Vi Domenica del tempo ordinario - Anno B - 11 febbraio 2018

“Io voglio la tua guarigione, voglio la tua salvezza!”

di fra Vincenzo Ippolito

È il lebbroso a venire da Gesù, con il peso della sua morte fisica, religiosa e sociale. Dinanzi al Signore, la sua stessa vita diventa preghiera, la discriminazione della società in cui vive si traduce in supplica. Si inginocchia, dimostrando il suo desiderio di essere guarito, l’abbandono incondizionato in Colui che non conosce, se non per fama, ma per il quale nutre fiducia totale.

Dal Vangelo secondo Marco 1,40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

 

Il racconto della guarigione di un lebbroso è l’ultimo tassello del mosaico che costituisce il primo capitolo del Vangelo secondo Marco. La liturgia ci dona questa pagina prima di inoltrarci nel Tempo di Quaresima che inizierà il prossimo mercoledì, con il rito dell’imposizione delle ceneri. La narrazione di questo miracolo, segno della venuta dei tempi messianici, è accompagnato dallo sfondo culturale dell’antico Israele, bene espresso nella Prima Lettura (cf. Lv 13,1-2.45-46). Riguardo i malati di lebbra, Mosè offre delle prescrizioni a cui Aronne e i suoi figli dovranno attenersi, superate da Gesù che non avalla la separazione, ma dona la possibilità di essere reintegrati a pieno titolo nella comunità dei suoi discepoli. Parte del Salmo 31 – considerato uno dei sette salmi penitenziali – ci aiuta a cantare la bontà del Signore che accoglie la richiesta di perdono e rallegra il cuore di chi confida in Lui, mentre nella Seconda Lettura (cf. 1Cor 10,31 – 11,1), nella disputa se mangiare delle carni sacrificate agli idoli, Paolo chiede ai cristiani di Corinto di non dare motivo di scandalo e di cercare sempre la gloria di Dio. Tutto sembra convergere verso la figura di Gesù che dona pienezza alla legge di Mosè e supera i preconcetti dei Corinzi: superare le separazioni e le convenzioni culturali, abbattere i pregiudizi, offrendo accoglienza e di integrazione è quanto ci insegna Gesù, la cui unica regola è la misericordia senza confini.

Tutti sono attratti da Gesù

La scorsa domenica, abbiamo seguito il Maestro nella sua frenetica giornata di Cafarnao (cf. Mc 1,29-39), caratterizzata dall’annuncio del Vangelo e dai segni compiuti sui malati ed indemoniati, a dimostrazione che il Regno di Dio è vicino. La pericope evangelica odierna, con la figura del lebbroso mondato (cf. Mc 1,40-45), continua i medesimi temi, soprattutto quello della preghiera e della guarigione, mostrando come Gesù sia il Signore, venuto a vincere il male e a far regnare la potenza della vita. Stupisce, leggendo le prime battute del brano, che l’Evangelista non presenti, come aveva fatto in precedenza (cf. Mc 1, 29.32.35), delle indicazioni di tempo e di luogo per contestualizzare il racconto e meglio legarlo a quanto il Maestro ha compiuto, uscito dalla casa di Pietro. Marco scrive semplicemente “venne da lui un lebbroso” (v. 40). Non solo mancano introduzioni, ma anche la dinamica dell’incontro cambia rispetto a quanto descritto in precedenza. Finora era stato il Maestro a prendere l’iniziativa – si pensi alla suocera di Simone, a letto con la febbre, è il Signore che si avvicina (cf. Mc 1,29-31) – ora, invece, è il lebbroso che viene da Gesù a gli parla, presentandogli la sua supplica per ricevere la liberazione dalla lebbra che lo affligge. Questo dimostra la capacità di Cristo nell’attrarre i bisognosi, nel richiamare, con la sua fama che intorno si spande, i lontani perché la vita rifiorisca lì dove regna la disperazione e la morte.
Lasciarsi attrarre da Cristo, come il ferro dalla calamita, è un dono, permettere a Gesù di mettere in discussione le proprie idee, ascoltando ciò che Egli ha compiuto nella vita degli altri è una grazia singolare. Solo chi è umile, sa accogliere l’esperienza e la parola degli altri, solo chi ha profonda consapevolezza di aver bisogno di essere guarito nel corpo e sanato nell’anima, mette da parte il suo orgoglio e si fida della testimonianza di quanti, nelle tenebre, hanno conosciuto la luce. L’Evangelista non dice come il lebbroso abbia saputo di Gesù e della sua potenza, in grado di sanare nel corpo e nel cuore. Non è fuori luogo pensare che, come accadrà altre volte (cf. Mc 5,37), il venire del lebbroso sia stato suscitato dall’ascolto di ciò che Gesù insegna e compie. Non a caso, Marco aveva in precedenza appuntato: “La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea” (Mc 1,28). Il passa parola sul Nazareno, la testimonianza di quanto Egli dice ed opera suscita la curiosità e fa nascere la segreta speranza di poter sperimentare la potenza guaritrice che Egli intorno diffonde. Per questo motivo l’Evangelista scrive: “gli portarono tutti i malati e gli indemoniati” (Mc 1,32), il suo insegnare “come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,22) attrae e seduce le folle, assetate di ascoltare la parola di Dio e di sperimentare la sua vicinanza. Gesù, da un lato, annuncia il Regno e si accosta all’umanità stanca e sfinita, dall’altro accoglie coloro che vanno verso di Lui, assecondando il loro desiderio di guarigione e di vivere nella gioia.

