XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B – 19 agosto 2018

Senza l’Eucaristia non possiamo far nulla

Eucaristia

di fra Vincenzo Ippolito

L’amore serve l’altro e nell’altro scompare come il lievito nella massa, il sale nella terra perché all’amore non importa l’apparire quanto rimanere all’ombra dell’altro. Questo desidera Cristo per noi. Egli sa che solo il suo sangue, scorrendo nelle nostre vene, ci fa vivere di Dio, solo nutrendoci della sua vita, lo Spirito Santo ci rende sorgenti che zampillano in eterno d’amore per i fratelli.

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,51-58)
La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 

Anche questa domenica, l’evangelista Giovanni ci conduce nella sinagoga di Cafarnao per ascoltare la parola sconvolgente di Gesù, che le folle non riescono e non vogliono accogliere. Più il Maestro apre il mistero della sua vita e si dona agli uomini come cibo e bevanda di salvezza e maggiormente le folle chiudono il cuore nell’incredulità, convinti che l’antica Alleanza basti loro per essere salvati. La risposta dei Giudei è inversamente proporzionata al dono di Cristo, sembra dirci l’Evangelista, chiedendoci tra le righe di vivere di fede e di confidare nella parola di Cristo, la cui Carne è vero cibo, il cui Sangue vera bevanda, per sostenerci nel cammino.

Lo sfondo antitestamentario della liturgia odierna è costituito da un brano del libro dei Proverbi (9,1-6), proclamata come Prima Lettura. In esso, ci è presentata la personificazione della Sapienza di Dio, che a tutto prepara per incontrare l’uomo e donargli il senno e la saggezza, l’intelligenza e l’esperienza. L’autore ispirato descrive, con l’immagine del banchetto, l’invito che il Signore rivolge ad ogni uomo per godere della sua amicizia e vivere nella gioia. È Gesù la sapienza di Dio, Lui il progetto del Padre per ogni suo uomo e, al tempo stesso, il realizzatore del disegno divino, per la grazia del suo Spirito. Egli prepara una mensa, imbandisce la tavola e serve chi crede in lui, offrendosi come cibo e bevanda di vita (Vangelo). Come i Giudei, scandalizzati dall’insegnamento di Cristo – è sempre così difficile intendere la parola di Dio nel giusto senso, per coloro che non lo vogliono – siamo chiamati oggi a tradurre in vita la presenza eucaristica di Cristo, comportandoci, come ci ricorda la Seconda Lettura (cf. Ef 5,15-20) “non da stolti, ma da saggi [… per] comprendere qual è la volontà del Signore” (vv. 15 ss).

Scendere sempre più in profondità

Con il brano evangelico odierno (cf. Gv 6,51-58), siamo giunti al punto nevralgico del capitolo sesto del quarto Vangelo, in un momento di forte tensione tra Gesù e i suoi ascoltatori. Incurante dell’aperta opposizione che nota intorno – già vedevamo, la scorsa domenica, come i Giudei mormoravano (cf. Gv 6,41. 43) – Gesù riafferma la sua identità, rivelandosi in pienezza. Una cosa è chiarire i malintesi e condurre gli altri, con pazienza e discrezione, a comprendere la proposta fatta, altro è, invece, abbassare il livello della comunicazione, vedendo l’incapacità degli interlocutori o, anche, la loro ottusità nel non voler, per lo meno, tentare di capire quanto viene proposto. La parola che Gesù dona non è sua, ma del Padre e coloro che sono attratti da Lui, la comprendono e, credendo in Lui quale rivelatore del Padre, hanno la vita. Non dobbiamo pensare che la parola del Maestro non sia facilmente comprensibile. Per l’insegnamento di Cristo vale quanto afferma Mosè “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. […] Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Dt 30,11.14). È infatti, una parola intellegibile, ma solo per coloro che si lasciano raggiungere dalla sua grazia, interpellare dalle sue domande, trovare dalla luce della verità che Cristo è e dona. È la fede che dona la comprensione della parola del Signore; è la fede che apre strade mai battute prima dalla mente che, pur volendo, mai potrebbe percorrerle; è la fede che ci conduce a compiere quel salto nel buio, sapendo che il Signore, che richiede il sacrificio della propria fragile volontà, non permette che siamo divorati dal vuoto, ma ci afferra e ci salva dal male.  

