V Domenica di Pasqua - Anno B - 29 aprile 2018

Legati come tralci alla Vite

di fra Vincenzo Ippolito

L’amore vero non abbandona il cuore dove ha liberamente scelto di abitare per tutti i giorni della sua vita. Il tralcio della persona che amo cresce e produce frutto, se è alimentato dalla mia linfa della volontà e del sacrificio, altrimenti, come il tracio, secca e non è più buono a nulla. Solo la famiglia può restituire al tessuto della società la vocazione autentica di ogni uomo a costruire, senza mai dividersi, la civiltà dell’amore.

Dal Vangelo secondo Giovanni (15,1-8)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

A grandi passi ci avviciniamo alla Pentecoste, giorno santo in cui accoglieremo lo Spirito che Gesù ha promesso. Senza il Consolatore, la Chiesa non esce dal cenacolo per annunciare il Vangelo, perché priva della forza vitale, come senza l’intimità del cenacolo, i discepoli non sanno cosa annunciare del mistero di Gesù Cristo, perché brancolano nel buio dell’incredulità. La liturgia, con sapiente gradualità, ci prepara a questa pioggia di Vita nuova, che infonde in noi il vigore per seguire il Risorto, annunciandolo con le parole e testimoniandolo con la vita. Il ritmo delle letture bibliche è sempre scandito da promessa (Vangelo) e compimento (1a Lettura), che si traduce poi in esortazione accorata perché non manchi mai nella Chiesa la tensione verso una vita cristiana sempre più autentica ed incisiva nella storia (2a Lettura).

Il brano degli Atti degli Apostoli (9,26-31) che leggiamo come Prima Lettura ci mostra come la Chiesa “si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo” (9,31). È lo Spirito che anima la vita comunitaria e agisce in Saulo, Barnaba e in quanti vengono alla fede, rendendoli annunciatori franchi della parola di salvezza. San Giovanni, nella Seconda Lettura, (cf. 1 Gv 3,18-24) ci sprona ad amare non “a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (3,18), per rimanere in Dio, osservando i suoi comandamenti. Nel Vangelo Gesù si definisce come la vera vite, chi è legato a Cristo è una nuova creatura e porta frutto, non ricevendo inutilmente la grazia della linfa. Un monito questo anche per noi: mai accogliere invano la Parola di Dio e l’Eucaristia, forza che ci sostiene nel cammino.

Aprire il cuore, senza paura

Con la pagina evangelica odierna, siamo nel cenacolo, la sera del tradimento. La Pasqua del Maestro è alle porte, mentre i discepoli si stringono intorno a Lui, ignare di vivere gli ultimi momenti della sua vita terrena. Il clima è intenso e amichevole, mentre la tristezza sembra velare il volto degli apostoli, quando Gesù apre il cuore, permettendo loro di bere a larghi sorsi dalla sorgente della sua intimità con il Padre. I discorsi raccolti dall’Evangelista e confluiti nei capitoli 13-17 della sua opera – solitamente definiti di “addio” – rappresentano il Vangelo del cuore di Gesù, i ricordi che Giovanni affida alla sua comunità perché l’oblazione del Maestro modelli la sequela dei discepoli.

Gli otto versetti che oggi leggiamo (Gv 15,1-8) sono il centro di questi grandi discorsi, quasi un cuore nel corpo. In essi il Signore, parlando della circolarità dell’amore tra Lui, il Padre e i discepoli ricorre all’immagine della vite e dei tralci, simbolo caro alla storia dell’antico Israele (cf. Is 5,1-7). Ma questa volta non è il popolo dell’Alleanza la vigna scelta e piantata da Dio, la vigna è Gesù ed è Lui stesso a dirlo, nell’ultima cena. Anche noi siamo con Gesù, ogni qual volta celebriamo l’Eucaristia. In quel momento entriamo nei suoi segreti pensieri, partecipiamo, per la sola grazia che Egli ci accorda, al mistero della sua divina intimità, donataci nella Parola e nel Pane. Fuori ci può essere anche la notte dell’errore e del dubbio, della persecuzione o della difficoltà, ma noi siamo con il Maestro, con noi c’è il Signore. “Se si accampa contro di me un esercito, non teme il mio cuore; se infuria contro di me la battaglia, proprio allora avrò fiducia” (Sal 27,3). Stare con Gesù è la radice della nostra gioia, il senso del nostro essere cristiani, da Lui abbiamo questo nome, da Lui solo dipende la nostra identità e la forza della nostra testimonianza. Cristo non ha paura di aprirci il cuore. Egli ha gioia nel sollevare il velo del mistero ed introdurci nella camera interna del suo animo, dove il Padre fa sentire al suo Figlio diletto la dolcezza della sua voce e l’amore che sempre lo sostiene e lo guida.

