I Domenica di Avvento - Anno C - 2 dicembre 2018

“Tu sei tutta la nostra ricchezza a sufficienza”

giovane

di fra Vincenzo Ippolito

L’Avvento è il tempo in cui operare un serio esame di coscienza sul nostro cammino: stiamo veramente crescendo? Sentiamo che, oltre agli anni, anche il nostro cuore ha fatto dei passi in avanti? Lasciamo che Dio entri e trasformi la nostra miseria e la nostra povertà in ricchezza?

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (3,12-4,2)
Il Signore renda saldi e irreprensibili i vostri cuori al momento della venuta di Cristo.
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate -, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.

 

Con la Prima Domenica di Avvento, la Chiesa inizia un nuovo anno liturgico, occasione propizia per ricominciare ad essere discepoli. I misteri della vita di Gesù, dalla nascita fino alla Pasqua, vengono rivissuti nelle celebrazioni liturgiche, perché ciascuno, nel ciclo di un anno, possa nutrire la fede e testimoniare la gioia dell’incontro con Cristo. A guidarci, nelle celebrazioni domenicali e festive, è la parola del Vangelo secondo Luca, lo scriba della mansuetudine di Cristo. Domenica dopo domenica, sarà lui ad indicarci la via della sequela, per vivere di Cristo e sperimentare la grazia della salvezza, che nasce dalla Pasqua.

Il nostro nuovo cammino inizia con le quattro settimane d’Avvento. Diversamente dalla Quaresima, la cui indole è penitenziale, questo è, invece, il tempo della speranza e della gioia, perché il Signore realizza la sua promessa e visita il suo popolo. L’invocazione della Chiesa “Maranatha! Vieni, Signore” si fa ora più accorata e, mentre prepariamo il nostro cuore a rivivere nei segni liturgici, la nascita del Salvatore, lo sguardo è rivolto al cielo, perché Cristo ritornerà alla fine dei tempi, per essere il Dio con noi per sempre. Viviamo quindi un progressivo cammino verso la luce: dal viola tenue dei paramenti che segnano l’uscita dalle tenebre del cuore ed il nostro desiderio di essere liberati da ogni forma di schiavitù, si passa al bianco del tempo di Natale, esplosione della letizia, perché “ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (Is 9,5). La liturgia ci insegna così a mettere in movimento il cuore, per sperimentare la gioia della nascita del Signore, come i Pastori e i Magi, ed essere così cantori delle meraviglie che il Signore opera nella nostra storia.

La Liturgia di questa Prima Domenica di Avvento rinnova la nostra speranza nel ritorno di Cristo, alimentando la vigilanza. La Prima Lettura è tratta dal libro di Geremia (33,14-16). Si tratta di pochi versetti, appena tre, nei quali il profeta, a nome di Dio, promette un’alleanza nuova. È Lui, infatti, che realizzerà “le promesse di bene” per la casa di Israele e di Giuda e farà “germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”. La presenza e l’azione del Signore è salvezza, per questo il salmista invoca: “Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza” (Sal 24). Il Signore ritornerà nella sua gloria, per realizzare la comunione perfetta con il suo popolo, (Vangelo, cf. Lc 21,25-28,34-36) ed istaurare la sua alleanza eterna. Quindi, il cuore del discepolo non deve appesantirsi, per fare ciò che piace al Signore (Seconda Lettura). Chi attende il ritorno di Gesù Cristo deve vivere nell’operosità, perché se certa è la sua venuta, ignoto è il tempo che solo Dio Padre conosce.