Quando Gesù ribadisce un concetto o ritorno sul suo insegnamento, come nel nostro caso, non lo fa per insistere e imporre la sua volontà, ma soltanto per spingere l’uomo a camminare nella fede. Il Signore non può e non deve abbassare la sua proposta, verrebbe meno alla missione ricevuta dal Padre, né può posticipare il suo annuncio, i tempi del suo rivelarsi si fanno sempre più stretti ed è giunto il momento di parlare senza girare intorno alla verità. Sono le folle che devono crescere nella fede, non basta professarsi stirpe di Abramo, se del grande patriarca non si ha l’obbedienza. Rispondendo alla mormorazione dei Giudei, Gesù non solo chiarisce il suo insegnamento, perché l’orizzonte della mente non venga ottenebrata dal dubbio e dall’errore, ma approfondisce il suo discorso, indicando la strada maestra della fede e della vita vera. Se prima Gesù aveva detto “non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero” (Cv 6,32), ora si presenta come donatore e dono “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51). Il dono del Padre è Gesù, ma il Figlio, che è il dono, non subisce la volontà del Padre, quanto, invece, la fa sua. In tal modo, oltre ad essere dono del Padre per gli uomini, Gesù è al tempo stesso il donatore, perché l’offerta che Egli fa della sua vita non è subita, ma scelta con determinazione, voluta con piena consapevolezza, perseguita con impegno. Siamo dinanzi al dono esistenziale di Gesù. Difatti, prima ancora che all’Eucaristia, l’Evangelista fa riferimento al sacrificio della croce di Gesù. Con il termine carne il Nazareno non intende la sostanza corporea dell’organismo umano, ma se stesso nella condizione mortale, assunta con la sua incarnazione (cf. Gv 1,14). Per Gesù, donare la carne significa dare la vita, sapendo che la sua offerta è “per la vita del mondo”. L’Evangelista vuole che il lettore comprenda l’Eucaristia alla luce del sacrificio della croce, che si perpetua nel pane spezzato della comunità, riunita nel nome del Risorto. I discepoli hanno la vita dalla Pasqua di Gesù che rappresenta, al tempo stesso, la sorgente della grazia vivificante che sempre li sostiene. 

Dono donato dal Padre è Gesù, nella sua vita umana, assunta nell’incarnazione, quando ha preso “la vera carne della nostra umanità e fragilità”; dono donato dal Padre agli uomini è l’Eucaristia, “il pane di vita” (v. 35), “il pane del cielo” (v. 41), “il pane vivente” (v. 41); dono del Padre è la carne di Gesù, carne di Cristo, presa dalla carne di Maria; carne del Signore è il pane che spezziamo sulla mensa, dove il Risorto è altare, vittima e sacerdote. Gesù-dono è anche “colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v. 33). Egli dona la sua vita, non la trattiene, la offre, non se ne appropria, la concede, non la stringe, come un tesoro geloso. Gesù vuole dare la vita agli uomini che il Padre gli ha affidato, per questo, consumato dal desiderio di compiere la sua missione, confiderà “Ora l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome” (Gv 12,27-28). Cristo, dicendo il suo Fiat alla volontà del Padre di essere dono vivente del suo amore per gli uomini, diviene donatore, partecipa intimamente all’offerta di Dio in Lui, tanto che non solo si lascia donare, ma Egli stesso si dona “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v. 51), “io do la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso” (Gv 10,17-18). Gesù vuole essere donato dal Padre e vuole donarsi agli uomini, in obbedienza al Padre. Nulla frena questa volontà decisa di consegna, di oblazione, di offerta e più il cammino si farà arduo, più gli uomini si chiuderanno a Lui, nel rifiuto del suo dono, più si stringerà al cuore del Padre che, donandosi a Lui nell’amore dello Spirito, diverrà il maestro del suo consegnarsi per amore agli uomini.

