Vanità

Qohelet, il linguaggio delle stelle, il linguaggio di Dio

stelle

di Gianni Mussini

Nel deserto del vivere c’è un tesoro nascosto e l’autore del Qohelet ci invita a liberarci dagli affanni e dai falsi valori per concentrarci sull’essenziale: l’amicizia di Dio.

Il mio ultimo anno di liceo fu magico. C’era una grande meta, la maturità, e la condizione giusta per affrontarla lietamente: finita la chiaroscurale adolescenza, si aprivano – appena lì, varcata la soglia del grande esame – le verdi praterie della giovinezza. Veniva voglia di correre verso quelle praterie, ma godendo intanto il presente: del quale facevano parte anche le scoperte letterarie che giorno dopo giorno si spalancavano dinanzi ai miei occhi. In particolare mi dedicavo alla personale perlustrazione dell’antologia di letteratura italiana, dove – in anticipo sul programma, che allora cominciava con il Neoclassicismo – mi divoravo i poeti novecenteschi (Montale, Saba, Ungaretti, il delizioso Gozzano), senza però trascurare qualche assaggio di autori ancora un po’ trascurati: Rebora, Corazzini, Caproni… sino ai neoavanguardisti Pagliarani e Sanguineti. Approfittavo di solito delle ore di Scienze, che non mi interessavano: per le interrogazioni usavano i “turni”, così io potevo starmene tranquillo nell’ultimo banco a leggere e godere i miei autori.

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Ma leggevo anche certi testi meno frequentati dei grandi dell’Ottocento. Fu così che mi imbattei sbalordito in A se stesso di Leopardi, una lirica dell’ultima sua stagione disperata e petrosa. La trascrivo, per rinfrescarci la memoria:

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.

Sfumata l’ultima illusione d’amore, il poeta parla al proprio cuore invitandolo a rinunciare a ogni speranza e illusione (i «cari inganni» che avevano nutrito le parti ‘idilliche’ delle precedenti e più famose poesie, pur non meno pessimistiche nel loro assunto finale). La vita è un doloroso deserto, mentre la natura assume addirittura i contorni di un «brutto poter» che ha come obiettivo il male di tutti: ci scovai subito un filo diretto con Montale e il suo «male di vivere», ma anni dopo scoprii che la critica lo aveva già notato…

Anche lo stile si fa arido, con una paratassi che ‘descrive’ lo stato d’animo del poeta, sino al limite di un periodo composto da una sola parola: «Perì». Ma fu il verso conclusivo a farmi capitolare dinanzi a questa poesia, anche grazie alla nota del commentatore che giustamente lo collegava al versetto con cui si apre e chiude il libretto biblico dell’Ecclesiaste «Vanitas vanitatum et omnia vanitas». Vanità delle vanità e tutto è vanità: un vorticare di suoni che misteriosamente assecondavano il senso profondo del messaggio.

Da ragazzone sportivo innamorato della vita, capivo che non è vero che tutto è vanità, perché è bello correre e nuotare, uscire con gli amici, innamorarsi, mangiare un bel gelato… Eppure sapevo che un po’ è anche vero, altrimenti non ci sarebbero quei periodi di noia e aridità, i dolori, le delusioni che segnano ogni esistenza. Sentivo però che, in Leopardi come in quel passo dell’Ecclesiaste, il senso di vuoto e deserto era in qualche modo necessario a comprendere il significato di una vita non redenta (San Paolo ai Corinzi: «se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede… Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini»). Per dire che può esistere anche un nichilismo ‘positivo’, capace di innescare una risposta di senso.

