II Domenica di Avvento – Anno C – 9 dicembre 2018

La mia vita ha senso se mi prendo cura della persona che mi è accanto

coppia

di fra Vincenzo Ippolito

È questo il senso della missione, annunciare al fratello la presenza di Cristo Salvatore significa donargli ciò che ho di più caro, perché abbia in Cristo la vita in abbondanza. La Chiesa esiste per l’annuncio, insegnava Paolo VI. E questo impegno dobbiamo viverlo sempre, dal primo giorno fino al presente.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (1,4-6,8-11)
State integri e irreprensibili per il giorno di Cristo.
Fratelli, sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

 

La seconda tappa del nostro cammino di Avvento ci conduce nella regione intorno al Giordano, dove Giovanni il Battista – come ci viene narrato nel Vangelo (cf. Lc 3,1-6) – predica un battesimo di conversione, per il perdono dei peccati. La figura austera, la voce incisiva, lo stile penitente del Figlio di Zaccaria ed Elisabetta mostrano come il Signore non abbandoni il suo popolo, inviando la sua Parola che, consacra i profeti perché siano, in mezzo al suo popolo, annuncio gioioso della venuta del Salvatore. L’opera del Precursore realizza così le antiche profezie – come quella di Baruc, che risuona nella Prima Lettura (cf. Br 5,1-9) – e la storia diviene lo scenario della rivelazione definitiva di Dio in Cristo, poiché Egli “ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio”. Dio ha deciso – “Il Signore ha giurato e non si pente”, il suo amore è concreto, la sua misericordia efficace. La deliberazione del Signore comporta sempre la salvezza e la vita per i suoi eletti. La Seconda Lettura, tratta dall’Epistola ai Filippesi (cf. 1,4-6,8-11), testimonia la sollecitudine dell’Apostolo nel dare continuità alla salvezza che Cristo è venuto a portare.
L’annuncio gioioso dell’Avvento “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”, che la liturgia oggi ci dona, si traduce per ciascuno di noi in docilità allo Spirito, perché la nostra vita, diventi, come quella di Maria, trasparenza di Dio-amore.

La gioia di Cristo nasce dalla partecipazione alla sua Pasqua

La Lettera ai Filippesi, al dire degli studiosi, è una delle ultime, se non l’ultima, produzione letteraria dell’Apostolo. Strutturata in quattro capitoli, ben circoscritti, come ogni lettera, da una chiara cornice epistolare (saluti iniziali e preghiera, cf. Fil 1,1-2; ringraziamenti finali e commiato, cf. Fil 4,10-23), ad alcuni sembra raccolga in unità una più ampia corrispondenza intercorsa tra l’Apostolo e quella chiesa. Secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (16,11-12), Filippi, “prima città del distretto di Macedonia”, in Grecia, fu la prima città dell’Europa ad essere evangelizzata da Paolo, durante il suo secondo viaggio missionario – intorno all’anno 49 – insieme con Timoteo e Sila. A quei cristiani, quasi esclusivamente gentili, dal suo carcere – per alcuni a Roma, per altri ad Efeso – indirizzerà un’epistola, per rincentrare il mistero pasquale di Cristo, sostenere la gioia della vita nuova nel Signore risorto e per difendere il suo ministero dagli avversari, da cui raccomanda di stare attenti, scrivendo, fuor di metafore, “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dai falsi circoncisi” (Fil 3,2). A parte il tema dell’autodifesa (cf. Fil 3), tutta l’epistola è pervasa da un senso di intima gioia, perché la testimonianza di Cristo permei la vita dell’Apostolo, anche in un tempo di grande tribolazione, come la prigionia (cf. Fil 1,7.13.17).