Se riuscissi anch’io, mio Signore, ad essere dono e donatore insieme! Se assecondassi il tuo dono in me, lo Spirito del dono, effuso su di me, alito di vita nuova uscito dalle tue labbra, Lui solo mi spinge a combattere l’acerrimo nemico, che mi segue dovunque, il mio egoismo. Permettimi di essere la tua ombra e di vedere, per imparare da Te, l’arte di non battere ritirata dinanzi all’amore che dentro di me mi impone – sì l’amore impone la natura che è propria del suo essere, in quella continua lotta che porta a morire per vivere davvero – perché solo da Te posso apprendere il coraggio di essere saldo e mai fiaccato dalle forze delle tenebre. Nutrimi con la tua vita che vivifica, sostienimi con la tua presenza che rincuora, parla al cuore mio che è sempre in tempesta, se Tu non cammini sulle acque e lo raggiungi per donargli la bonaccia. Sì, raggiungimi, o, se lo vuoi, permettimi di venire a Te, camminando sul mistero del male che mi attanaglia, soggioga in me, l’errore che si avvinghia alle mie caviglie, impedendomi di camminare spedito. Il mio sguardo sia rivolto verso Te, per essere raggiante nel dono e risplendere della tua luce che mai conosce tramonto. Non ho paura di nulla, se Tu sei con me, il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Rispondere al dono con l’indifferenza

Leggendo il testo evangelico odierno, ci accorgiamo di quanto sia stridente la risposta dei Giudei alla parola di Gesù. Già prima (cf. Gv 6,41), avevano iniziato a lamentarsi tra loro, obiettando sull’origine divina del Nazareno. Ora la situazione sembra peggiorare. Il Maestro ha cercato di arginare la mormorazione, con il chiarimento, ma Giovanni mostra che il tentativo non è andato a buon fine, visto che “i Giudei si misero a discutere aspramente tra loro” (v. 52). In tal modo, le folle, invece di fare ammenda della loro incredulità, lasciando che la parola rivolta da Cristo li guarisca dal loro nascosto brontolare, scavano un fossato ancora più profondo, rendendo inutile ogni dialogo con Gesù. La scena appare delle più tristi, notando i Giudei così arroccati nei loro pregiudizi, incapaci di muoversi con il cuore e di fare spazio alla parola di Cristo. Possibile che quel grido della Sapienza fatta carne “io sono il pane vivo disceso dal cielo” non li abbia scossi dal loro torpore? Dobbiamo proprio credere che l’invito accorato del Maestro “Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” non li abbia interiormente avvinti, accendendo il desiderio di vivere della stessa vita di Dio? La sua parola “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” realizza le antiche promesse, contenute nella Scrittura come in uno scrigno, eppure i figli d’Israele non la comprendono! I Giudei, chiedendosi “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” stanno indirettamente negando che la morte di Gesù sia sorgente di vita per gli uomini. Si tratta dello scandalo della mentalità umana dinanzi al mistero della fede. In tal modo, con la prima mormorazione si nega la verità dell’Incarnazione – “Come, dunque, può dire sono disceso dal cielo?” (v. 42) – con la disputa che intavolano tra loro si smentisce che la carne di Cristo, la sua Pasqua possa donare vita e salvezza. Rendere inutile il progetto di Dio, opporsi, con argomentazione di pura razionalità umana, alla parola di Gesù, non credere nella potenza del Crocifisso: sono questi i peccati dei Giudei, che si ricapitolano della mancanza di fede.

Dalla mormorazione all’asprezza è questa la deriva nella quale precipitano i Giudei. La traduzione della CEI “si misero a discutere aspramente tra loro”, rende con un avverbio – aspramente – il senso negativo già insito nel verbo del testo originale, che letteralmente suona “lottavano gli uni contro gli altri”, tradotto da alcuni con “disputavano tra loro”. Si tratta chiaramente di una lotta verbale, fatta sempre alle spalle di Gesù, che mostra l’incapacità delle folle a mettersi in discussione, facendo cerchio per giudicare infondata la testimonianza del Nazareno. Quanta alleanza ci vedono combattere insieme contro un nemico comune, che forse è più immaginario che reale? Quante volte le discussioni diventano una vera guerra di opinioni contrastanti! Facendo cerchio, i Giudei escludono Gesù dal loro confronto e credono di poter ricercare da soli il senso della sua parola che tanto li scandalizza. Mettere in scacco Dio dalla nostra vita, non serve, oltre che essere deleterio per noi, crea quei rapporti chiusi che impediscono di superare le difficoltà. “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5) ci dice Gesù. Senza il suo amore non abbiamo la pace, privi della sua parola brancoliamo nel buio di una ricerca che non approda a nulla, perché, come per i naviganti è necessario il faro o la stella polare per orientarsi nella notte, così è indispensabile Cristo, la sua luce che non conosce fine, collocata sul monte del Golgota irradia e guida il nostro cammino, sempre.

