XVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - 29 luglio 2018

L’occhio del Maestro va oltre l’orizzonte

di Fra Vincenzo Ippolito

Amare significa anticipare la difficoltà, prevenire le crisi, evitare i problemi, questo non perché non si vuole che l’altro cresca, ma solo perché non è amore quello che dinanzi alla difficoltà intravista nella vita dell’altro, fa finta di nulla e non si prende a cuore ciò che potrebbe accadergli.

Dal Vangelo secondo Marco Giovanni 6,1-15
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Continuando la lettura del Vangelo secondo Marco, dopo il racconto del ritorno dei Dodici dalla missione e la sosta insieme con il Maestro, interrotta dalle folle che cerca il Signore (cf. Mc 6,30-34), ci aspetteremmo la seconda parte della pericope evangelica marciana, con la narrazione della moltiplicazione dei pani (vv. 35-44). La liturgia, invece, segue il racconto dei medesimi eventi, descritti però dall’evangelista Giovanni. Così facendo, da oggi, per quattro domeniche consecutive, il capitolo sesto del Quarto Vangelo – la grande catechesi sul Pane di vita – nutrirà la nostra riflessione e preghiera, per gustare e vivere la grazia dell’Eucaristia, prefigurato nei cinque pani d’orzo e nei due pesci che il Signore prese, su quali rese grazie e che distribuì alle folle.
La Prima Lettura (cf. 2Re 4,42-44) ci propone il racconto del miracolo operato dal profeta Eliseo, per sfamare le folle. Tra i tanti prodigi compiuti dall’uomo di Dio, viene ricordato anche quello dei venti pani d’orzo e del grano novello che, nell’incredulità del servo del profeta, è diviso tra le folle che “mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore”. Chi opera meraviglie per i suoi fedeli, infatti, è Dio. “Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa – ci fa ripetere la Chiesa, con le parole del Salmo 144e tu dai loro il cibo a tempo opportuno. Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente”. Il Signore non abbandona i suoi fedeli, perché sempre “è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità”. Nella Seconda Lettura, invece, l’Autore dell’Epistola agli Efesini (cf. 4,1-6) chiede ai cristiani di mettere a frutto la grazia della vocazione, in una degna condotta di vita, che persegue l’unità, “con umiltà, dolcezza e magnanimità”, confidando in Dio Padre “che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti”. Nel Vangelo, san Giovanni, quasi raccogliendo i fili tematici dei precedenti brani biblici, ci presenta Gesù che dona con la sua Parola, il nutrimento che sostiene quanti lo seguono, dimostrandosi profeta potente in parole ed opere.

Dio prende la nostra povertà e la trasforma in ricchezza: è questo l’insegnamento che la liturgia vuol donarci. A ben vedere si tratta della dinamica che il Figlio ha fatto propria, con la sua incarnazione (cf. 2Cor 8,9). Ma perché il Signore operi prodigi per noi, è necessario che l’uomo offra il suo niente e consegni nelle sue mani quel poco che ha, segno del suo desiderio di affidarsi a Lui, lasciandogli la libertà di operare ciò che crede bene per noi.

Cercare e seguire il Signore

Il brano evangelico odierno ci presenta, sullo sfondo della festa di Pasqua, Gesù che, con i suoi discepoli, passa dall’altra parte del mare di Galilea. Lo stacco dal precedente capitolo è rilevante: da Gerusalemme si passa a Tiberiade, dopo la guarigione dello storpio (cf. Gv 5,1-9) e la disputa seguita con i Giudei (cf. Gv 5,10-47). Molta gente segue il Maestro, ma sembra lo faccia per interesse, se Giovanni appunta “lo seguiva molta gente, perché vedeva i segni che faceva sui malati” (v. 2). I miracoli attirano la gente, le guarigioni incantano le folle, i segni richiamano, come una calamita, tante persone che sperano in Cristo per ottenere la vita. Il Maestro lo dirà in seguito: “Voi mi seguite perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati” (v. 26). Sembra strano, ma si può seguire Gesù anche senza credere in Lui, non ascoltando la sua Parola, non prendendo in considerazione la sua proposta di vita, portati solo dal desiderio di realizzare i propri sogni.