La preghiera come consegna e povertà

Il brano liturgico odierno è tratto dalla prima parte della Lettera, i ringraziamenti (cf. Fil 1,3-11), che seguono i saluti iniziali (cf. Fil 1,1-2), sono appena cinque i versetti (4-6. 8-9) che ci sono donati, saltando il v. 7, che descrive il periodo di prigionia dell’Apostolo. Per una maggiore comprensione della pericope è bene contestualizzato nell’intero brano (cf. Fil 1,1-11), così da avere un quadro chiaro della situazione che l’Apostolo sta vivendo e di come sia profondo il rapporto che lo unisce ai quei cristiani, a motivo dell’evangelizzazione.

Prima di entrare nel vivo della comunicazione epistolare, Paolo, come fa solitamente, si rivolge al Signore, con animo grato – “Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi” (v. 3) – mostrando come il loro ricordo si traduca in preghiera – “Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia” (v. 4) – “a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente” (v. 5). Diversamente da quello che crediamo, l’evangelizzazione nella chiesa primitiva non è portata soltanto da alcuni, ma tutti i membri della comunità, pur se a titolo differente, compiono la propria parte e offrono il contributo che la grazia di Dio suscita in ciascuno. C’è una rete di relazioni tra i credenti che è il segno di come la fede motivi l’impegno comunitario e determini rapporti belli, amicizie sincere, in quel mutuo aiuto che conduce il Vangelo ad essere seminato anche dove ancora non è giunto. In tal modo, l’Apostolo ci conduca a riflettere su cosa significa essere chiesa e su come il nostro impegno debba essere fattivo, in vista dell’evangelizzazione di altri fratelli.
Tutto parte, sembra dire l’Apostolo, dalla preghiera, dalla lode che, pur tra le difficoltà – Paolo si trova in catene per il Vangelo – sale al Cielo, nella consapevolezza che “la parola di Dio non è incatenata” (2Tm 2,8). Per lui, ricordare una persona, avere a cuore una comunità, sentire il desiderio di riabbracciare coloro che hanno trovato la via del Signore, attraverso il suo ministero, non è soltanto lasciare che la nostalgia consumi il cuore e neppure attuare un mero trasporto psicologico, così da ritornare al passato e rivivere, nella propria mente, la gioia sperimentata un tempo. Il ricordo porta l’Apostolo alla preghiera, a tradurre la gioia dell’incontro vissuto un tempo in richiesta accorata e perseverante al Signore, perché continui l’opera iniziata e manifesti la sua potenza, nei segni prodigiosi che sempre compie in coloro che credono e lasciano totale libertà alla sua grazia. Non serve ricordare il passato, perché potrebbe diventare un rifugio in momenti di difficoltà, un luogo in cui trovare pace, quando, invece, la battaglia che infuria intorno chiede al discepolo di Cristo di non estraniarsi dalla lotta, ma di combattere con le armi di Dio (cf. Ef 6,13ss). Paolo questo lo sa bene. Il suo non è un ricordo sentimentale, ma tutto diviene memoria grata e motivo di lode, perché oltre a riconoscere Dio autore del bene compiuto, lo si invoca Continuatore dell’opera iniziata, perché la porti a perfezione. Nelle sue catene, la memoria diventa rendimento di grazie, nel suo carcere il ricordo affettuoso nutre la preghiera. Come la legna alimenta il fuoco e lo fa maggiormente ardere, così il pensiero fisso della comunità di Filippi, delle difficoltà che vivono, degli avversari che seminano scompiglio e confondono gli animi, conducono Paolo a prendere coscienza che egli non può nulla e che solo Dio può intervenire, per sanare la situazione e ricomporre le difficoltà emergenti. E così può scrivere “Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia” (v. 4).
La preghiera è il luogo della povertà creaturale, dove si vive l’espropriazione e ci si consegna a Dio, creatore e Padre. Non si vive la propria debolezza, quando si prega, come un peso, perché il Signore che hai sempre dinanzi agli occhi, non ti giudica, né mortifica, non ride delle mancanze e non mette la mano nelle tue ferite, se non per guarirle, quando gli viene permesso di stendere la sua mano perché rifiorisca la vita. Pregando il discepolo avverte il proprio limite e accoglie la sua creaturalità, perché sa che è la condizione per vivere nell’alleanza con Dio e nella comunione con ogni creatura. La preghiera ci porta ad essere veri e a saper meglio gestire il delirio di onnipotenza che il nostro egoismo inietta nel cuore, quel veleno mortifero che impedisce alla mente di andare oltre, per accogliere il mistero divino. L’orazione non è un rifugio, ma il luogo della verità che genera l’incontro con se stessi in Dio e della relazione amorosa con il Signore, nella preghiera si consegna la propria storia e le nostre impossibilità si trasformano in offerta confidente nella mani di Dio. Paolo non può fare nulla per quella sua chiesa, ma per lui rivolgersi a Dio non significa inattività, tutt’altro. Pregare significa lasciare che le situazioni non pesino sul mio cuore, fidandosi del Signore, che solo è grande, onnipotente, capace di fare nuove tutte le cose. In questo modo l’Apostolo si espropria di ogni cosa, consegna le sue comunità nelle mani di Dio, perché le pecore sono del Pastore grande e il ministro è solo un guardiano, un inviato, ma non è il Signore, il Padrone del gregge o della vigna. Un sano realismo conduce Paolo a vivere nella povertà e a sperimentare la gioia che nasce proprio quando non si trattiene nelle mani una situazione, un sentimento, un problema, ma si ha il coraggio e la forza di condividerlo con Dio e con i fratelli.

