XIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 8 luglio 2018

Perché legare le mani di Dio?

di Fra Vincenzo Ippolito

Spesso non ci rendiamo conto della potenza della fede e del nostro abbandono in Dio! Chi si fida di Dio, può smuovere montagne, sradicare un gelso e comandargli di piantarsi nel mare. Invece, colui che non ha fede, che non si abbandona in Dio, non crede nella sua potenza e impedisce al Signore di divenire suo alleato, nella quotidiana battaglia della vita.

Dal Vangelo secondo Marco (6,1-6)
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

La lettura continua del Vangelo secondo Marco ci porta questa domenica a Nazaret, dove il Signore, a motivo del suo insegnamento, è oggetto di stupore e di disprezzo, da parte dei suoi stessi concittadini. Se ogni uomo è un mistero per l’altro, ancor di più lo è Gesù Cristo, Dio nella forma di uomo (cf. Fil 2,7). Non tutti, infatti, riescono a comprendere ed accogliere la sua identità, così da sperimentare la salvezza e la liberazione che Egli solo può donare.
La Liturgia della Parola ruota proprio sulla difficoltà che accompagna Gesù Cristo e quanti, dietro di Lui, continuano la sua missione tra gli uomini. Nella Prima Lettura (cf. Ez 2,2-5), il profeta Ezechiele è mandato da Dio ad un popolo testardo e dal cuore indurito. L’incredulità di Israele non impedisce però al Signore di inviare i suoi messaggeri, per offrire continuamente possibilità di conversione. Dio, infatti, fedele al suo amore per Israele, suscita i suoi profeti, perché “ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genia di ribelli – [gli Israeliti] sapranno che un profeta si trova in mezzo a loro” (v. 5). Ezechiele, come ogni chiamato, deve accogliere l’incomprensione e l’avversione del popolo, come conseguenza della fedeltà a Dio, perché la Parola che annuncia è “segno di contraddizione” e la sua stessa vita partecipa del rifiuto destinato al Signore (cf. 1Sam 8,7-8). Alle difficoltà del ministero, che sorgono all’esterno, vanno poi aggiunte quelle che riguardano il cammino personale del chiamato, visto che ogni apostolo continua ad essere discepolo, sempre sulla via della conversione. La Seconda Lettura (cf. 2Cor 12,7-10) ci presenta la testimonianza personale dell’Apostolo. Egli, pur desiderando di essere liberato da ogni male, comprende che Dio non toglie le difficoltà – il testo parla di “spina nella carne” in 2Cor 12,7 – ma le abita, con la sua forza, perché “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). A rendere praticabile la strada di Ezechiele e di Paolo è la vita di Gesù che nel brano del Vangelo (cf. Mc 6,1-6) si mostra ben disposto a vivere il disprezzo e l’incredulità, perché la sua serenità non dipende dall’accoglienza o meno della sua parola, ma dalla certezza dell’amore del Padre per Lui.

Nazaret, inaspettata terra dell’incredulità

L’Evangelista descrive la scena di Nazaret prima della missione dei Dodici (cf. Mc 6,7-13) e dopo la guarigione dell’emorroissa e la resurrezione della fanciulla dodicenne (cf. Mc 5,21-43), brani letti la scorsa domenica. L’ordine degli eventi narrati fa comprendere ancor meglio l’intenzione dell’autore. Se la donna con perdite di sangue e Gairo, padre della ragazza morta, sono additate da Gesù come esempi di fede (cf. Mc 5, 34.36), i Nazaretani, di contro, rappresentano un antimodello per la loro incredulità e per l’incapacità a fidarsi di Dio, che rivela in Cristo la sua potenza. Proprio l’incredulità motiva la successiva missione dei Dodici, scandita dall’annuncio della conversione, dalla liberazione dallo spirito del male e dalla guarigione dei malati (cf. Mc 6,12-13). Sembra quindi che la vita ed il ministero di Gesù incontri ora accoglienza ora rifiuto, ma questo non compromette la sua determinazione nel continuare la sua missione, in obbedienza a Dio, per il bene degli uomini.