Anche noi abbiamo bisogno di luoghi di intimità e di tempi di familiarità, nei quali riscoprire e rafforzare la nostra reciproca appartenenza e godere l’uno della presenza dell’altro. Sono questi i momenti nei quali la condivisione è vitale e rappresenta il respiro del rapporto di coppia e con i figli, perché si avverte che si apre il cuore, quando ci si sente amati. Così fa Gesù con i discepoli, crea l’occasione e apre il cuore perché senza paura i suoi contemplino in Lui il volto del Padre. Le nostre relazioni familiari e comunitarie, siano essere parrocchiali o di religiosi/e, hanno bisogno di cuori che si aprono alla condivisione, rapporti scanditi dall’ascolto offerto e dal parlare sincero, perché è questo il ritmo che crea comunione e rende più intensa l’amicizia e l’affiatamento. Abbiamo bisogno di tempi di intimità, nei quali chiudiamo la porta e stiamo noi soli, perché non tutti possono sentire tutto. Ci sono delle cose che vanno sussurrate nel silenzio, perché quando è il cuore a parlare, non è semplice percepirne la voce. Ad aprire il cuore si impara, non lo si può imporre e neppure farlo per pura formalità, perché si avverte quando si è costretti, ma non lo si vuole.

In questo clima di intimità, Gesù si rivela “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore” (v. 1). Chi legge il Vangelo secondo Giovanni, sa che non è la prima volta che il Signore si presenta, utilizzando la formula classica della rivelazione del Dio del Sinai – “Io sono” – e facendola seguire da immagini della vita quotidiana, che lo definiscono in relazione al Padre e ai suoi discepoli. Gesù non solo si presenta come la vite, ma specifica anche “Io sono la vite vera”, quasi a dire che ci possono essere false viti, come intorno alle pecore possono circolare ladri e mercenari, che non hanno a cuore il bene del gregge. Tutta l’attenzione del testo è sull’aggettivo “vero” che spesso sfugge, nella lettura affrettata del brano. La presentazione che Gesù fa di se stesso è basata sull’autenticità. “Un albero – aveva già detto in precedenza – si riconosce dai frutti”, così anche una vite è vera se produce un raccolto abbondante, se si lascia coltivare con docilità, se non si oppone alle cure amorose dell’agricoltore. È quanto capita anche tra noi, nel tessuto delle nostre famiglie. Un matrimonio è vero e l’amore reciproco tra gli sposi si può definire autentico, se la promessa fruttifica nell’obbedienza quotidiana e nella ricerca sincera e senza pregiudizi della volontà del Padre. Un amore non scandito da parole autentiche e da gesti veri che riflettono nella vita i sentimenti del cuore ed i pensieri dell’animo, chiudono i rapporti nel formalismo e nell’apparenza e perde di senso, si parla sì, ma non c’è scambio, le parole trasmettono informazioni, ma non generano la vita nel cuore dell’altro/a, perché non portano in sé la volontà di trasmettere la vita. È quanto capita anche con il linguaggio del corpo: se dinanzi all’altro non si ha il coraggio di spogliarsi del proprio io, la nudità non è più il riflesso del desiderio del cuore di donarsi in pienezza e così, come Adamo ed Eva, si intrecceranno foglie che coprano nelle membra l’incapacità del cuore di vivere nella verità.

Gesù, invece, è vero, è sincero il suo rapporto con il Padre e con noi, perché, come creatura, ha bisogno di Dio Padre, della cura della sua mano, dell’amore e della tenerezza dei suoi gesti, come Signore nostro è Lui la nostra unica salvezza, senza di Lui non possiamo produrre frutto. Egli vive questa doppia relazione, con Dio e con noi, di dipendenza e obbedienza, confidenza ed abbandono, la prima, di misericordia e dono gratuito, l’altra. La vite è debole, fragile, va curata, accompagnata e Gesù non ha paura di essere vero nella debolezza, autentico nel manifestare il proprio bisogno nel fidarsi solo del Padre. Il cuore dell’uomo ha estremo bisogno di verità e di autenticità e se questo lievito manca alle famiglie cristiane e alle nostre comunità il mondo come imparerà che Cristo Gesù è la via, la verità e la vita per ogni uomo? La famiglia deve essere scuola di autenticità. Mai i figli devono vedere discrepanze o pareri contrastanti tra i genitori e se questi ci sono, le discussioni devono condurre a giocare a carte scoperte la partita della propria vita e del proprio rapporto di coppia perché i giovani devono vedere che non si bara, quando c’è di mezzo l’amore.