Tanti seguono il Nazareno, ma in realtà stanno andando dietro a quello che pensano che il Maestro sia e possa compiere per loro, seguono le proiezioni e i desideri del proprio cuore malato di egoismo, non Gesù Cristo, il Figlio unigenito del Padre che per la nostra salvezza – quella vera che spesso non vogliamo neppure vedere e capire! – si è fatto figlio dell’uomo, nel grembo della Vergine. Gesù ha una sua identità ed una missione sua propria, che non sono io a dargli. C’è una dimensione oggettiva della sua Persona, che io devo unicamente accogliere. È questo è vero sia a livello personale, come anche di comunità, di coppia e di famiglia. Gesù deve essere accolto ed amato, ascoltato e seguito non “secondo me o secondo noi”, ma come Lui vuole essere amato ed accolto, come “mio Dio e mio Signore” (Gv 20,28). Noi siamo chiamati a realizzare la volontà del Padre dietro Lui, non a piegare il disegno di salvezza, alla misura bassa e limitata della nostra mente. Le folle – ed è questo che l’Evangelista sembra ben sottolineare – si fermano alla superficie, non riescono ad andare in profondità nell’incontro con Cristo. Hanno visto “i segni che compiva sugli infermi”, ma li interpretano in maniera errata. I miracoli per loro non sono la prova che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15), non rappresentano un pungolo per la conversione del cuore e la trasformazione della vita, secondo Dio e la sua volontà, codificata dalla Legge ed ora rivelata in pienezza attraverso Gesù Cristo. Per i Giudei, i prodigi che il Nazareno compie non dicono ciò che Egli è – il Figlio di Dio, il Messia promesso, il Signore che visita il suo popolo – ma indicano che tutti possono essere risanati. I segni del passaggio di Dio sono evidenti, ma bisogna anche saperli leggere, nel giusto modo. Come Eva nel giardino di Eden, i contemporanei di Gesù guardano i segni, ma in cuore si chiedono come possono essere risanati, come ricevere miracoli e trarre frutto dalla mano del Maestro che sembra risanare tutti. Si tratta della strumentalizzazione di Dio, della sua onnipotenza. Non si segue Dio per quello che è, ma per ciò che potrebbe fare per noi e l’impegno di chi lo segue diviene così quello di farsi spazio e di superare gli altri, nell’unico desiderio di ottenere da Gesù quanto si crede giusto e necessario per sé.

Io perché seguo Gesù? Perché la mia famiglia vuole Gesù come pietra su cui costruirsi, roccia di salvezza su cui edificarsi? Perché è così importante per noi – lo è veramente? – essere e dirsi cristiani? Come vivo la sequela del Signore, come le folle che cercano i miracoli o come Maria di Betania che, seduta ai piedi del Maestro, ascolta la sua Parola per fare di Lui il motore interiore di tutta la sua vita? E, soprattutto, vogliamo Gesù o le cose di Gesù? Cerchiamo Lui o la sua guarigione, il suo essere segno di salvezza o i segni che Lui dona alle folle? Siamo attratti da Dio o dalle cose di Dio? La vita della mia comunità, parrocchiale o religiosa che sia, è un cammino dietro a Gesù, ma quale Signore seguo e come lo seguo? Con le mie idee, oppure ho compreso che stare sulla via della sequela comporta il rinnegamento della propria volontà, per trovare nella volontà del Padre la propria gioia e la realizzazione piena della vita?