La parola che ci viene donata da coloro che hanno fatto esperienza di Gesù è preziosa, se l’accogliamo e ci lasciamo interrogare dal suo contenuto. Attraverso di loro, potremo, infatti, incontrare Cristo e, in dialogo con Lui, conoscerlo quale Figlio di Dio e conoscerci come creati a sua immagine e somiglianza. Gesù non solo ci attrae in maniera diretta, quasi rincorrendoci e perseguitandoci – si pensi a Paolo sulla via di Damasco in At 9,3-6 – ma il più delle volte si serve delle persone che ci sono accanto o che ci invia – fu così con Saulo a cui il Signore mandò Anania, un discepolo di Damasco (cf. At 9,10ss) – per suscitare in noi il desiderio di Lui ed attrarci a sé per vivere della potenza del suo amore misericordioso. Oltre che delle persone che ci sono accanto, quali mediatori di Dio, non dobbiamo aver paura neppure dei nostri bisogni, tutt’altro. Dio Padre suscita in noi la consapevolezza delle nostre deboli forze e dei bisogni strutturali che conducono naturalmente a Lui, proprio perché vuole che noi avvertiamo come necessario l’incontro con il suo figlio Gesù che desidera essere la sorgente della nostra gioia. La necessità che ciascuno di noi ha di Lui va accolta, non subita perché Egli è parte di noi, plasmati dalle sue mani, sostenuti dal suo soffio di vita.