Obbediente alla tradizione della chiesa primitiva, che convergerà nel monito evangelico “pregare sempre, senza stancarsi” (cf. Lc 18,1), Paolo sa bene che la preghiera deve essere continua – lo dirà espressamente in Col 4,2 – perché l’orazione è un atteggiamento del cuore che sostiene la vita, orientandola verso il Padre. Chi prega, sa che sempre deve rivolgersi a Lui, non solo durante i momenti nei quali si è in profonda comunione con Dio, nel silenzio e nella meditazione, partecipando alla voce orante di Cristo, nello Spirito Santo. La preghiera è uno status, un habitus morale, un comportamento che deve divenire abituale, anche oltre i tempi della preghiera. Una cosa è la preghiera, altro è lo spirito della preghiera. La preghiera, i tempi di statio, nella meditazione e nell’incontro con Dio, nella lettura della Scrittura o nel dialogo amicale ed affettuoso devono alimentare la vita con lo spirito della preghiera, che consiste nella relazione con Dio, nel desiderio/volontà di vivere in Lui, alla sua presenza, sotto il suo sguardo, perdendosi nel suo amore, pur tra le mille attività che si vivono ogni giorno. Se preghiamo con le labbra, ma il cuore è lontano, lo spirito della preghiera, che è poi lo Spirito di Cristo, non plasmerà la nostra vita, rendendola in sintonia con la volontà del Padre. Per questo bisogna distingue le formule (preghiere) dalla preghiera o spirito della preghiera che è relazione con Dio, per Cristo, nella forza dello Spirito Santo. Vivere sempre alla presenza del Signore ci porta ad avere la stessa consapevolezza di Elia che si presenta al re Acab, dicendo: “Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto” (1Re 17,1). Il profeta porta fuori dal tempo della preghiera, l’atteggiamento orante che sempre lo sostiene: sapere di vivere alla presenza del Signore. Questo significa pregare sempre: vivere alla presenza di Dio, perché Egli c’è, è dinanzi a noi e sempre ci sostiene con la sua grazia. In tal modo si crea un’osmosi tra contemplazione e azione. Nell’orazione si tiene fisso lo sguardo del cuore sul volto del Signore e si ascolta la sua voce, nell’azione, di conseguenza, si obbedisce a quando ci è stato riferito, avendo sempre dinanzi gli occhi di Dio, che guida le nostre azioni e ci sostiene, con il suo amore fedele. Il Padre ci guarda non nell’atteggiamento inquisitorio di chi ci fa vivere nel timore per qualche castigo che potrebbe sopraggiungere. Egli, invece, con il suo sguardo amorevole ci incoraggia, muove i nostri cuori alla speranza, a credere nelle possibilità che ci ha dato, a mettere a frutto i talenti che benevolmente ha affidato.