Lo sguardo empatico di Cristo sulle folle

Ciò che colpisce nel brano odierno è lo sguardo di Gesù, dopo che sono stati descritti, in modo cadenzato, i suoi movimenti: “Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli […] alzati gli occhi vide che una grande folla veniva da lui” (vv. 3-5). Marco utilizza il termine compassione per indicare come l’occhio vigile del Maestro lo conduca a partecipare intimamente alla difficoltà delle folle stanche e sfinite (cf. Mc 6,34), mentre Giovanni descrive la capacità del Signore, frutto del suo amore grande, di entrare nella vita della gente, senza neppure parlare. C’è una sensibilità che solo Maria, la Madre di Gesù, dimostra alle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-11) e che qui ritorna nell’atteggiamento del Figlio suo: entrare nella vita degli altri, comprendendone il bisogno, non da padroni che signoreggiano e comandano, ma da servi, pronti a darsi da fare perché regni nella vita dell’altro l’armonia e la gioia. Questo fa l’amore di Cristo con noi! Non mortifica, ma accoglie, mai violenta, ma risana, non giudica, ma ricopre tutto di misericordia. Amare significa dar voce al cuore dell’amato, senza fargli vivere lo scandalo o anche la vergogna di farsi vedere bisognoso. L’amore previene nel silenzio, legge negli sguardi, comprende le situazioni, accompagna con la compassione, risolve senza strepiti, scompare nel nascondimento. I discepoli – è quanto dimostra la risposta di Filippo – “hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono” (Sal 135,16), sono incapaci di farsi prossimi, di entrare con delicatezza nel dramma dei fratelli, mettendosi al loro servizio, per risollevarli dalla difficoltà che sperimentano.

Lo sguardo di Cristo, diversamente da quello delle folle che lo seguono per i segni che compie e dei discepoli che si fermano all’apparenza, va in profondità. I suoi occhi colgono nel venire a Lui delle folle il desiderio dell’animo che anela, pur senza saperlo, a Dio che solo può dare pace e salvezza. Vedere il positivo, guardare con speranza la vita propria ed altrui, non fermandosi all’interesse che l’altro dimostra, comprendendo che anche il bisogno che lo anima è il volto esteriore di un bisogno più grande e profondo: sono questi i passi che il Signore compie, con la pedagogia dell’amore che sempre lo caratterizza. In tal modo, il Vangelo non ci offre solo ciò che il Maestro ha detto e compiuto, ma ci indica una strada da percorrere, un cammino da intraprendere, una metodologia educativa da attuare, una proposta concreta da vivere, animati dall’amore che è l’unica forza capace di condurci sulla via del bene. Gesù non scaccia le folle perché vede i loro desideri contrari a quanto Egli annuncia e vuole, ma comprende, più di quanto essi stessi capiscano del loro cuore, che c’è un mondo da esplorare e non si può giudicare senza camminare verso il centro della vita dell’altro. L’occhio del Maestro non si ferma all’orizzonte – è questo uno dei tratti più belli che il Vangelo lascia intuire – ma vede oltre, riflette sul futuro, guarda sì il presente, la situazione concreta, ma la mente ed il cuore vanno alla difficoltà che le genti incontreranno, ritornando alle proprie case. Amare significa anticipare la difficoltà, prevenire le crisi, evitare i problemi, questo non perché non si vuole che l’altro cresca, ma solo perché non è amore quello che dinanzi alla difficoltà intravista nella vita dell’altro, fa finta di nulla e non si prende a cuore ciò che potrebbe accadergli. Chi ama ha l’occhio lungo, vede il futuro, intuisce i problemi, previene le soluzioni e dona strada nuove perché le cadute si evitino e la vita trascorra nell’armonia e nella pace.

Cristo entra in profondità in ciò che le folle stanno vivendo, il suo occhio riesce a leggere quello che altri non notano, né rifiuta coloro che vanno a Lui, mossi da motivi troppo umani. Gesù nessuno rimanda a mani vuote e la sua parola ne rappresenta la diretta conseguenza del suo sguardo che tutto abbraccia e comprende. Prima si analizza la realtà, sembra dirci l’Evangelista, con prudenza e volontà di non fermarsi all’apparenza e solo dopo si interviene, con determinazione ed impegno fattivo, con una parola che indichi un cammino e mostri la strada da percorrere, nella risoluzione della situazione problematica che si è presentata. Dopo aver guardato le folle, Gesù si rivolge a Filippo, perché partecipi al suo sguardo e al suo desiderio di farsi carico della stanchezza di quella gente. Scrutare la storia come capacità di capire quanto accade, riflettere su quanto è stato osservato, con lo stupore di chi guarda con speranza, parlare, rendendo partecipi gli altri della propria volontà di intervenire: sono questi i passaggi che sembra di cogliere nel brano evangelico. Il Maestro, in tal modo, bandisce l’istintività, mitiga la forza dirompente del pregiudizio, indica la necessità di condividere con gli altri i propri pensieri, mostra quanto sia importante fare insieme agli altri, perché nella vita cristiana non è solo importante quello che si fa – la volontà di Dio per il bene dei fratelli – ma anche come lo si fa, insieme, nella ferrea volontà di lavorare con gli altri per costruire il Regno di Cristo.

