Santa Teresa di Lisieux

Una luce nel buio dell’anima: lo sguardo di santa Teresa

Santa Teresa di Lisieux

di Ida Giangrande

Entro nello studio del medico dopo aver attraversato il deserto e lei è lì che mi aspetta. Le rose in una mano, il crocifisso nell’altra e sul volto l’inconfondibile, prezioso sorriso di Teresa di Lisieux.

Corri e corri dall’alba al tramonto secondo tabelle di marcia serrate e ritmi sempre più frenetici. Senza volerlo ti convinci che hai la vita in pugno, che l’esistenza ti appartiene, poi d’improvviso la parola di un medico arresta il tempo e la luce si spegne. Per me tutto questo è successo qualche settimana fa. Il medico, un ottimo dermatologo, mi aveva diagnosticato un sospetto tumore della pelle, un male localizzato che in genere non si diffonde. Ma si sa, nella condizione in cui viviamo anche solo sentir parlare di tumore è sufficiente a mandare fuori di testa qualcuno.

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È stato così anche per me. Pur avendo alle spalle un cammino di fede consolidato, sono entrata nel buio dell’anima. Io che credevo di avere Dio come scudiero, mi sono improvvisamente sentita sola, angosciata, dispersa nei sentieri dell’ansia. Tutti quelli che mi amavano facevano cerchio intorno a me, io sentivo le loro preghiere insieme ai loro pensieri non sempre edificanti, ma allo stesso tempo continuavo a sentirmi sola contro il vero tumore rappresentato da quello stato pseudo-depressivo che abbassava di molto la mia qualità di vita. Ma Dio trova sempre il modo per raggiugere i suoi figli persi nei mille rivoli della fragilità. Un giorno mentre ero nella mia auto, un uomo, uno sconosciuto, mi si avvicina e mi consegna un bigliettino. Una citazione biblica scritta a penna su un fogliettino rudimentale. Non ho chiesto nulla, né chi fosse lui né perché proprio a me. Sono tornata a casa e ho cercato quella citazione nella Bibbia, Giobbe 37,5: “Mirabilmente tuona Dio con la sua voce, opera meraviglie che non comprendiamo!”.

 

No, non potevo comprendere perché dentro sentivo solo il vuoto. I giorni passavano lenti, inesorabili, spenti ed ecco arrivare il momento di tornare dal dermatologo per fare l’intervento e rimuovere la macchiolina rossa sulla scapola destra. La scena mi ripresenta come un film a rallentatore: io come una bambina cieca con la mano nella mano di mio marito che mi guida. Avevamo da scegliere tra due ambulatori B o C e una voce che nemmeno lui sa spiegarsi, suggeriva al mio sposo di entrare nello studio C. Lo ha fatto ed io dietro di lui, ed ecco al di là della porta i miei occhi si posano su un volto che conosco: lo sguardo vispo, il sorriso dolce, tra le mani delle rose accanto alla croce e l’abito delle carmelitane. Teresa, era proprio lei: santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, patrona delle missioni e protettrice della Fraternità di Emmaus, movimento a cui sia io che mio marito, apparteniamo.

Sulle prime non potevo crederci: tutto immagini di trovare nello studio asettico di un medico, tranne un quadro come quello. La cornice di legno intarsiato di una manifattura antica che squarcia l’ambiente total white, sterile e impersonale dell’ambulatorio, la fede che irrompe nel mondo della scienza fatto di sentenze, diagnosi e limiti invalicabili. Il medico legge sul mio volto il moto interiore che quell’incontro provocava, segue l’incrocio di sguardi tra me e Teresa e sorride sorpreso, compiaciuto, ammaliato. Mi batte una pacca sulla spalle e con un sorriso fiducioso mi dice: “Signora ora possiamo fare l’intervento, ho come la sensazione che se anche le aprissi la spalla in due lei non sentirebbe niente”.

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Forse non era esattamente così. In effetti non ho sentito nulla è vero, ma per via dell’anestesia, tuttavia il mio cuore era sollevato e finalmente libero da ogni paura. Una pace inumana era scesa come polvere di stelle su di me, qualcosa che non appartiene a questo mondo. Sei vigile, presente, vedi tutto ma attraverso una bolla d’acqua. Il medico mi osservava in silenzio. Per la prima volta nella mia vita non avevo bisogno di parole per spiegare quello che stavo vivendo, bastava guardare la serenità nei miei occhi e anche il dottore era profondamente turbato. Più tardi mentre, seduta, lo ascoltavo, mi ha spiegato che nella notte tra il sabato e la domenica, aveva sentito l’impellenza di andare a prendere quel quadro dimenticato giù in garage. Un bisogno interiore che non sapeva spiegarsi. Lo aveva fatto, ma senza mai smettere di chiedersi perché. Io ero la sua risposta. Poche battute sono state sufficienti per capire che lui aveva bisogno di Teresa quanto ne avevo bisogno io ed ecco che la relazione medico-paziente non c’è più, al suo posto un’intensa amicizia spirituale che gli permette di salutarmi chiedendomi di pregare per lui.

 

E tutto ritorna, nello stato di grazia che il Signore concede a quanti lo chiedono con desiderio verace, comincio a intrecciare i fili e vedo Dio nei giorni della mia solitudine, quando pensavo di essere sola. Lo rivedo in quello sconosciuto, nella citazione scritta a penna, nel bigliettino di carta straccia, piuttosto grezza, lo vedo rivelarsi attraverso Teresa, e lo sento nel cuore, in quel misterioso universo di sensi che non si può spiegare a parole, si può osservare con gli occhi sì ma del cuore.

 




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