ai suoi come il nome dei suoi eletti è scritto sul palmo della sua mano, ora è dinanzi a quella donna e le stringe la mano. La mano dell’uomo è nella mano di Dio che si è fatto uomo. Se potessimo immaginare quella presa, determinata e dolce, al tempo stesso, debole e potente, divina ed umana insieme. Gesù farà lo stesso con la fanciulla dodicenne (cf. Mc 5,41) e con l’indemoniato incontrato dopo la trasfigurazione (cf. Mc 9,27), comunicando la potenza della vita che vince la morte e mette in fuga il male.

Afferrare la mano di Gesù, ricambiare il suo gesto di delicata tenerezza, corrispondere alla sua attenzione, non lasciarsi distrarre da nulla, mentre Lui ci è accanto è ciò che anche noi siamo chiamati a fare per sperimentare la comunione con Lui, la salvezza a tutti offerta e poter superare il buio della solitudine che tanto ci fa soffrire. Non solo Gesù vive con noi la stessa dinamica, ma ci chiede anche, partendo da Lui, di ripensare ai nostri gesti. Il bambino non cerca la mano della mamma o del padre per addormentarsi? Ha bisogno di sentire la presenza di chi lo ama, si tranquillizza solo se l’affetto che si nutre per lui diventa carne, abbraccio, bacio. Non è così anche tra gli sposi? Non è un caso che il rito del matrimonio, nel momento dello scambio del consenso, preveda che i nubendi si prendano per la mano destra e si scambino la promessa del loro amore. È lo stesso gesto di delicatezza di Gesù nel Vangelo. In quel momento gli sposi si impegnano non solo a camminare mano nella mano, ma a risollevarsi nei momenti di difficoltà, a sostenersi nelle cadute, a non soccombere nella prova. Questo comporta la vigilanza sull’altro/a, la cura per la sua vita, la delicatezza nel guardare dove mette i piedi, se c’è un pericolo in agguato perché non posso più pensare solamente a me stesso, ma la persona che mi è accanto, di cui stringo la mano si è affidata a me, si fida di me, vuol lasciarsi custodire da me, amare in modo unico.

Risollevare è il terzo gesto che Gesù compie. Il termine è lo stesso che gli Evangelisti utilizzano per indicare la resurrezione di Cristo. È come se la suocera di Pietro risorgesse, il suo sollevarsi è simile ad un risveglio, perché da Gesù esce una forza capace di guarire tutti (cf. Lc 6,19). Partecipare per grazia alla vita di Cristo è il dono che la donna riceve, in maniera gratuita ed inattesa, perché Dio opera nella nostra vita quando Egli lo vuole, perché da nulla è determinato, se non dalla nostra fede. I discepoli hanno presentato la situazione di quella donna e proprio questo gesto di fede e di abbandono in Lui motiva la guarigione e determina l’intervento potente di Dio. La resurrezione, in Cristo e in coloro che credono in Lui, è sempre frutto dell’abbandono obbediente nelle mani del Padre. Sua è la forza di risollevare, suo è l’amore che guarisce, sua è la potenza che risana. Non si può essere toccati da Cristo, senza sperimentare la sua forza risanatrice, non si può incontrare il suo sguardo, senza sentire in noi il fuoco vivo del suo Spirito che ci consuma, non possiamo restare dinanzi a Cristo, senza avvertire che da Lui esce quella forza capace di guarire coloro che si affidano a Lui con tutto il cuore.
Gesù ci insegna a prenderci a cuore concretamente della situazione dei fratelli, dei loro drammi che si portano dentro, dei problemi che li angosciano nel corpo e nello spirito. “La carità sia senza finzioni” (Rm 12,9) ammonisce san Paolo e san Giacomo, in modo altrettanto diretto, scrive: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 4,14-18).
La famiglia e ogni comunità religiosa e parrocchiale è il luogo dove si sperimenta la potenza risanatrice di Cristo, dove si vive perché veniamo risollevati da chi ci sta accanto, si cammina, perché Dio, attraverso gli altri, ci guarisce ed il suo amore ci risana. Non basta stare accanto e tenere nella mano la mano dell’altro/a. Il nostro amore deve essere fattivo, la nostra carità concreta. Ecco perché le opere di misericordia sono il segno che seguiamo Gesù veramente. Dobbiamo chiedere perdono, non solo delle azioni fatte male, ma anche del bene che potevamo fare e, per egoismo, non abbiamo compiuto. Le omissioni sono i peccati più gravi. Ecco perché l’Apostolo ci esorta “Non stanchiamoci di fare il bene” (Gal 6,9)

Avvicinarsi, prendere per mano, risollevare sono i gesti che Gesù compie e che conducono la donna non solo a rialzarsi, ma a mettersi al servizio nella casa che è segno della Chiesa. La guarigione, come la vocazione, è sempre per la missione, è una chiamata ad annunciare ai fratelli ciò che il Signore ha operato con noi, attraverso una vita che si fa dono. Dal dono ricevuto al dono offerto; dalla mano di Gesù che guarisce alla mano della donna che serve; dalla stasi che il male impone al movimento che l’amore sperimentato determina.

Far vincere la vita

I gesti di Cristo – lo apprendiamo continuando la lettura del brano evangelico odierno – sono per tutti, perché tutti vengono raggiunti da Gesù che guarisce e risana, scaccia lo spirito del male e annuncia la buona Novella. La preghiera prolungata è il motore della vita pubblica del Signore, come dei suoi discepoli che, solo rigenerati nell’incontro orante con il Padre, ritemprano le forze per seminare il buon grano del Regno nel mondo.
La liturgia della Parola ci offre la possibilità di legare la nostra riflessione al tema della Giornata nazionale della Vita, che oggi celebriamo: Il Vangelo della vita, gioia per il mondo. Solo Gesù può stendere la sua mano e salvarci dall’egoismo e dalla pretesa di crederci padroni della vita nostra ed altrui e divenire servitori del progetto di Dio che è gioia per ogni suo figlio.




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Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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