La persona che mi è accanto – Gesù lo mostra bene – è un mistero da scoprire e comprendere, con amore. A nulla servono giudizi sommari, perché l’animo umano è difficilmente comprensibile con un solo sguardo. Bisogna avere la costanza di frequentare il cuore dell’altro, di stargli accanto, cercando di superare la corteccia per entrare nel midollo, proprio come Gesù fa. È necessario nell’amore anticipare l’altro, prevenire e mettere in guardia, davanti ad eventuali errori. Nelle nostre famiglie, se non si innesca la dinamica del prevenire e dell’accompagnare, l’amore non è maturo, perché guarda il contingente, ma non fissa l’orizzonte e non lavora in prospettiva di un tempo lungo. Lo stesso deve verificarsi con i figli. Come Gesù spinge i discepoli a porsi il problema degli altri, anche tra marito e moglie è necessario aiutarsi nell’aprire gli occhi su situazioni che uno dei due non riesce a vedere o per miopia o per cattiva volontà. Tra gli sposi deve attuarsi questa dinamica di mutuo aiuto, ma la donna, la moglie, la madre deve, come Maria a Cana – la sensibilità è donna e solo a lei il Creatore ha concesso il genio, definito per questo tutto femminile – spingere il suo sposo ad intervenire con determinazione, a prendersi a cuore con responsabilità ed impegno maggiore la vita dei figli, mai nascondendo la testa sotto la sabbia per non vedere. La neutralità non è mai una virtù, perché segno di equilibrismo e di incapacità a prendere le proprie responsabilità.

La prova come occasione per crescere

Dopo aver visto le folle, lasciando che nel suo cuore si imprimessero i loro reconditi aneliti, Gesù si rivolge a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (v. 5). Il successivo intervento dell’Evangelista svela l’intenzione della parola di Cristo “Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere” (v. 6). La chiave di lettura offertaci dall’Autore ci conduce a ripensare la dinamica della relazione che il Maestro vive con i suoi, oltre che a considerare il termine prova, con un significato diverso rispetto a quello che noi sempre gli attribuiamo.