Nel cuore amante di Dio

Aprendo il cuore ai suoi perché entrino nel mistero dell’amore che non indietreggia dinanzi a nulla, Gesù confida “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore” (v. 19).

La prima cosa che notiamo è l’intenzione che guida i gesti del Padre/agricoltore: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Egli vuole che i discepoli del suo Figlio non sfruttino la linfa che la vite comunica, ma la mettano a frutto. L’intenzione che guida Dio è sempre buona. Egli vuole il nostro bene, anche attraverso modalità che a noi possono non sembrare opportune – c’è una modalità che noi consideriamo non opportuna, maggiore della croce di Cristo? – Egli rivela la potenza della sua misericordia, attraverso le cose che rispondono a criteri diametralmente opposti rispetto ai nostri. Abbiamo bisogno di riflettere su questo fatto, senza lasciarsi andare a pensieri che, sotto il pungolo del Nemico, ci allontanano da Cristo e dalla sua volontà. Abbiamo bisogno di convertire le nostre categorie per comprendere che Dio opera sempre per il nostro bene, anche quando permette momenti di dolore o situazioni incresciose, nelle quali non è semplice per noi barcamenarsi. Anche allora il Signore lavora perché la nostra gioia sia piena e si riversi nel cuore dei fratelli la vita nuova che nasce, come per Gesù, dall’offerta della propria vita. Il Padre non manca di prudenza, né si lascia prendere la mano dalla superficialità dello sguardo che si posa sulla vite. Egli agisce con cognizione di cause ed interviene con due gesti, egualmente importanti: sui tralci che non portano frutto, tagliandoli – non è Dio che elimina, ma è l’uomo che decide di non essere legato a Cristo ed il Padre ratifica solo una decisione che è della sua creatura – altro gesto è quello di potare il tralcio che porta frutto, perché porti più frutto. Il Padre non impone il suo amore, pretendendo un affetto che non sgorga naturalmente dal cuore, perché il diletto di chi ama è quello di essere ricambiato con eguale o maggiore intensità e in totale libertà. Dio, sembra insegnare tra le righe il Maestro, non pota e taglia a caso, ma rispetta la risposta dell’uomo alla proposta del Figlio. Il tralcio non è passavo, ma decide come rispondere al dono della linfa che passa dalla vite, se con i frutti o meno. Il discepolo che non rimane in Cristo viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano (v. 6). È la sorte riservata, con immagini diverse, anche al servo che non ha ben investito il suo talento (cf. Mt 25,30)

Il secondo gesto che il Padre/agricoltore pone è quello del potare, ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto(v. 2). L’amore di Dio non è dispotismo o capriccio, ma cura dell’uomo, capacità di vedere e porre dei gesti che, pur se dolorosi e non compresi in principio, portano in futuro frutti abbondanti. È importante riflettere anche su questo gesto di Dio. Ogni suo intervento nella nostra vita serve per un bene più grande, per il nostro maggior frutto, per costruire il futuro. Se riuscissimo a comprenderlo! Invece, siamo pronti a giudicare Dio, ribellandoci al suo progetto che è per noi fonte di vita vera e di felicità duratura. Ci sono tante situazioni nella nostra vita che vanno tagliate, perché non ci aiutano a crescere secondo Dio, mettendo a frutto la grazia/linfa che riceviamo da Cristo/vite. Il desiderio di Dio è che il tralcio faccia il tralcio, che la nostra identità di cristiani si manifesti in una vita santa, che la presenza dello Spirito del Risorto ci conduca a frutti maturi di opere di carità sincera. Il momento più significativo nella cura di una vigna è proprio il momento della potatura. In inverno o anche prima dell’inizio della primavera, il vignaiolo scende nel suo campo e lascia che il silenzio lo aiuti nel discernere, prendendo tra le mani i tralci della vite. Dopo il pensare, viene l’agire ed il silenzio è rotto dal rumore deciso del taglio delle forbici, mentre il tralcio reciso cade sul terreno e la pianta – se si sta avvicinando la primavera e ha già iniziato a rinverdire – lascia uscire la linfa. È il pianto della vite, il dolore della perdita di un tralcio. La potatura è necessaria, perché il frutto sia maggiore, ma noi, abituati a vedere sempre e solo il presente, non riusciamo a volvere lo sguardo all’orizzonte, per attendere con speranza il futuro che ora siamo chiamati a costruire. L’intervento di Dio nella nostra vita può destabilizzarci, portarci a soffrire, ma in quei momenti dovremmo avere il coraggio di guardare al di là e di assecondare l’opera del Padre che ha in mente il nostro bene. È ingiusto credere che Dio non si curi di noi, come è fuori luogo non andare alla radice di ogni suo gesto che è sempre e solo l’amore per noi. Bisogna fidarsi di Dio, perché Egli ha nel cuore un progetto di gioia più grande. «Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande» dice Lucia, nel suo monologo, ricordato con il titolo Addio ai monti dei Promessi Sposi (cap. VIII). Tendere ad un di più, senza accontentarsi, è ciò che rende in tensione il cristiano, nel desiderio di camminare verso quella perfezione della carità, meta del suo itinerario di sequela.