C’era poi il fascino di quella parola che ancora non conoscevo: Ecclesiaste, una voce peregrina che suscitava immediata riverenza. Ma qualche tempo dopo mi capitò di fare un’altra scoperta: il titolo ebraico del libretto è Qohelet, participio presente di un verbo che significa «convocare, radunare l’assemblea», da cui appunto la traduzione greco-latina; ma vuoi mettere l’arcana suggestione di Qohelet? Una parola che ci fa subito sentire vicini alle radici della religione rivelata, quasi parlassimo il linguaggio stesso di Dio: non sono esperienze che si fanno tutti i giorni…

Insomma, era un libro da leggere. Matita alla mano, mi misi a sottolineare le frasi più belle e proverbiali, scoprendovi espressioni che già conoscevo senza sapere che venissero da lì, come per esempio «niente di nuovo sotto il sole», «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare», «tutto è venuto dalla polvere, e tutto ritorna alla polvere»; e poi il vero leitmotiv della vanità che ritma tutto il discorso (per esempio nella formula «tutto è vanità e un inseguire il vento»). Ma soprattutto ci trovai un repertorio di frasi pessimistiche o addirittura, come ho accennato prima, impregnate di nichilismo, che mi colpirono molto. Per esempio: «Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole»; «è preferibile… il giorno della morte al giorno della nascita»; «più felici i morti, ormai trapassati, dei viventi che sono ancora in vita; ma ancor più felice degli uni e degli altri chi ancora non è e non ha visto le azioni malvagie che si commettono sotto il sole».

Per non parlare di certe potenti variazioni sul tema: «La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli… Tutti sono diretti verso la medesima dimora»; oppure: «I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla» e per giunta «il loro ricordo svanisce». Vana è anche la saggezza umana, perché – dice l’autore – non serve «né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare».

Tutta questa vanità ha però un senso, nel deserto del vivere c’è un tesoro nascosto. Se infatti è vero che – quasi leopardianamente – Dio ha posto nel nostro cuore la «nozione dell’eternità» senza però fornirci le chiavi per capirne il significato, c’è tuttavia da parte dell’autore l’invito a una proposta tutto sommato consolante: occorre liberarsi dagli affanni e dai falsi valori per concentrarsi sull’essenziale. Ecco allora un’allegria che diventa possibile nel cogliere i piccoli doni della quotidianità:

Va’, mangia con gioia il tuo pane,
bevi il tuo vino con cuore lieto,
perché Dio ha già gradito le tue opere.
In ogni tempo le tue vesti siano bianche
e il profumo non manchi sul tuo capo.

Come a dire che non bisogna cercare un godimento separato dall’amicizia con Dio, e che una vera libertà è possibile nell’umiltà, nella consapevolezza dei propri limiti. È la libertà del povero che non si lascia affannare dagli stimoli compulsivi delle tante vanità, ma sa concentrarsi sull’unico bene necessario: l’amore di Dio e del prossimo.

Basti questo piccolo florilegio per comprendere il tono denso e vigoroso di questo libro, che – in un’epoca come la nostra in cui volentieri si schivano le grandi domande sulla vita (e sulla morte) – stimola continuamente il lettore a porsi proprio quelle domande capitali. Se è vero che, come diceva Kafka, un libro deve svegliarci «come un pugno che ci martelli sul cranio», ebbene con Qōhelet succede proprio così. Di qui il fascino che ha esercitato sui lettori più esigenti e raffinati, credenti e non credenti (tra i molti cito Gianfranco Ravasi e Guido Ceronetti).

Vi chiederete come andarono poi le cose con quella professoressa di Scienze. Un giorno mancò per malattia il compagno che avrebbe dovuto essere interrogato. E la professoressa: «Mi piacerebbe sentire quel signore là in fondo che, per carità, non ha mai disturbato ma sin dall’inizio dell’anno ha dimostrato un sovrano disinteresse per la mia materia e le mie spiegazioni». Dovetti confessare la mia abissale ignoranza sulla geografia astronomica, che era in programma. La professoressa, non avendo studiato pedagogia, era molto esperta di pedagogia… Così mi prese molto sul serio, spiegandomi con pazienza che non era logico rifiutare una materia senza conoscerla. Mi invitò dunque a studiarla, mandandomi a posto senza voto. Le diedi retta e alla fine dell’anno venni presentato alla maturità con un magnifico nove.

E grazie a quella professoressa io compresi che, alla fine, le stelle di cui parlano i poeti sono le stesse studiate dagli astronomi: grazia su grazia!




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