Paolo, apostolo per vocazione, scrittore per necessità

La Prima Lettera ai Tessalonicesi non solo è la prima epistola scritta da Paolo di Tarso, ma è anche il primo scritto del Nuovo Testamento. La cosa suona strana ai nostri orecchi, perché siamo abituati a credere che l’ordine delle nostre Bibbie – Vangeli, Lettere Paoline, Lettere cattoliche, Apocalisse – sia quello anche di redazione dei singoli testi. Nel Nuovo Testamento, invece, gli scritti sono stati redatti in anni diverse ed organizzati a seconda del periodo a cui facevano riferimento. E così i Vangeli vengono prima delle Lettere di san Paolo, non perché scritti prima, ma perché descrivono la vita ed il ministero di Gesù, che culmina nel mistero pasquale, che precede il periodo apostolico, a cui fa riferimento Paolo. L’iter di formazione della Scrittura è molto più complesso di quello che potrebbe sembrare, ma anche una semplice lettura delle introduzioni alle nostre Bibbie, potrebbe aiutarci ad avere idee più chiare, prima di iniziare la lettura e la meditazione di un brano biblico. Le Epistole – è questo il dato più rivelante che caratterizza tutti gli scritti di Paolo – non sono la testimonianza del suo primo annuncio (il cosiddetto kérygma, il primo annuncio della salvezza), ma uno dei modi che l’Apostolo utilizzava – altri sono le visite personali e la mediazione dei collaboratori – per seguire il cammino di crescita delle comunità. In tal modo, Paolo, oltre a predicare il Vangelo e a fondare comunità, affidate alla guida sapiente di alcuni anziani, si prende sollecita cura delle sue chiese e, nei modi più diversi, si fa presente, perché coloro che hanno ricevuto da lui il primo annuncio della salvezza perseverino sulla strada di Dio.

Tessalonica – oggi Salonicco – è un importante città greca, ai tempi dell’Apostolo. Difatti la presenza del porto, oltre a favorire lo scambio ed il commercio, la rendeva un coacervo di etnie e culti, con una forte stratificazione sociale. Stando al racconto degli Atti (16,11-40), Paolo vi giunge a predicare il Vangelo, insieme con Sila, nel suo secondo viaggio missionario – presumibilmente nella primavera dell’anno 50 – e vi rimase per un periodo non ben determinato. L’Epistola sarebbe stata redatta poco tempo dopo la fondazione di quella comunità, perché i credenti venissero aiutati a vivere il Vangelo e crescere nella risposta di fede. Come tutti gli scritti paolini, nell’Epistola ai Tessalonicesi troviamo descritte le situazioni emergenti della comunità e i problemi che sorgono nella quotidiana esperienza di fede, a cui Paolo offre concrete risposte, per testimoniare la scelta di Gesù Cristo, senza arrestare dinanzi alle sfide che sorgono, in un contesto pagano. Strutturata in cinque capitoli, la Lettera si può dividere in due parti. Nella prima (cf. 1Ts 1-3), dopo i saluti iniziali, l’Apostolo ricorda il tempo dell’evangelizzazione e l’invio di Timoteo a Tessalonica “per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede” (1Ts 3,2); nella seconda (cf. 1Ts 4-5) l’autore esorta i credenti a tendere alla santità e ad aspettare il ritorno glorioso del Signore.

Solo Dio fa crescere

Il brano che la liturgia (1Tts 3,12-4,2) oggi ci offre è preso dalle due sezioni che formano l’epistola. Il tenore della comunicazioni è quindi diverso, nelle due parti in cui possiamo facilmente dividere la pericope. Mentre nella prima (vv. 11-13) abbiamo l’augurio dell’Apostolo, perché la comunità venga guidata nel bene da Dio; nella seconda (vv. 1-2), invece, la chiesa di Tessalonica è invitata a vivere secondo le indicazioni ricevute da Paolo, per tendere alla santità e manifestare nella vita la grazia dell’incontro con Cristo. Il contesto del nostro brano aiuta maggiormente nella comprensione di quanto l’Apostolo andrà dicendo. Impossibilitato più volte a raggiungere quella chiesa (cf. 1Ts 2,17-20), Paolo ha inviato il suo collaboratore Timoteo – “Per questo non potendo più resistere, mandai a prendere notizie della vostra fede” 1Ts 3,5 – che, una volta ritornato, “ha portato buone notizie della vostra fede, della vostra carità e del ricordo sempre vivo che conservate di noi” (1Ts 3,6). Da questo nasce il ringraziamento e la lode che sgorga dal cuore di Paolo e di cui la liturgia ci dona gli ultimi versetti.