Il lebbroso, un morto che cammina

L’uomo che si presenta a Gesù è un lebbroso. Per comprendere cosa questo significhi e comporti la liturgia ci offre come Prima Lettura il testo del libro del Levitico (13,1-2.45-46) che, pur con pochi versetti, ci permette di vedere lo spaccato culturale dei tempi di Gesù. Considerata come una delle peggiori malattie, la lebbra rendeva l’uomo che ne era affetto come un bambino nato morto (cf. Nm 12,12) e la guarigione una vera e propria resurrezione. Recita sempre il codice cultuale d’Israele: “Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: Impuro! Impuro!” (Lv 13,45). Proprio perché dichiarati impuri, i lebbrosi erano severamente isolati e non potevano mettere piede in Gerusalemme, pena la contaminazione della città santa. Dovevano vivere lontani dai centri abitati e farsi notare nei loro movimenti, essere annunciati dal loro gridare “Impuro! Impuro!”. L’uomo colpito da lebbra – per il rapporto che esisteva, nella mentalità comune, tra malattia e violazione della Legge – era considerato un peccatore, punito da Dio, castigato violentemente per la sua colpa. Ribrezzo e paura erano i sentimenti che la sola vista del lebbroso faceva sorgere in ogni pio israelita e questo sarà un retaggio pesante per secoli se vigevano le medesime regole ai tempi di Francesco di Assisi, cui “sembrava cosa troppa amara vedere i lebbrosi” (Test 1: FF 110). Esclusi dalla vita religiosa e dalla frequentazione del tempio o della sinagoga, allontanati dalla società che in essi vedeva un pericolo per il bene della vita pubblica, il lebbroso che si presenta a Gesù è un uomo senza dignità, privato dei fondamentali diritti di cittadino e di credente. Alla morte che scandisce il suo corpo – la malattia progressivamente lo conduce a vedere come la sua carne va in putrefazione – si aggiunge la morte sociale e religiosa che rendono l’uomo inesistente, senza diritti, con l’unico dovere di non nuocere con la sua presenza alla società bene che non sopporta la sua semplice vista. Si può avvalersi di un solo diritto, quello di gridare, ma non per chiedere aiuto, quanto per mettere in guardia gli altri dal suo contagio, visto che egli è un untore. Nessun tentativo di cura e di integrazione, di guarigione e di assistenza permetteva la legge di Mosè che si limitava a imporre al sacerdote il dovere di esaminare l’uomo per dare poi il suo verdetto “Puro” o “Impuri”. Comprendiamo allora come l’uomo che incontra Gesù sia un morto ambulante, un cadavere che cammina. Gli altri lo considerano un peso e vogliono che egli stesso si consideri impuro, che si vergogni della sua condizione, che scompaia non visto, così da farsi perdonare per l’impurità che semina in Israele, il popolo santo e puro per eccellenza.
Un uomo senza dignità, a cui è negato qualsiasi aiuto, privato di ogni diritto è l’uomo che va da Gesù, sperando che almeno Lui ne abbia compassione e lo esaudisca, accogliendo la sua richiesta.