La narrazione si sviluppa per gradi. In primo luogo, Marco descrive l’incedere di Cristo che giunge a Nazaret – intenzionalmente se ne omette il nome, preferendo il termine patria, per collegarla, con molta probabilità, all’espressione proverbiale che verrà fornita in seguito (v. 4) – mentre “i suoi discepoli lo seguivano” (v. 1). Sembra che Marco, nello stendere il suo racconto, ponga volutamente il Maestro innanzi e quanti lo seguono in una posizione secondaria, quasi a dare tutta l’attenzione a Gesù, che sarà poi Lui il centro del brano, mentre i discepoli ritorneranno solo nella pericope successiva della missione (cf. Mc 6,6-13). Cristo è il pastore che “quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti ad esse” (Gv 10,4) e “lo seguono dovunque va” (Ap 14,4). Insieme agnello (Gv) e pastore (Ap), Gesù è l’unico Maestro da seguire, perché solo Lui ha parola di vita eterna (cf. Gv 6,68) e tutti conduce al Padre. Non c’è uguaglianza tra il Maestro e il discepolo, anche il consideralo compagno di cammino, si pensi sulla strada verso Emmaus, non toglie la distanza abissale tra noi e Lui, perché l’accondiscendenza misericordiosa che Egli ci accorda è il segno del suo amore e del desiderio di ricercare il nostro bene. Egli diventa uomo, in tutto simile a noi, eccetto il peccato, senza smettere di essere Dio, perché facendosi povero per arricchirci (cf. 2Cor 8,9), continua ad essere ricco della divinità che gli è propria per essenza. Ecco perché il Risorto alla Maddalena dirà “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Non solo esiste un diverso rapporto con il Padre, tra noi e Gesù – Egli è il Figlio della stessa sostanza del Padre, noi, invece, “abbiamo ricevuto uno spirito di figli adottivi” (Rm 8,15) – ma anche la relazione tra noi e Gesù non è e non può essere paritaria. Egli è Dio, il Signore ed il Creatore nostro, nel suo essere fratello nell’umanità. È necessario riconoscere la sua signoria e vivere soggetti alla sua regalità che fa liberi. Solo la sequela ci rende veri discepoli suoi e questo significa che è Lui a decidere dove andare e quando partire, proprio come accadeva nel deserto al popolo d’Israele, la cui marcia era decisa dalla colonna di fuoco. Questo significa confidenza ed abbandono, fiducia ed obbedienza, perché confessare che Gesù è il Signore ci porta a rimetterci nelle sue mani le nostre cause e a lasciar fare a Lui. Quando il discepolo ha raggiunto questo grado di docilità, vale a dire, quando non è legato a nulla, solo allora può dire che è Cristo la sua unica ricchezza, la sua forza ed il suo baluardo.

Dopo l’indicazione di luogo (“la sua patria”), l’Evangelista fornisce anche il tempo e lo spazio specifico dove si svolge la narrazione: “Giunto il sabato, si mise ad insegnare nella sinagoga” (v. 2). Anche gli altri Sinottici descriveranno la medesima scena. Luca amplierà la narrazione (cf. Lc 4,16-30), mentre san Matteo (13,53-58), seguendo Marco nella prosa asciutta, focalizzerà la sua attenzione sull’incredulità dei concittadini nei riguardi del Nazareno. Gesù insegna e più volte l’Evangelista ritorna su questo tratto specifico del suo ministero che, unitamente ai segni che compie, lo rende credibile. Da buon seminatore (cf. Mc 4,1-20), Cristo sparge la sua semente, ma non tutti accolgono con eguale disponibilità e sono terreno buono, capace di portare in abbondanza frutto. Diversamente dalla sinagoga di Cafarnao (cf. Mc 1,21-28), dove l’insegnamento del Maestro aveva provocato stupore, non impedendogli di liberare un indemoniato, a Nazaret, invece, i ragionamenti dei suoi concittadini conducono sì allo stupore, ma questo si traduce in disprezzo e nella volontaria incapacità dei Nazaretani a riconoscere la sua autorevolezza. Dinanzi a Gesù, non basta lo stupore per la sua parola e la meraviglia per le opere straordinarie che Egli compie. Dinanzi alla sua signoria è necessario fare una scelta, perché questo vuol dire assunzione di responsabilità e maturità nel cammino della vita. Rimanere tra color che sono sospesi non è quello che chiede il Signore!