La cura della persona amata, la reciproca capacità di correggersi e di “tagliare” gesti e parole non consoni alla propria identità di sposi cristiani è l’impegno quotidiano di ogni vita condivisa nell’amore. Quante potature sono necessarie perché l’amore produca frutto! Un amore che non richiede potature, ma lascia che l’altro/a cresca senza ordine ed armonia, un amore che non accoglie, per il bene proprio ed altri, il rimprovero costruttivo ed il confronto pacato non è modellato sul rapporto Gesù – Padre e si espone a tagli definitivi, a rotture che portano alla fine del rapporto. Non si è agricoltori della vita dei figli, chiamati ad essere come “virgulti intorno alla mensa”, se non si interviene con determinazione ed amore, perché il cammino sia indirizzato al bene; non si è sacramento dell’amore di Dio se la propria sposa non è coltivata e considerata come “vite feconda nell’intimità della propria casa”; non si può dire di essere pastori con l’odore delle pecore, se le situazioni nelle comunità si incancreniscono e conducono a divisioni, senza che si prendano decisioni decise con prudenza; come può crescere la comunione tra i religiosi, se non si ha il coraggio di parlare chiaro e di vivere mutuo aiuto che è l’anima della scelta di seguire Cristo in totalità!

La famiglia, come ogni comunità, è il laboratorio dove si apprende la difficile arte della correzione reciproca, dell’accompagnamento paziente, dove non si guarda l’orologio perché ciascuno ha i suoi tempi di crescita e di maturazione. Tra le mura domestiche si apprende, infatti, che l’altro ti aiuta nel togliere la trave dal tuo occhio, mentre tu, con delicatezza, sei invitato a liberare la pupilla dell’altro dalla pagliuzza. È un’arte difficile quella del prendersi cura delle persone che amiamo. Spesso si imbocca la strada alternativa dell’accontentare o cedere alle moine altrui: quanti cedimenti per una pace formale, quante volte si scende a patti, incapaci di una ricerca sincera del vero e reciproco bene! Invece è necessario camminare insieme in un continuo discernimento per produrre “più frutto”. In questo itinerario di reciprocità, la parola di Gesù ci sostiene e rende le parole nostre vie di purificazione del cuore, perché il campo della relazione sia sgombro da pregiudizi. In famiglia più si parla con il cuore – se non si parla con il cuore ed in sincerità in famiglia dove si potrà farlo senza la paura di essere giudicati e condannati? – più si ascolta con disponibilità, senza pretendere di averla vinta e più si ricerca insieme la luce ed i problemi, anche quelli più difficili, trovano nell’amore e nel dialogo via di uscite e di soluzione.

La preghiera di Gesù rivolta ad ogni uomo

Le parole di Cristo toccano le profondità del suo cuore, quando dice ai suoi, quasi pregandoli: “Rimanete in me come io in voi” (v. 4). È il principio della reciprocità nell’amore e nel dono, perché solo da questa muta appartenenza si sviluppa e cresce la vita di comunione. Non le fughe, innescate dalle paure o le lontananze, mosse dalle incomprensioni ci permettono di vivere al meglio le relazioni tra noi, ma solo la capacità di restare nelle situazioni, condividendo ogni passo della vita della persona amata. Gesù vuole che ci sia questo travaso d’amore, da Lui a noi e da noi in Lui, perché, come nulla Egli trattiene per sé, nel dono che fa di se stesso, così anche noi siamo chiamati a donare tutto di noi, nella relazione con Lui, permettendo alla sua luce di rischiarare le tenebre del cuore e di vivere alla sua presenza.

Un amore che non rimane legato all’altro, che abbandona il cuore dove ha liberamente scelto di abitare per tutti i giorni della sua vita, è falso e nulla è resa la promessa d’amore scambiata, si è perso il sapore del sale, non si ha più la forza, come il buon lievito, di far fermentare la massa della vita. L’amore va nutrito con la linfa della volontà e del sacrificio, altrimenti, come il tralcio, secca e non è più buono a nulla. La famiglia è la vena che fa scorrere il sangue capace di nutrire la vita nell’amore e nel dono. Solo la famiglia può restituire al tessuto della società la vocazione autentica di ogni uomo a costruire, senza mai dividersi, la civiltà dell’amore.




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