La prima nota da fare riguarda proprio la centralità dell’esperienza di Dio, nel ministero apostolico, oltre che nella vita cristiana. Il primato, infatti, spetta sempre e solo a Dio, è Lui che “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19), dal momento che “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Paolo, rallegratosi per il bene che la grazia divina opera a Tessalonica, sente il bisogno di rivolgersi indirettamente al Signore, perché porti a compimento l’opera iniziata da Lui in loro. Egli sa che solo Dio può condurre a buon fine ogni cosa, per questo si affida totalmente alle sue mani, riconoscendo che come fu Lui l’ispiratore dell’annuncio del Vangelo, così continui a operare meraviglie nella sua Chiesa. Proprio perché “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Sal 126,1), non è l’uomo l’artefice del bene che si diffonde, perché “nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10,18), e come non “può aggiungere un’ora sola alla sua vita” (Mt 6,27), neppure riesce a dare consistenza ai progetti e ai desideri del suo cuore, se non riceve la forza dall’Alto. La vita cristiana – e Paolo lo sa bene – è sotto la signoria di Cristo, è Lui e Lui solo il Signore – “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi” (Sal 99,3) – Egli solo può suscitare in noi “il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni” (Fil 1,16). Possiamo dire di essere veramente discepoli quando consegneremo la nostra vita nelle mani di Cristo e lasceremo che Lui disponga liberamente e totalmente di noi. La fede deve portarci all’arrendevolezza, la virtù che fiorisce quando, sperimentata la nostra strutturale incapacità a fare il bene, oltre che a volerlo, secondo Dio, ci consegniamo all’opera della grazia santificante. Per questo l’Apostolo scrive “il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti”. La grazia della crescita viene da Cristo. L’Apostolo lo ricorda, ai Corinzi: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che fa crescere” (1Cor 3,6). Tutto quello che in noi c’è di buono, viene da Dio, i propositi di bene, i desideri di carità, le corse nella carità, gli aneliti alla santità, i sussulti di gioia, l’accoglienza della mortificazione, l’offerta nella prova, il giubilo nelle difficoltà, l’abbandono nella solitudine, tutto viene da Dio e come Lui suscita, così anche può perfezionare l’opera sua in noi, per la sua gloria e per la salvezza dei fratelli.

Se riuscissimo a comprendere, in ogni cosa che facciamo, che l’artefice del bene è solo e sempre Dio! La vita familiare sarebbe più spedita, perché gli sposi vivrebbero l’abbandono fiducioso nelle mani di Dio, in ogni situazione della propria storia; le comunità religiose e parrocchiali avrebbero Dio al centro della quotidiana esperienza di vita e non si farebbero prendere eccessivamente dall’attivismo, riservando tempo prima di tutto all’ascolto e al discernimento della volontà di Dio, in ogni azione pastorale. Se è Dio che fa crescere allora noi dobbiamo lasciarci stupire della vita che il Signore fa sbocciare sotto i nostri occhi. Non siamo noi i padroni del bene che fiorisce nelle nostre mani, perché siamo amministratori della grazia, collaboratori e dispensatori della gioia che viene da Dio. È il Padre, infatti, che concede il frutto del grembo ad ogni madre, perché il suo bambino sia il segno dell’amore scambievole degli sposi e della sua volontà di affidare all’uomo la creazione, perché la vita si espanda. E come Dio Padre vide crescere “in sapienza, età e grazia” il suo figlio Gesù, così è Lui a disporre i tempi delle nostre famiglie e i momenti opportuni per diventare adulti nella fede. Siamo chiamati a crescere e a lasciare che sia Dio a darci la grazia di crescere, nella vita naturale nei rapporti familiari e nelle relazioni umane. Le nostre azioni educative non devono mai essere degli interventi contrari alla grazia, in tal caso non solo sarebbero avverse alla volontà di Dio, segno di un mancato discernimento, oltre che di prudenza, ma causerebbero delle battute di arresto, come una gelata primaverile, che colpisce mortalmente i primi germogli, determinando una stagione infruttuosa. Dall’altra parte non si deve neppure pretendere che la crescita sia prematura, perché il cammino deve essere graduale, senza saltare nessuna tappa. Abbiamo bisogno di tempo per divenire coscienti di quanto il Signore opera in noi e dobbiamo darci tempo per non subire i passaggi che viviamo, ma per trarre sempre il meglio da quanto il buon Dio ci concede.