La preghiera fatta di gesti e parole

È il lebbroso a venire da Gesù, con il peso della sua morte fisica, religiosa e sociale. Dinanzi al Signore, la sua stessa vita diventa preghiera, la discriminazione della società in cui vive si traduce in supplica. Si inginocchia, dimostrando il suo desiderio di essere guarito, l’abbandono incondizionato in Colui che non conosce, se non per fama, ma per il quale nutre quella fiducia totale, ultimo porto – come lo sarà per l’emorroissa – per trovare aiuto. Bello il gesto del suo inginocchiarsi, diventa quasi un tutt’uno con la terra, ritorna ad essere polvere perché Cristo, da Creatore, lo riplasmi e faccia apparire in tutta la sua bellezza l’immagine e somiglianza sua, deturpata dalle brutture della lebbra. La sua voce diventa flebile, non c’è bisogno di gridare perché altri si guardino da lui, che si allontanino per non essere contaminato anche solo nello sguardo dalla sua presenza che infetta l’aria e semina la morte, mostrandosi come reo di chissà quale grande colpa. “Se vuoi – dice rivolto allo sconosciuto Gesù che nel cuore è divenuto già suo Maestro – puoi purificarmi”. È la seconda volta che l’evangelista Marco ci parla della preghiera e di quanto sia essa efficace, se nasce dalla fede e dall’abbandono in Cristo.
Preghiera – lo vedevamo la scorsa domenica – era la voce dei discepoli anonimi che, nella casa di Simone, dove giaceva a letto la suocera in preda alla febbre, “subito gli parlarono di lei” (Mc 1,30), una preghiera che, pur mossa dalla fede in colui che, nella sinagoga, aveva scacciato il demonio e poteva combattere ogni male presente nell’uomo, Marco non aveva trasmesso nei suoi contenuti essenziali, lasciando intravedere solo il desiderio che la animava. Ora, invece, vediamo come l’Evangelista ci narri il contenuto della supplica rivolta a Gesù. Supplica semplice ed accorata, le parole diventano via per comprendere l’intenzione che anima il lebbroso, la maturità della sua fede, l’incondizionato abbandono che lo muove. L’uomo, infatti, non pretende di piegare Dio ai suoi progetti, ma di accogliere ciò che al Signore piace. “Se vuoi” dice l’uomo affetto da lebbra, non presenta prima la sua richiesta – eppure sarebbe la cosa più semplice da fare, visto il male che lo tormenta è grande, come la discriminazione che gli viene ingiustamente riservata – non parte da ciò che vive e desidera e gli è necessario per un’esistenza dignitosa e serena. Il suo primo desiderio è quello di lasciare libero Dio, di non legarlo alla sua volontà, di nulla imporgli. Se così fosse, sarebbe irriverente nei riguardi del Signore. Questa non è preghiera, ma pretesa, non fiducia, ma ricatto, non abbandono nelle mani di Colui che sa tutto e meglio di noi può vedere il bene e creare le condizioni per realizzarlo, ma orgogliosa volontà di prevalere su di Lui e di indicargli la strada da percorrere.
La preghiera, in quanto dialogo amicale ed amoroso tra l’uomo e Dio, è determinato solo dall’amore, dalla gioia dello stare l’uno accanto all’altro. Il rapporto deve essere scandito dalla libertà di dire e di fare ciò che ciascuno desidera per sé e per l’altro, non nell’arbitrio irrazionale che l’egoismo pretende, ma nella volontà di ricercare sempre il bene proprio ed altri. Il lebbroso non impone regole e leggi nella relazione con Gesù, ma vuole rimanere nella condizione di creatura che tutto accoglie come libero dono da Dio creatore. Solo una preghiera supererà quella del lebbroso nel Vangelo secondo Marco e sarà quella del Figlio che, in preda all’angoscia, nell’agonia del Getsemani dirà “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).
L’arte più difficile da imparare, nella vita cristiana, è la preghiera, da cui dipende anche la carità verso i fratelli. Arte della relazione e della conoscenza dell’Altro, necessita di tempo, attenzione e cura. Ogni rapporto, infatti, non si improvvisa, ma richiede impegno ed amore. La preghiera non è un dialogo tra sordi, ma scambio ed incontro tra persone che si vogliono bene e desiderano crescere insieme. La relazione tra noi e Dio prende il nome di preghiera, ma conserva tutto ciò che scandisce le nostre relazioni – amore, attenzione, empatia, silenzio, accoglienza, desiderio dell’altro/a, volontà di stare insieme, ricerca del bene e del bello … – e ha come meta la gioia del cuore che ama, si sente amato e cammina nell’amore. Ecco perché la preghiera è intessuta di gesti e parole tra loro connessi, perché il rapporto di amore e di amicizia non può essere platonico, ma deve tradursi in carne, sposando la concretezza della vita.

Solo Gesù salva e guarisce

Il lebbroso, nella sua supplica, ha riconosciuto in Gesù la potenza di Dio che purifica e salva. E proprio questa sua fede, che si traduce in parole e lo porta ad inginocchiarsi, muove i sentimenti del cuore del Maestro. Per alcuni esegeti, Gesù, dinanzi al lebbroso, fu mosso dall’ira, mentre, nella traduzione CEI, leggiamo che il Signore fu mosso da compassione. Il testo è incerto, ma nell’uno come nell’altro caso, Gesù non resta indifferente alla sofferenza di quell’uomo. L’ira mette l’accento sulla reazione di Cristo dinanzi al male che ha turbato l’ordine della creazione, la compassione sulla solidarietà che il Signore dimostra nei riguardi di colui che dal male è prostrato. Anche dinanzi alla tomba di Lazzaro, Gesù piangerà e mostrerà un turbamento che unisce sconcerto ed affetto. Nel cuore del Signore c’è la capacità di vedere le cause del male per condannarle, ma prevale la compassione nei riguardi del lebbroso – questo porta a preferire la variante ebbe compassione, determinata anche dal contesto – perché a nulla vale l’ira per l’ingiustizia, se colui che la sta subendo non è sollevato dallo stato di prostrazione che soffre. Le battaglie che si possono e devono fare per la giustizia non devono solo cercare di rimuovere con proclami le cause della sperequazione sociale, ma, nello stesso tempo, operare per un intervento tempestivo ed efficace perché quanti soffrono trovino sollievo nelle difficoltà che vivono.