I Giudei camminano sì, ma verso il basso, crescono, ma nel male, procedono spediti, non nella fede. È così difficile rivolgersi a Gesù per avere chiarimenti? Possibile che non riescano a capire che da soli non tirano un ragno dal buco? Nella vita si può crescere o decrescere, mai fermarsi. Se si cresce nel bene, si decresce nel male e viceversa. In quei Giudei che disputano tra di noi ci siamo noi, quando non vogliamo credere che Dio voglia il nostro bene, quando vorremo che le cose andassero diversamente, nei momenti in cui dobbiamo dire il nostro a Dio, senza capire, ma fidandoci della sua mano che mai ci abbandona. Credere ad una presenza, accogliendo l’apparente assenza: questa è la fede.

Perché siamo, al pari delle folle, così tarati mentalmente davanti a Gesù? Perché mai la sua parola non ci scuote come un giorno Zaccheo, il suo sguardo non ci converte come Levi, la sua mano non risolleva la nostra vita, come Pietro tirato dai flutti per la mano onnipotente del Redentore? Fino a quando Gesù dovrà parlare invano nella nostra vita? Fino a quando le persone che mi sono vicine dovranno chiedermi di fare quel salto di fede che mi fa divenire migliore?

La vita come pane

Come in precedenza, dinanzi alla mormorazione, ora davanti alla disputa dei suoi avversari – c’è un cambio di identità, i Giudei da ascoltatori diventano nemici – Gesù non controbatte, ma offre con franchezza la sua parola, deciso a dire la verità, senza esitazioni. Si può anche non credere in Cristo e nella sua parola, ma bisogna sapere che la posta in gioco è grande. Per questo Gesù dice “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (v. 53). Non ha senso perdersi in discorsi oziosi, sembra dire l’Evangelista. La fede è una questione vitale, considerarla superflua o marginale, significa non aver compreso nella giusta luce la bellezza della presenza di Cristo nella vita e quanta gioia Egli dona a chi apre la porta del cuore. Il vero problema è avere in noi stessi la vita eterna, nutrire la vita vera ricevuta in dono, vivere la vita senza lasciarsela scivolare tra le mani. E la vita è Gesù – “Io sono la via, la verità e la vita”, Gv 14,6 – per questo può donarla a Lazzaro, chiamandolo dal sepolcro e, prendendo per mano la fanciulla dodicenne, restituirla viva ai suoi genitori, solo Gesù, che è la vita, può rianimare quel giovane di Nain che la madre, con molta folla, sta conducendo al sepolcro. Gesù è la nostra vita, lontani da Lui sperimentiamo solo la morte. In tutto il suo Vangelo, Giovanni mostrerà la fondatezza di quanto aveva scritto all’inizio “In lui era la vita” (Gv 1,4), permettendo ai suoi di accogliere Gesù come la pienezza della vita, nelle molteplici sue sfaccettature. Al tempo stesso, leggendo il Vangelo, ci rendiamo conto di quanto Gesù sia consapevole di essere vita e di donare vita. Lo mostrerà chiaramente nel tempio di Gerusalemme, prossimo alla sua passione, quando dirà alle folle “Io sono venuto perché [le pecore] abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Ma in cosa consiste la vita che Gesù dona a coloro che credono in Lui e, nella fede, si accostano all’Eucaristia? Come la sua vita risorta continua ad essere effusa, attraverso il sacramento che perpetua il suo dono nella Chiesa, per la vita degli uomini? La vita che Cristo è e ci dona in abbondanza è quella di Dio, vita nell’amore e nel dono, vita nell’offerta e nell’accoglienza, vita nella gioia e nella gratuità, vita nel sorriso luminoso di chi ama e si sente amato, vita senza tramonto, fuoco vivo che mai si estingue. Cristo riempie la nostra vita, che senza Lui sarebbe vuota, della vera linfa che ci rende vivi, dell’amore vivo, traboccante dal cuore del Padre che si riversa in noi, Spirito-amore, attraverso il costato trafitto del Crocifisso. Egli, come Donatore concede la vita e come dono si concede come vita. Ora perché Lui ci vivifichi, facendoci passare dalla morte che sperimentiamo per la vita dilagante in noi dell’egoismo, alla vita vera, che presuppone la morte di noi stessi, è necessario mangiare la carne del Figlio di Dio e bere il suo sangue. È l’incontro con il Crocifisso-Risorto che ci dona la vita vera, passando con Lui nel mistero della sua Pasqua. Per inebriarsi della vita di Dio che Cristo ci dona e che Cristo è per noi dobbiamo credere in Lui, accogliere la sua rivelazione, lasciarci determinare e comprendere noi stessi alla luce del mistero della sua Persona. Cristo vuole che l’uomo, attraverso la fede in Lui, prenda dell’albero della vita, il cui accesso un giorno fu proibito per Adamo ed Eva. Gesù è l’albero della vita, i suoi frutti sono a nostra disposizione; il Signore è la sorgente che fa zampillare l’acqua viva, la sola che disseta il cuore umano. Bisogna solo aver fede!