L’Avvento è il tempo in cui operare un serio esame di coscienza sul nostro cammino: stiamo veramente crescendo? Sentiamo che, oltre agli anni, anche il nostro cuore ha fatto dei passi in avanti? La nostra comunità parrocchiale e religiosa vive, per opera della grazia, dei balzi in avanti oppure ci sono situazioni di stallo che impediscono la crescita personale comunitaria? Preghiamo perché il Signore conceda la semina e, con abbondanti piogge di grazia, per una crescita graduale, che prepara un raccolto abbondante? Sento di essere il padrone della crescita della persone che mi sono accanto? Come vivo la responsabilità educativa nell’accompagnare la crescita dei figli o, come parroco, della comunità a me affidata? Credo che tutto dipenda da me oppure lascio che sia Dio a fare meraviglie? Nel nostro essere genitori ringraziamo ogni giorno per il dono della maternità e della paternità e comprendiamo che è una responsabilità da far crescere ogni giorno, oltre la pura dimensione naturale?

Dio sempre ci arricchisce nell’amore

Insieme alla grazia della crescita, l’Apostolo auspica che “il Signore vi faccia […] sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti”. Il dono che Dio fa di se stesso è sempre in eccesso. La natura dell’amore è la sovrabbondanza di dono. Per se stesso, amare significa effondere grazia, oltre ogni possibile misura. La ricchezza non è una necessità, ma è l’eccedenza, il necessario è ciò di cui una persona ha bisogno per vivere – si pensi alla vedova che getta nel tesoro tutto quanto ha per vivere (cf. Mc 12) – in tal senso, amare significa superare la pura necessità che l’altro ha e donargli non secondo la misura della sua capacità di accogliere, ma secondo la propria possibilità e volontà di dare. Il dono, nell’amore, non è proporzionato alla capacità dell’amato, ma al dono di colui che ama. Questi poi non si preoccupa che venga capito o accolto nel dono, ma che il cuore suo sia pago di effondersi per la gioia di amare. Chi ama non ricerca il contraccambio, se non perché l’amato scopra nella reciprocità del dono la gioia dell’amore in pienezza. Se chi ama ricercasse di essere riamato, sarebbe egoista e non amerebbe in gratuità. Invece, chi ama veramente desidera che l’amato abbia il bene più grande, che goda della gioia più grande e l’amore che dona in eccesso risponde al suo desiderio che l’amato abbia il meglio, anche se non lo sa, che respiri nell’abbraccio immenso di chi più può dilettare il suo cuore, che si muove in totale libertà nello spazio protetto di chi veglia su di lui, senza appropriarsene. Così ci ama Dio, il suo amore è sovrabbondante, è un amore in eccesso, che supera ogni nostra necessità, perché il Signore ci ama secondo la sua capacità di amarci, quindi ci ama in modo eterno ed infinito. Chi può dire di contenere in sé la grazia dell’Eterno? Chi può illudersi di fare della sua vita un tempio a Colui che è più immenso del cielo?