Gesù interviene in maniera tempestiva, anche Lui, al pari del lebbroso, con gesti e parole che si intrecciano. Diversamente da quanto accaduto nella casa di Simone, non solo stende la mano e tocca l’uomo, ma gli dice anche: “Lo voglio, sii purificato!” (v. 41). Toccare un lebbroso rendeva impuri, secondo la legge, ma Gesù supera la legge, Lui che ne è il compimento. Stende la mano perché sa che non sarà il lebbroso a renderlo impuro, ma la sua grazia a mondarlo nel corpo e a sanarlo nel cuore. Dolce presa è quella che il Redentore offre al lebbroso che da tempo non conosceva la solidarietà di una mano amica, se non quello di altri incappati nelle trame del suo stesso male. Quell’uomo sarà trasalito, di stupore e di timore. “Lui mi tocca – avrà pensato il lebbroso – mentre gli altri mi sfuggono, Lui mi afferra mentre i più scappano, avvertiti dal mio gridare, che allontana me per primo, il mio cuore, dal male che soffro nelle mie carni. Sì, questo mio grido che semina la paura dell’impurità è per me il ricordo dell’ineludibile destino che porto, l’essere senza nome, né patria, né amici. Eppure Lui, come risposta al mio grido di aiuto, di guarigione, mi tocca, invece di ritrarsi da me, mi stende la mano, mi afferra. Io lo guardo come a dire: «Sai cosa stai facendo? Sai che io ti rendo impuro? Dimentichi forse che sono incapace di fare il bene, perché ciò che io lambisco diventa morte?». Eppure tu mi tocchi, non come uno sconosciuto che, involontariamente strattona qualcuno, all’ingresso della sinagoga o al mercato, per la calca. Tu vuoi toccarmi. Tu vuoi creare con me un contatto, non hai paura della morte che semino. E se prima ti ho detto, tremante e con una fede incipiente, nata dalla fama che ti precede: «Se vuoi, puoi purificarmi», ora mille volte te lo ripeterò, se non perché tu possa guarirmi, almeno per la gioia di sapere che tu non hai vergogna di me, che non ti sono di scandalo, che il mio male non ti proibisce di usarmi pietà e di farmi sentire, almeno per un attimo, una persona che ha una sua dignità, che gode della bellezza dell’identità di creatura che Dio ha concesso, con gratuita benevolenza, ad ogni suo figlio.

Dio con tutti si comporta così, quando ci accostiamo al Sacramento della rinascita che è la Riconciliazione. Come il Padre misericordioso, si getta al nostro collo e ci perdona, guarendoci dalla ribellione che ci aveva portati lontani dalla sua casa e reintegrandoci come figli degni di essere rivestiti e calzati, infilando al dito l’anello della figliolanza che noi credevamo perduta. Nulla è perduto con Gesù. Lui viene a salvarci, Lui giunge a liberarci. È questo che misteriosamente viviamo quando confessiamo i nostri peccati, incontriamo che la volontà di Dio nell’amarci è più grande di ogni nostra durezza di cuore. Il Signore non finisce di stupirci, per questo al vita cristiana divina un vivere la meraviglia dell’essere amati.