Gesù è pane vivo, in riferimento alla manna data ai padri, e, al tempo, stesso vera carne e vera bevanda. I termini magiare e bere, nel linguaggio sapienziale, mostrano la necessità, da parte del discepolo, di vivere dell’insegnamento del Maestro, quindi di entrare nell’amicizia con Cristo – Paolo dirà “Per me vivere è Cristo” Fil 1,21 – e di essere in Lui innestato, così da portare frutto. Difatti, come i tralci alla vite, solo se legati a Cristo e da Lui riceviamo la linfa della sua vita, viviamo e prosperiamo, per la gioia dell’Agricoltore. In caso contrario, saremo recisi dalla pianta, per non sfruttarla ulteriormente il terreno. I termini che Giovanni usa vanno letti in un duplice senso, in primo luogo i verbi mangiare e bere dicono che è necessario accogliere la rivelazione di Gesù nel mistero della sua Pasqua, che rappresenta il culmine della manifestazione dell’amore del Padre in Cristo – per questo la liturgia ci dona oggi, come Prima Lettura, un brano del libro dei Proverbi 9, dove la sapienza (il riferimento è a Cristo, vera sapienza) invita a cibarsi di lei – dall’altro lato nelle parola evangeliche noi vediamo un chiaro riferimento alla mensa eucaristica, dove incontriamo Gesù, nei segni sacramentali, e accogliamo la sua Pasqua come sorgente di vita per noi, nei segni umili del Pane e del vino, di cui ci nutriamo.

La Presenza di Gesù nutre, la sua vicinanza sostiene, la sua grazia risana, il suo amore previene, la sua benevolenza perdona, la sua misericordia solleva. Il Padre dona questo pane a noi per camminare nell’amore, per non soccombere al male, per non essere vinti dallo scoraggiamento, saldi nella fede anche davanti alla morte, che per chi crede, è la porta della vita vera.