L’amore che Cristo riversa nel mio cuore, lo Spirito-amore che Lui, risorto, effonde dalla sue labbra, il giorno di Pasqua, è la ricchezza di Dio che abita la nostra povertà. Dio, amandoci, non cancella la nostra umanità, ma la trasforma e da ricettacolo del nostro egoismo diviene luogo della manifestazione della sua potenza. In tal modo, non solo “Dio è amore” (1Gv 4,8), ma “ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida «Abbà, Padre!» (Gal 4,6). La sovrabbondanza dell’amore è il dono dello Spirito in noi. È Lui la ricchezza di Cristo, dell’amore Egli è il dispensatore, in ogni attimo della sua vita, in un progressivo cammino verso la pienezza, che si compie nel mistero della sua croce. Di cosa potrebbe dirsi ricco in eccedenza colui che pende nudo dal legno? E come potrebbe rendere ricchi gli uomini, colui che, facendosi uomo si è spogliato di tutto? Nella sua passione, Cristo è denudato, percosso e oltraggiato, flagellato e sputato, ma nessuno ha potuto strappargli la ricchezza della sua divinità, la potenza del suo amore che salva. In questo modo, nella sua Pasqua, Gesù Cristo diventa trasparenza della ricchezza dell’amore del Padre, perché il suo corpo rivela, attraverso le sue piaghe che sono fenditoi di misericordia, la potenza dell’amore che vince la morte. È questa la ricchezza che portiamo nei nostri cuori, la sovrabbondanza di un amore che ci possiede, di una grazia che ci abbraccia, di una potenza che ci abita, di una tenerezza che ci invade. Abbiamo in noi la ricchezza di Cristo. Non siamo più poveri e se lo siamo, non è più un problema, perché anche la nostra povertà è il luogo che accoglie la grazia, il buio che lascia splendere il chiarore della luce che mai tramonta. La povertà creaturale è la possibilità della relazione con Dio che è la nostra ricchezza. “Tu sei tutta la nostra ricchezza a sufficienza” canta san Francesco, sul monte de La Verna, dopo aver ricevuto il dono delle stimmate da Cristo, che gli appare nelle sembianze di un serafino alato.
Dio è la vera ricchezza per l’uomo e solo Dio ci può arricchire, solo Lui ci arricchisce. “Cristo si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”(2Cor 8,9). Ma la ricchezza di Dio passa attraverso la nostra povertà, è questa la via aurea per accogliere il dono di Cristo e vivere nell’amore che Egli dona senza misura. Da questo impariamo che la ricchezza dell’amore si trasmette solo nella povertà che ci costituisce, perché questo Cristo ci ha insegnato, a donare l’amore, nella concretezza della nostra fragilità, nella creaturalità che ci costituisce, nel limite che è parte del nostro essere. In tal modo, posso donare la ricchezza dell’amore, se Dio lo riversa in me, lasciando che la mia povertà non venga né nascosta, né cancellata, ma che sia veicolo della grazia che il Signore mi dona. Così facendo, io dono ciò che il Signore mi dona, non perché io me ne appropri, ma perché io a mia volta lo doni. Di cosa allora Cristo mi arricchisce, se ciò che Lui mi dona è a me affidato per trasmetterlo agli altri? Della capacità di donarmi, di questo Cristo mi arricchisce. La mia povertà, accogliendo la ricchezza divina, diviene veicolo della sua grazia ed è in tal modo trasformata. Non perché smette di essere povertà, ma perché Dio le imprime la capacità di apprendere che la povertà non deve essere vissuta nella mendicità di richiedere il necessario, ma nella capacità di accogliere e donare ciò che si riceve. Cristo mi dona la gioia del dono ed è questa la reciprocità nell’amore che Paolo richiede per i Tessalonicesi.