La fede nasce dall’incontro con Gesù

Il brano evangelico odierno, oltre a descriverci il ritorno di Gesù a Nazaret, da dove si era allontanato, per ricevere il battesimo ed iniziare la sua predicazione in Galilea (cf. Mc 1,9), offre indirettamente anche le tappe che scandiscono il cammino della fede. Marco ritma bene i diversi momenti, anche se nel caso dei Nazaretani l’epilogo sarà l’incredulità ed il disprezzo, segno che non ogni cammino giunge al suo naturale compimento, senza impegno e volontà di lasciarsi interpellare seriamente e profondamente da ciò che, lungo la via, accade.

In primo luogo, dinanzi al mistero di Cristo c’è lo stupore che l’uomo sperimenta. L’Evangelista, infatti, appunta: “E molti, ascoltandolo, rimanevano stupiti” (v. 2). Egli, Dio e uomo, non è totalmente intellegibile per le creature. L’umanità assunta nel grembo di Maria rivela e, al tempo stesso, nasconde la sua identità divina, che resta pur sempre inaccessibile, senza la fede che apre alla comprensione del mistero. Come nei racconti di vocazione, il chiamato avverte il timore, dinanzi a Dio e alla rivelazione della sua volontà, così quando Dio opera in Gesù, con la potenza che gli è propria, l’uomo, avvertendo la straordinarietà dell’evento, non può non meravigliarsi. Stupirsi vuol dire avvertire il mistero e comprendere che l’evento in sé è inspiegabile, perché la mente non può contenerne la portata e darsene una ragione. Solo il cuore può, illuminato dalla grazia, accogliere il mistero nella fede. Non si tratta di esaurire razionalmente né Dio né la sua volontà, quanto, invece, di riconoscere la sua presenza, accogliendo l’impossibilità a varcare la soglia del suo mistero, senza un atto di puro abbandono. Non si può rimanere alla porta del mistero, perché la sola presenza di Gesù, il suo insegnamento e i prodigi della sua mano interrogano ogni uomo e lo spingono ad una scelta. Cristo non ci può lasciare indifferenti, come anche la Chiesa che, misteriosamente, continua la missione di salvezza del suo Signore, con la forza del suo Spirito. Non si può rimanere nello stupore per sempre! Questo vale sia per i discepoli che, sul Tabor, contemplano la gloria del Signore e vorrebbero rimanere lì, quasi fermandone la contemplazione, come per i tanti che, seguendo il Maestro, lo credono un guaritore. Pietro, Giacomo e Giovanni devono comprendere che scendere dal monte è necessario per vivere una fede adulta che si scontra con il mistero della croce e sa attendere l’alba del giorno dopo il sabato, per vedere che la morte non ha mai l’ultima parola per chi confida nella potenza del Signore; così come tutti coloro che domandano la guarigione, devono camminare verso la salvezza e aprire il cuore, perché è lì che si annida il male e si accovaccia il Nemico, impedendoci di lasciare nelle mani di Dio la nostra vita.

Il secondo passo è dato dalla riflessione, dalla capacità di interrogarsi su quanto Gesù Cristo insegna ed opera. È quello che fanno gli abitanti di Nazaret, ponendosi quelle incalzanti domande che l’Evangelista riporta nel suo narrare. Avere il coraggio di porsi degli interrogativi dinanzi a Dio che ci viene incontro è importante, come anche il cercare di formulare delle risposte soddisfacenti risulta essenziale. Non devono incuterci timore le domande che nascono nel cuore e neppure dobbiamo scacciarle, perché avvertiamo di essere destabilizzati nelle nostre piccole e grandi sicurezze. Parlare al proprio cuore, scendere in se stessi e divenire consapevoli di quanto ci portiamo dentro è il nostro quotidiano impegno. Come vivere senza parlare con il proprio cuore, senza dargli voce? Immersi nel frastuono quotidiano che ci impedisce di avere tempo per noi, abbiamo sete di silenzio, come possibilità a noi offerta per riappropriarci di noi stessi e vivere, con più consapevolezza, il mistero della nostra interiorità, lì dove Dio ci visita con la sua grazia e ci parla.