La grazia della reciproca immanenza 

Il punto più alto della rivelazione di Dio in Cristo, termine ultimo al quale il discepolo deve giungere, vincendo le vertigini del Golgota, dietro il Maestro, è il rimanere innestati nel mistero di Cristo. Il senso della nostra vita di discepoli sta proprio nel vivere in Lui, da questo deriva la novità di vita dello Spirito del Risorto in noi – “Se uno è in Cristo è una nuova creatura, scrive Paolo, le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” 2Cor 5,17 – per questo Gesù dice “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui” (v. 56). Gesù vuole rimanere in noi, sempre, ma chiede che la relazione con Lui sia scelta, voluta con determinazione, plasmata di amore. La vita che Egli è per me, per noi dura, rimane, non passa, perché Lui estingue ogni sete – “chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno” aveva confidato alla Samaritana in Gv 4,14 – smorza ogni fame, perché solo Lui nutre veramente, solo il suo amore è per sempre, solo la sua vita – carne è sangue – ci sostiene e nutre la nostra esistenza. Cristo non è geloso della vita divina che vive, nella relazione amorosa con il Padre e non vuol tenere per sé lo Spirito-amore, perché desidera che la sua creatura sperimenti la gioia vera che solo Lui può dare. Egli, infatti non riesce a stare senza l’uomo, come l’amante non si dà pace lontano dall’amato. L’amore vive, per sua intima natura, del desiderio di rimanere nell’altro, in tutto ciò che l’altro è ed ha, nella sua mente e nel suo cuore, nella sua anima e nel suo corpo. Abitazione dell’amante è la vita dell’amato, non esiste fibra del suo essere che egli non desideri possedere, ma non in quella appropriazione gelosa che impedisce all’altro di vivere, ma come linfa del suo essere. Gesù – e di rimando ogni sposo/a – vuole essere il sangue nelle vene dell’altro, l’alito della sua vita, la forza delle sue braccia, la luce dei suoi occhi, la voce delle sue parole. L’amore serve l’altro e nell’altro scompare come il lievito nella massa, il sale nella terra perché all’amore non importa l’apparire – l’amore che vuol farsi vedere è finzione, illusione, bugia! – quanto rimanere all’ombra dell’altro. Questo desidera Cristo per noi. Egli sa che solo il suo sangue, scorrendo nelle nostre vene, ci fa vivere di Dio, solo nutrendoci della sua vita, lo Spirito Santo ci rende sorgenti che zampillano in eterno d’amore per i fratelli. 

Stupisce che la discesa nelle profondità del mistero di Dio sembra non terminare, anzi l’Evangelista ci conduce per mano nel segreto della vita di Dio che Cristo rivela e dona in pienezza. Difatti, Gesù dicendo “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me” (v. 57) ci permette di salire, attraendoci, al nuovo Sinai di cui quello antico era solo figura. Accogliendo la parola di Gesù, noi penetriamo nell’intimo del sacrario di Dio stesso, nel Roveto ardente che è l’essenza del suo infinito ed eterno amore. Il Padre ha la vita da sempre e per sempre ed il Figlio, proprio perché Figlio, riceve da Lui la vita come dono e vive grazie al dono, eterno ed infinito, che il Padre fa di se stesso. Il Verbo vive per il Padre, grazie al Lui, in Lui e non esiste, né potrebbe esistere una vita diversa grazie alla quale vivere. Il Padre è l’unica sorgente della vita nell’amore per il Figlio ed il Verbo non solo non potrebbe averne una diversa, ma neppure la desidera, anche nella sua umanità, perché Gesù può dire “fuori di te nulla bramo sulla terra” (Sal 72,25). Tale relazione modella quella che Gesù vive con i discepoli – Come il Padre … così anche colui che mangia me – perché chi mangia di Lui, vive di Lui e per Lui e deve riproporre sulla terra quella profondità di relazione amorosa che il Verbo vive con il Padre.

Questo è vero, oltre che a livello personale, anche per le nostre famiglie. Nutriti di Gesù, Pane di vita, gli sposi orientano a Cristo la propria vita e vivono di Lui, facendo spazio in loro e tra loro alla vita del Signore risorto. Insieme fanno del loro corpo “un sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (cf. Rm 12,1) e testimoniano nel mondo la bellezza della loro apparenza a Cristo Signore.  E come l’amore del Padre assimila il Figlio a sé, non omologandolo a Lui, ma nutrendo la sua identità complementare alla sua (padre/figlio), così la vita di Cristo che gli sposi accolgono nell’Eucaristia, li assimila ai sentimenti di Gesù, a manifestare nelle scelte, la vita divina che vive dentro di loro. C’è quindi una connaturalità del dono di se stessi: se abbiamo in noi la vita di Gesù, essa plasmerà ogni nostra parola e gesto. Bisogna solo fidarsi dell’amore e lasciarsi portare da esso.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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