Dalla preghiera così vissuta ed intesa, dal sapere che Dio condivide, da Padre, le nostre difficoltà e sostiene il nostro cammino, nasce la gioia come pienezza di vita in Cristo. La relazione con Dio che mai esclude gli altri, anzi che partecipa loro la grazia del dialogo con il Signore fa nascere nel cuore dell’orante la gioia, quale partecipazione alla pace vera che abita il cuore divino del Signore. Per questo l’Apostolo scrive “Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia” (v. 4). Come “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7), così fa sorgere la gioia in coloro che lo pregano sempre, ovvero orientano a Lui la vita e vivono nella sua volontà. Quella di cui parla Paolo non è però la gratificazione come ricerca egoistica del proprio tornaconto – la ricompensa di cui parla Gesù in Mt 6,3.5.16, che, fine a se stessa, esclude ogni dono da parte di Dio Padre – perché la gioia vera è quella che Cristo dona (cf. Gv 15,11). È Lui la nostra gioia, la nostra pace, dal tesoro del suo Cuore attingiamo la forza per essere nella storia lievito di fraternità e strumenti della sua pace.

Una comunità in stato permanente di missione

Un secondo passaggio che l’Apostolo sottolinea è la cooperazione nella diffusione del Vangelo. Il ricordo fiorisce in preghiera per i Filippesi, “a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente” (v. 5). Il rapporto che Paolo vive con quella comunità è fondato sulla fede in Cristo e sull’impegno di lavorare insieme perché la Parola si diffonda e sia glorificata. Non è portato da interessi personali o di parte alla lode e al ringraziamento, perché non è il solo piano orizzontale che motiva l’apostolato di Paolo, ma l’evangelizzazione, la fede che nasce dall’ascolto della salvezza. Quei pagani, una volta accolto l’annuncio della Pasqua di Cristo e aver creduto nella sua potenza, che opera nella sua Chiesa, hanno non solo iniziato a vivere una vita nuova, ma sono divenuti cooperatori di Paolo, nell’annuncio del Regno. Si tratta di un passaggio significativo, perché questo vuol dire che la fede deve fiorire nella missione e non si può aspettare il raggiungimento della perfezione morale, per predicare il Vangelo, perché tutti siamo chiamati a mettere le nostre energie a servizio di Cristo. La tempestività della missione la si nota nel fatto che i Filippesi “dal primo giorno fino al presente” (v. 5) hanno accolto la responsabilità e l’impegno dell’annuncio, non hanno atteso, perché tale era la gioia di aver creduto in Cristo che non potevano tacere l’esperienza fatta della salvezza ricevuta in dono. Così si è verificato nei Filippesi ciò che era già accaduto all’Apostolo, stando al racconto degli Atti. Dopo l’evento di Damasco, Paolo “subito si mise a predicare Gesù nelle sinagoghe, proclamando: Questi è il Cristo” (At 9,20). Chi ha incontrato veramente Gesù Cristo, chi ha sperimentato la grazia della salvezza, vive in Dio e nulla può frenare la corsa della Parola nella sua vita, l’ansia di partecipare anche ad altri la grazia della conversione e la gioia dell’incontro con il Salvatore. È questa la bellezza della vita cristiana: genera altri incontri di salvezza, come la vocazione di Andrea lo conduce a portare da Gesù anche suo fratello, Simone (cf. Gv 1,41-42). La missione è una responsabilità per ogni credente –“Guai a me se non annuncio il Vangelo” (1Cor 9,16) – ma è prima di tutto un’esigenza del cuore che ama Dio e vuol donare al fratello l’esperienza più importante della vita. Difatti, “Che serve guadagnare il mondo intero e poi perdere la propria anima?” (Lc 9,24) ammonisce Gesù. La mia responsabilità, il cammino di discepolato dietro Gesù mi porta a preoccuparmi dell’altro, a pensare alla sua vita vera, a sapere che egli ha bisogno quanto me di Cristo ed io sono accanto a lui perché lo incontri e sperimenti la salvezza.