La capacità introspettiva – i concittadini di Gesù lo dimostrano – non riguardano solo le domande fondamentali che ciascuno si porta dentro, il mistero della propria vita – chi sono? Da dove vengo? Dove vado? – ma anche il mistero della vita dell’altro. I Nazaretani comprendono che non possono fermarsi ai segni che Gesù compie, devono entrare nella sua identità più profonda, superando lo stupore e creandosi un varco tra i tanti ragionamenti che si superano solo con risposte appropriate. Essi si chiedono, appunta San Marco: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?” (v. 2-3). Non solo cercano di vedere l’origine del ministero di Gesù che tanto li stupisce, ma, al tempo stesso, confrontano quanti essi sentono (la sua sapienza) e vedono (i prodigi che compie), con quanto conoscono di Lui. In questo modo, cercano di spiegare la vita di Gesù, pur senza comprendere la loro pretesa, con il solo ricorso ad una lettura orizzontale degli eventi, non c’è profondità nel loro ragionamento, capacità di porre come incognita Dio e la sua totale libertà nel rivelarsi e nell’agire con potenza nella storia. Pensare, credendo di poter tutto risolvere con la mente, volendo chiudere ogni cosa in ragionamenti ben strutturati, non è possibile. La storia in generale, ed il mistero di Cristo in particolare, non si possono spiegare senza Dio ed il suo rivelarsi. Il mistero resta mistero, se non si accoglie con fede la vita propria e altrui, nel desiderio di varcare la soglia dell’arcano per capire ciò che del mistero ci investe, interpella e trasforma. In tal modo, i Nazaretani partono bene, possiamo dire, ma poi si perdono per strada, perché si fermano all’apparenza, al ministero di Gesù, senza giungere al cuore della sua identità, per confessarlo Messia e Salvatore.

La ragione, senza la fede, non supera l’orizzonte umano e non giunge ad una sua comprensione completa. Non è possibile spiegare la nostra vita fermandoci alla sola apparenza. Noi non siamo ciò che gli altri vedono o credono di vedere e neppure siamo assimilabili alla storia di coloro che ci hanno preceduto. Ciascuno di noi è quello che decide di essere. Non c’è educazione o formazione che possa determinarci al tal punto da sopprimere in noi l’anelito alla gioia e alla libertà. Come i Nazaretani non possono chiudere Gesù nei loro ragionamenti così anche noi dobbiamo rifiutare ogni tentativo di voler chiudere il mistero della nostra vita negli angusti spazi della mentalità corrente. Il cristiano non vive di mondanità, i suoi non sono i valori del mondo che si piega alla legge del più forte e neppure si lascia portare da quello che gli altri pensano o vogliono credere. Dobbiamo imparare ad affrancarci dai preconcetti degli altri, se vogliamo essere veramente noi stessi e perseguire ciò che il Signore ci chiede. Dobbiamo liberarci dai condizionamenti di un passato che rappresenta la nostra radice vitale, ma che non può spiegare in tutto quello che siamo, vogliamo essere e che il Signore ci chiede di essere. Dobbiamo credere che siamo un mistero per noi stessi – Agostino diceva di essere un grande problema per se stesso – e custodirlo come la cosa più preziosa, il sacrario più bello dove il Signore mette la sua dimora e pone la sorgente del suo Spirito.