In primo luogo, Gesù desidera che i discepoli condividano il suo stesso sguardo e, dinanzi alla folle, si sentano interpellati in prima persona a vivere fattivamente il comandamento dell’amore del prossimo, sul cui volto riconoscere quello del Signore. Per fare questo, come l’oro si prova nel crogiolo, così il cuore dei discepoli di Cristo deve passare attraverso il vaglio della parola di Gesù. Egli non parla perché vuole che Filippo e gli altri soccombano al suo comando e falliscano, così da dimostrare la sua superiorità. Se così fosse, non sarebbe la misericordia e la compassione a muovere ogni sua azione e parola. Gesù “sapeva quello che stava per compiere”, ma nondimeno ha bisogno di provare l’abbandono di Filippo, la sua fede, il suo confidare totalmente nella parola del Maestro. Dio prova l’uomo, non lo tenta. Per noi, questi termini – tentazione e prova – appaiono sinonimi, ma non lo sono. Tentare è del demonio che getta i suoi lacci per farci cadere, mentre Dio prova perché desidera che l’uomo esca allo scoperto, dimostri la fede che si porta nel cuore e metta a frutto i talenti che il Padrone ha elargito con tanta abbondanza. Cristo, provando Filippo, non desidera che soccomba, ma solo che manifesti il suo amore, che traduca in opere la sua fede, che dimostri nella pratica il suo confidare nella parola sua. Questo perché Dio “non gode per la rovina dei viventi” (Sap 1,13), desiderando la felicità dell’uomo e la sua conversione a Lui, che è la sorgente della vita e della gioia. In tal modo, per meglio comprendere il senso del brano, potremmo anche dire che Dio prova l’uomo ovvero gli offre occasioni per dimostrare il suo amore e la sua fede. È quanto capita anche a Filippo. Gli viene offerto di venir fuori dall’anonimato della cerchia dei Dodici e di rispondere personalmente a Cristo che lo interpella, confidando in Lui e affidandosi completamente nelle sue mani onnipotenti. Gesù mette alla prova Filippo perché vuole liberarlo dalla dinamica del calcolo e dalla quantizzazione dell’amore. Le persone – sembra dire Gesù – non possono ridursi a merce di scambio, a numeri, a soldi che, alla fine, non può essere reperito e quindi blocca ogni cosa. Il bene che Gesù chiede, la carità che Cristo propone non ha bisogno di banche o di fondi, ma di persone che credono nella potenza del suo Amore, nella rettitudine della sua proposta, nell’onnipotenza della sua Parola. Dio chiede l’impossibile perché Egli può attuarlo, ma non vuol farlo da solo – che tristezza fare le cose da soli! – desidera condividere con l’uomo la sua gioia di preoccuparsi degli altri, alleviando le loro difficoltà. Con Dio tutto è possibile perché Egli è Provvidenza!

La risposta del discepolo dimostra, invece, che non ha saputo trarre profitto dalla situazione che Gesù gli ha presentato, che non è riuscito a portare il passo con i battiti del cuore compassionevole del Maestro. Appunta l’Evangelista Giovanni: “Gli rispose Filippo: Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (v. 7). Parlando in questo modo, non si rende conto che ha davanti Gesù, il Figlio di Dio! Invece di entrare con entusiasmo nel desiderio di Cristo e condividere il suo sguardo di amore, Filippo pone degli ostacoli, mette dei paletti, traduce in fredde cifre la volontà del Maestro. Egli dimentica cha a Gesù nulla è impossibile e, in tal modo, si lascia vincere da una lettura troppo umana della realtà che lega Dio e che conduce l’uomo alla tristezza e all’impossibilità di operare perché non c’è nulla che si può fare, visto che le forze sono sproporzionate rispetto alle necessità delle folle.
Gesù vuole che il suo discepolo veda la distanza abissale che esiste tra il desiderio di bene e la necessità di attuarlo. L’uomo deve guardare la realtà, ma deve sempre porre come costante di ogni discorso, per la realizzazione di ogni progetto, il Signore, la sua Presenza e la sua forza attuativa. Quale differenza c’è tra lo sguardo di Gesù e quello di Filippo! Il Signore è abituato a leggere la realtà con gli occhi di Dio Padre, a cui nulla è impossibile, il discepolo si lascia braccare dalla sua umanità, decretando indirettamente fallimentare la proposta di Gesù, la sua volontà di solidarietà e di vita per tutti. È un grave peccato la diffidenza e la sfiducia. Dinanzi a ciò che il Signore ci chiede, vedendo la pochezza delle nostre forze, vorremmo gettare la spugna e dire che quanto Dio ci propone è impossibile, senza comprendere che il nostro Non possiamo, non ci riusciremo è il segno della nostra incapacità a fidarci di Gesù e a lasciarlo operare nella nostra vita. Non è forse questa la stessa esperienza di Paolo? Vede il bene, ma sente che gli manca la capacità di compierlo, così come vorrebbe (cf. Rm 8). Dio permette che noi facciamo questa esperienza per farci comprendere, con un giorno Israele, che “Non con la spada conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma la tua destra e la luce del tuo volto, perché tu li amavi” (Sal 44,4). Dio non chiede l’impossibile e, qualora lo chiede, non pretende che siamo noi ad attuarlo, ma è Lui che vuole operarlo in noi. Se riuscissimo a fidarci di Dio! Nulla è impossibile a Lui, nulla è impossibile a chi ha fede e si mette completamente nelle sue mani. In tal modo, la volontà di Dio si compie in noi con l’aiuto di Dio, con la sua mano che ci accompagna, con la sua grazia che mai ci abbandona.