Perché dovrei temere il tuo male – sembra dire Gesù – perché dovrebbero essermi di scandalo le tue piaghe, la virulenza del tuo morbo che squarci la tua carne e provoca continui getti di sangue. In te mi rivedo, un giorno anch’io sarò come te, su una croce, il cui dolore mi sfigurerà, consumando le mie membra arso da quell’unico desiderio che sempre mi consuma, l’amore, da quel fuoco che le grandi acque dell’indifferenza dell’uomo non potranno mai spegnere, la misericordia. Pur volendo, non potrei non stentare la mia mano per raggiungere il tuo male, pur imponendomi di non venirti incontro, non riuscirei a farlo. Se anche tu non mi avessi supplicato, la mia misericordia mi avrebbe spinto a raggiungerti, il mio sguardo a farmi prossimo, il mio cuore a non lasciarti andare a mani vuote. Io voglio la tua guarigione, voglio la tua salvezza! La voglio come ho voluto il sole e la luna, le acque e la terra. Lo voglio come volli l’uomo e la donna e l’ordine dell’intera creazione. Io voglio rimuovere le cause della tua discriminazione, desidero il tuo ritorno nella città degli uomini, la tua comunione con i fratelli, la tua carità verso i discriminati che non hanno nessuno. Voglio restituirti a te stesso, perché tu, guardandoti, possa non più vergognarti, ma gioire e sorridere dicendomi: «Mi hai fatto come un prodigio, sono stupende le tue opere» (Sal 138,14). Voglio che la mia misericordia ti purifichi, il mio amore ti lavi, che la mia tenerezza ti rivesta perché la tua carne ridiventi come quella di un fanciullo. Sì, lo voglio con tutto me stesso, lo voglio, sii purificato!

Anche le nostre scelte di vita sono scandite da questa volontà, plasmata d’amore. Difatti, quel Sì che precede il consenso, nel sacramento nuziale, racchiude il sincero Lo voglio che il cuore pronuncia. dicono gli sposi, accogliendo il cammino della libertà dell’amore, del mutuo rispetto per tutta la vita, nell’accoglienza del dono dei figli. Lo voglio confessa davanti all’altare chi sente la chiamata di Dio ad essere una sola cosa con il cuore sacerdotale di Cristo. I presbiteri, infatti, offrono tutto se stessi, con Cristo sacerdote ed ostia, perché la salvezza e la redenzione fluiscano nelle membra della Chiesa, Sposa dell’Agnello. Lo voglio dicono, sedotti dall’amore divino che sempre previene la riposta dell’uomo, i consacrati che si offrono olocausto vivente per bruciare sulla croce, medesimo altare di Cristo, e donare vita al mondo. La nostra risposta è sempre unita e da unire quotidianamente a quella di Gesù, la sua volontà sostiene e rafforza la nostra, il suo amore a guidarci e a sostenerci nella prova.

Rimuovere le cause della morte è donare la vita

La guarigione del lebbroso è opera della compassione di Gesù che gli impone di presentarsi ai sacerdoti per accertare l’avvenuta guarigione e di non parlare con nessuno dell’accaduto perché non venga frainteso il suo ministero. Ma la gioia dell’uomo e tale da renderlo missionario della misericordia che il Signore gli ha usato.
Ogni discriminazione rappresenta una vera morte sociale. Il vero male non è il morbo che consuma il corpo, ma l’indifferenza che sperimentano le persone in difficoltà nei diversi contesti nei quali vivono ed operano. Superare il disinteresse per il cristiano è un’esigenza richiesta dalla fede nell’unico Dio, Padre di tutti gli uomini. Non esiste il diverso, ma la persona in difficoltà che ha diritto, tanto quanto me, a una vita dignitosa e serena. Dobbiamo ancora camminare tanto per acquisire questa sensibilità che è puro dono della carità di Dio in noi. Non ci può essere integrazione – sembra insegnare Gesù – senza che non ci sia guarigione, senza che vengano rimosse le cause del male, il pregiudizio che la paura alimenta e che ha come frutto la divisione e la diffidenza.
Maria, Madre degli Infermi – celebriamo oggi XXVI la Giornata del malato – ispiri il desiderio di farsi carico, come Gesù, delle persone ammalate e di alleviare le loro difficoltà con la cura premurosa ed attenta. Il male, ogni male non leda la dignità di ciascuno, siamo noi però che non dobbiamo permettere che il morbo nel corpo porti a scacciare le persone dal nostro cuore.




Aiutaci a continuare la nostra missione: contagiare la famiglia della buona notizia

Cari lettori di Punto Famiglia,
stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

CONTINUA A LEGGERE



ANNUNCIO

ANNUNCIO

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Per commentare bisogna accettare l'informativa sulla privacy.