Alla tentazione del razionalismo – spiegarsi tutto con l’uso della sola ragione – si aggiunge un secondo tranello, non meno deleterio del primo, anzi più sottile e difficilmente riconoscibile, quello del dare tutto per scontato. Probabilmente senza accorgersene, i Nazaretani, infatti, sono convinti di conoscere già bene Gesù, visto che i suoi familiari abitano nella loro città. Nulla di nuovo nella vita dell’altro, niente che non sia spiegabile, con il semplice ricorso a fatti e persone già conosciute. Il dare per scontato è segno di grande superficialità, vuol dire ricorrere a idee stereotipate e spesso banali, che non portano da nessuna parte. Già è una pretesa credere di conoscere il Falegname di Nazaret e Maria, sua moglie, ancor di più lo è considerare Gesù nella sola dimensione umana, visto che Egli è Figlio di Dio fatto uomo.
È un grave errore classificare le persone per i luoghi comuni che frequentano, come per la nascita o la famiglia di appartenenza. I soli dati anagrafici non dicono nulla di quello che siamo veramente, perché non sono le poche notizie che si possono leggere da una pagina di archivio, nello stato civile a poter contenere la nostra vita, i sogni e le speranze che ci portiamo dentro, l’impegno del quotidiano affannarci, le gioie che donano energie nuove al nostro esistere. Dobbiamo imparare a non dare nulla per scontato, perché sono le cose semplici che colorano la vita di una gioia straordinaria. Si tratta della spiritualità del quotidiano, dove ogni cosa è importante perché diventa occasione per amare ed essere amati, per conoscere e farsi conoscere, per vivere l’avventura dell’amicizia e dell’incontro. Dare per scontato significa far morire ogni rapporto e chiudere il cuore dell’altro nel forziere delle cose che già si conoscono. Noi, invece, siamo soggetti al tempo, diveniamo ciò che siamo, soggetti al continuo flusso dell’essere, costruiamo la nostra vita e scegliamo il nostro domani. Se la nostra esistenza è soggetta al movimento, come allora credere che dell’altro e di noi conosciamo tutto? Anche del mistero di Dio, apprendiamo dalle esperienze che facciamo il suo vero volto, perché comminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo chiamati a vivere, lasciandoci continuamente meravigliare da Dio e dagli altri, in quella scoperta continua di Dio e dell’altro che rende la nostra vita una continua avventura.

La nostra incredulità lega le mani anche a Dio

Lo sbocco del ragionamento dei concittadini di Gesù non è la fede, come ci si aspetterebbe, dopo lo stupore e la riflessione, ma lo scandalo. Difatti, l’Evangelista appunta “Ed era per loro motivo di scandalo” (v. 3). Quando la ragione non riesce a comprendere, quando non ci si lascia illuminare da motivazioni più alte, quando ci si chiude in se stessi, credendo di poter fare tutto, proprio allora la dinamica della comprensione del mistero si blocca e il preconcetto ed il giudizio portano a chiusure, a strade sbarrate che dimostrano unicamente la propria arroganza e supponenza. Dio, infatti, resiste ai superbi, ma agli umili fa grazia (cf. 1Pt 5,5). Lo scandalo negli abitanti di Nazaret, sorge dinanzi alla modalità nuova che Dio attua in Gesù, oltre che nei contenuti della sua predicazione. Se in precedenza i parenti lo consideravano fuori di sé e gli scribi di Gerusalemme un indemoniato (cf. Mc 3,20-22), non stupisce che i suoi concittadini lo considerino motivo di disprezzo. Sono queste i volti dell’incredulità, facce di un unico mistero di iniquità, della determinazione di osteggiare Dio e di sentirsi giudici del suo rivelarsi, dei suoi interventi nella storia degli uomini. Lo scandalo è quel senso di indignazione e di disprezzo che sorge nel cuore, quando le nostre attese non si realizzano e quello che noi pensavamo e volevamo non si concretizza. Da questo comprendiamo che la radice dello scandalo è l’incapacità di aprirsi alla novità e di lasciarsi determinare da essa. I Nazaretani si attendono da Gesù un comportamento, mentre la sua presenza, il suo insegnamento, la sua parola dicono altro, perché Egli è altro, rispetto a ciò che essi pensano di Lui. In tal modo, il loro scandalizzarsi diventa l’atto di accusa della loro incapacità a lasciarsi illuminare da Dio, accogliendo la possibilità che gli viene offerta di sperimentare la salvezza e la redenzione che Cristo dona.
Quante volte l’altro mi è di scandalo perché esce dai miei schemi e non rispetta le indicazioni che io impongo? Perché la mia ira diviene disprezzo, quando non riesco a lasciare libero Dio e gli altri di rivelarsi per quello che sono? È giustificata la ribellione, fondata la mormorazione, accettabile la presunzione, quando, invece, non è l’altro che deve modellarsi su di me, ma sono io che devo accogliere la diversità e considerala una ricchezza?