Nelle mani di Cristo tutta la nostra vita

La regola che scandisce la relazione con Dio è l’umiltà, l’abbandono in Lui, la capacità di porre la sua volontà come sovrana nella propria vita. Chi risolve lo stallo della poca fede dei discepoli è un bambino dal momento che “a chi è come loro appartiene il Regno dei cieli”. Anche Andrea che presenta quel ragazzo con cinque pani di orzo e due pesci si chiede: “ma che cosa è questo per tanta gente?” (v. 9), dimostrando di condividere la stessa taratura mentale di Filippo. Spesso i sogni si bloccano in una famiglia e comunità quando ci sono persone che, grette mentalmente e di poca fede, non riescono a guardare oltre il proprio naso e si macerano continuamente in quel come faremo? incapaci di mettere come comune denominatore della propria vita Dio ed il suo amore, la sua onnipotenza e la sua vicinanza.
Gesù ha bisogno di discepoli che mettano nelle sue mani il proprio nulla. È lui la sorgente della ricchezza, cosa possiamo dargli? “Sua è la terra e quanto contiene” (Sal 24,1) è Lui, infatti, che “apre la mano e sazia la fame di ogni vivente” (Sal 145,16). Ma per far questo il Signore desidera il nostro abbandono, richiede la fede, domanda che noi fissiamo in Lui i nostri pochi o tanti talenti, perché nessun banchiere riesce, come Lui, a mettere a frutto la nostra povertà. Nelle mani di Gesù tutto si moltiplica, tutto si rinnova. L’uomo deve vedere che chi libera è il Signore, è Lui che opera meraviglie per i suoi figli, Lui solo trasforma in abbondanza la nostra indigenza. È sempre Gesù poi a distribuire il pane ed il pesce perché nulla manchi sulla mensa dei suoi figli. Il Maestro non demanda ad altri ciò che solo Lui può fare, Lui stesso si mette a servire, a sfamare, a donarsi in quel pane.

Famiglie solidali nel vivere la carità

Il gesto ultimo di raccogliere i pezzi avanzati non è di Gesù, ma dei discepoli e serve loro per toccare con mano la potenza dell’amore di Dio, la capacità sua di trasformare in abbondanza incalcolabile – altro che trecento denari di pane, avrà pensato Filippo! – la pochezza ed il limite dell’uomo. Sul campo essi devono imparare a fidarsi della Parola di Gesù, mettendo la propria vita al servizio del Regno. Alla mensa dell’Eucaristia le nostre famiglie devono apprendere la carità operosa, l’ansia di avere a cuore i bisogni dei fratelli, la preoccupazione per quanti vivono privi del necessario. Le nostre comunità cristiane devono essere dei centri permanenti di accoglienza e le nostre case e comunità religiose oasi di solidarietà per quanti vivono momenti di difficoltà o sono incapaci di sbarcare decentemente il lunario. Come essere cristiani sapendo che chi mi è accanto è senza il pane? Come possiamo dirci famiglia che segue Cristo se chi bussa non è accolto come fratello, allungando la nostra tavola quale segno eloquente che il nostro cuore si allarga a secondo dei bisogni dell’altro?
Siamo responsabili di chi ci sta accanto e tante famiglie potrebbero aprirsi all’accoglienza e all’affido se solo lo sguardo di Gesù consumasse il nostro cuore, comunicandoci la sua compassione. La partecipazione all’Eucaristia domenicale è vera solo se fa nascere la carità verso il prossimo. Allora chiediamoci: cosa e come la mia famiglia può fare perché Gesù in mezzo a noi renda pronti alla solidarietà verso i fratelli? Non mettiamo subito limiti come Filippo, né presentiamo impossibilità come Andrea, ma lasciamoci portare da Dio, Lui fa meraviglie quando trova dei discepoli che, come de fanciulli, gli permettono di agire con la sua onnipotenza d’amore.




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