L’amore di Dio, la sovrabbondanza del dono suo in noi è come il mosto, ribolle sempre, è come il lievito, fermenta ogni farina. Chi ha in sé lo Spirito di Cristo sente l’ansia di espandere il regno dell’amore, di farlo giungere dovunque, perché plasmi ogni realtà e dall’interno mirabilmente e misteriosamente la trasformi. L’amore che il Signore riversa in noi è capacità di vivere la sovrabbondanza del dono, nelle relazioni che scandiscono quotidianamente la nostra vita. La forza di Dio in noi rompe gli otri vecchi della nostra mentalità e si espande fino a raggiungere gli altri, quelli più lontani e diversi da noi. L’amore di Cristo non conosce confini. Anche per il discepolo vale questo stesso criterio. Il “verso tutti” di cui parla Paolo non conosce esclusioni, perché “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Dobbiamo lasciare che l’amore di Dio in noi non conosca favoritismi e che nessuna barriera lo freni, nella corsa per raggiungere e donarsi a tutti. È Dio, infatti, che come potenzia negli sposi, con la grazia del sacramento nuziale, la reciprocità del dono e orienta l’amore a superare l’egoismo e a ricercare sinceramente il bene, così conduce i presbiteri a sbaragliare gli angusti spazi di un cuore umano che ricerca sempre e solo il proprio interesse, per abilitarlo ad essere presenza di Cristo che tutti accoglie. C’è una circolarità di amore che si crea tra i Tessalonicesi e Paolo, un affetto scambievole che è il segno della presenza e dell’azione di Cristo Risorto in loro e tra loro. La ricchezza di Cristo va riversata nelle relazioni familiari e comunitarie, perché solo così i cuori divengono saldi e irreprensibili nella santità.

Ci domandiamo, in questi giorni di Avvento: in che modo cerco di sovrabbondare nell’amore? Ci sono momenti in cui gioco al risparmio ed indietreggio nel rapporto? Quando l’altro, per qualsiasi motivo, batte ritirata, cosa faccio, mi chiudo anch’io e si vive il muro contro muro oppure riesco, con la grazia di Cristo, a superarmi e a vivere la ricchezza dell’amore che il Signore sempre è pronto a donarmi? Che capacità ho e dimostro nel vivere la dinamica del dono senza misura? Nella mia comunità parrocchiale e religiosa, c’è la gara nella costruire la comunione e la reciprocità della stima e dell’affetto sincero? Le nostre relazioni sono scandite da ira e gelosie, invidie e arrivismo oppure riusciamo a fare spazio in noi e tra noi alla grazia di Cristo?

Camminare senza fermarsi

Le accorate raccomandazioni che l’Apostolo rivolge ai Tessalonicesi sono finalizzate a “progredire ancora di più”, letteralmente sarebbe “abbondare sempre più” (4,1). Non possiamo fermarci nel cammino, ma è necessario procedere sempre in avanti, senza mai volgere indietro il proprio sguardo. E se Dio dona l’abbondanza nell’amore (v. 12), i Tessalonicesi devono vivere nell’abbondanza del dono. Non possono né misconoscerlo, né lasciarlo infruttuoso. I talenti, infatti, vanno fatti trafficare, perché ci sono stati affidati perché portino più frutto, per la gioia del Padre. Dio ha fiducia in noi, ci dona tutto e noi, riconoscenti per il dono ricevuto, dobbiamo far crescere il dono suo, con la nostra fattiva collaborazione. In cosa il Signore ci chiede di abbondare, mettendo a frutto la grazia che ci ha già benevolmente elargito? Quale passo in avanti ci è chiesto perché la sua forza in noi non sia vana? In che modo piacere al Signore, in ogni cosa? Solo queste soltanto alcune domande che l’Avvento ci dona, come promessa di bene, se, come Paolo, accogliamo docilmente la Parola di Dio e lasciamo che, caduta nel buon terreno del cuore, fruttifichi in abbondanza.




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