Dallo scandalo al legare le mani di Dio, il passo è breve. Difatti, la fede dell’emorroissa è stata capace di strappare la guarigione, attraverso il semplice toccare il mantello del Signore, mentre l’abbandono confidente di Giàiro è stato premiato con la resurrezione della sua figlioletta dodicenne, passando attraversando le tante avversità della sua fede, prima l’annuncio di morte e poi la beffa di quanti, nella sua casa, non credevano in Gesù. Non così con i Nazaretani. Se Dio obbedisce a chi ha fede, perché quanti pongono la propria vita nelle mani dell’Onnipotente, non saranno mai confusi – lo ricorda il salmista “Chi confida nel Signore è come il monte Sion: non vacilla, è stabile per sempre” (Sal 124,1) – al contrario, coloro che ci chiudono nell’incredulità e non si lasciano visitare dalla potenza di Dio in Gesù Cristo, non troveranno misericordia e rimarranno nelle tenebre che la loro stessa ostinazione avrà creato. L’incredulità lega le mani di Dio e rende impotente la sua forza, inoffensiva la sua onnipotenza. Lo appunta l’Evangelista “E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì” (v. 5). I miracoli rafforzano la fede, ma è la fede che suscita l’intervento potente di Dio nella vita dei suoi discepoli. Quanti seguono Gesù sono chiamati a vivere di pura fede, di incondizionata obbedienza e di cieco abbandono.
Spesso non ci rendiamo conto della potenza della nostra fede e del nostro atto di abbandono nelle mani di Dio! Il Maestro ci ammonisce a crescere nella consapevolezza che colui che si fida di Dio può smuovere montagne (cf. Mt 17,20) e sradicare un gelso e comandargli di piantarsi nel mare (cf. Lc 17,6) – come ogni medaglia ha il suo rovescio, così le parole di Gesù – colui che non ha fede, che non si abbandona in Dio, che non crede nella sua potenza, che misconosce la possibilità della sua presenza e della sua azione, si preclude la strada della salvezza ed impedisce al Signore di divenire suo alleato, nella quotidiana battaglia della vita. Come potrà il Signore intervenire, se non gli si dà spazio? Come agirà, se non si crede nella sua azione e nella sua potenza? È così in ogni rapporto, se non ho fiducia nella persona che mi è accanto, la mia diffidenza costruirà un muro tra noi e lei non sarà libera di essere se stessa. Condizionata da quello che penso e credo di lei, non verrà fuori con tutte le sue potenzialità e getterà la spugna nel rapporto e non investirà più nulla nella relazione. È triste ed amaro considerare che noi leghiamo Dio con la nostra incredulità e lo portiamo stupirsi per i nostri ragionamenti contorti che ci portano ad essere sempre al centro. Non credere in Gesù, nella grazia che dona, nella salvezza che offre è come stringere Gesù alla colonna della flagellazione. L’incredulità lo lega e gli impedisce di operare il nostro bene, mentre lo scandalo lo percuote. Credere, invece, significa dare spazio agli altri, lasciarli liberi di fare ciò di cui essi si sentono capaci, magari spronandoli nel mettere a frutto i doni che hanno e che, spesso, rimangono nascosti ed inespressi. Credere in Gesù significa vivere, sapendo che Lui ci è accanto, è parte della nostra vita, fautore delle nostre scelte, sorgente dello Spirito che ci sostiene e motiva ad operare nel bene.

Imparare la perfetta letizia (cf. Gc 1,2-3) e non lasciarsi turbare da nulla – sembra essere questo l’insegnamento che ci viene dalla liturgia di oggi – è possibile solo a chi fa della fede la sua forza. Basta andare alla scuola dei santi per accorgersene, magari rileggendo il brano dei Fioretti di san Francesco (Capitolo VIII: FF 1836), nel quale il Poverello di Assisi esemplifica per frate Leone la via della semplicità e della confidenza. Solo chi confida in Dio, sorride dinanzi ad ogni difficoltà e sa per fede che il Padre non farà attendere la sua forza e la sua salvezza.




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