Questa dinamica è alla base della vita degli sposi e del rapporto con i figli, come anche in una comunità religiosa ed in ogni parrocchia. La mia vita ha senso se mi prendo cura della persona che mi è accanto. È questo il senso della missione, annunciare al fratello la presenza di Cristo Salvatore significa donargli ciò che ho di più caro, perché abbia in Cristo la vita in abbondanza. La Chiesa esiste per l’annuncio, insegnava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, l’esortazione La gioia di annunciare il Vangelo del 1975. E questo impegno dobbiamo viverlo sempre, dal primo giorno fino al presente. Come la preghiera deve sempre alimentare la nostra vita di fede, così l’annuncio deve motivare ogni azione della nostra esistenza, familiare e comunitaria.

Ma, è bene ricordarlo, nessuno è padrone della Parola che annuncia, né deve vivere da battitori solitario nella vigna del Signore. Paolo parla di comunione – è questo il termine del testo greco, nel v. 5 – ovvero di collaborazione, nell’opera di evangelizzazione. Bisogna lavorare insieme, fare cordata. Il Vangelo non lo si predica mai da soli, ma sempre con gli altri. Il Signore non inviò forse i suoi discepoli a due a due? La loro testimonianza di vita li avrebbe condotti a far sorgere nel cuore degli uomini la curiosità per il loro andare, senza borsa né bisaccia, ricchi solo della semente della Parola del Maestro, che portavano nei sacchi della mente e del cuore. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35), assicurerà Gesù, quasi a dire ai suoi che la credibilità della Parola annunciata è la testimonianza della fede vissuta. Il Vangelo si annuncia insieme e la testimonianza più bella del nostro essere cristiani è la concordia tra noi, la mutua carità che permette ad ogni virtù di fiorire e prosperare.
È necessario lavorare sulla responsabilità condivisa nell’annuncio della buona Novella. A ben pensare questo è l’impegno della vita cristiana. Non serve organizzare piani pastorali ad oltranza e farsi consumare dall’attivismo spasmodico. È, invece, indispensabile che l’annuncio parta dalla vita per raggiungere il vissuto dei fratelli. Questo significa cura delle vocazioni, perché una famiglia che vuol annunciare e dedicare tempo ed energie all’evangelizzazione, deve, prima di tutto, essere famiglia, piccola chiesa, vivere la bellezza dell’amore, custodire l’innocenza dei figli, lo sperimentare la gioia dell’essere una carne sola porta i coniugi cristiani a testimoniare la bellezza della vita sponsale ai figli e questo viene prima di ogni tempo dedicato alla catechesi e alle attività apostoliche. In questo modo sarà la vita ad evangelizzare e, anche le attività che potranno seguire, saranno una esplicitazione di una vita abitata dalla signoria di Cristo e le parole che medieranno l’annuncio saranno quelle che lo Spirito continua a scrivere nella propria carne. Così è anche per una comunità parrocchiale o religiosa. A che serve uscire per evangelizzare, quando in casa mia non vivo relazioni sincere e serene con il confratello o la consorella? Dobbiamo essere chiesa in uscita, che annuncia il Vangelo, ma nella comunione, nella responsabilità condivisa, nei tempi opportuni che ci vengono dati, senza dimenticare che si evangelizza con la vita, prima che con le parole e che i nostri contesti esistenziali sono il bando di prova della credibilità della nostra fede.

Rapporti plasmati dall’amore di Cristo

La cosa che più colpisce nel brano odierno di san Paolo è il tono accorato ed affettuoso che scandisce la comunicazione epistolare. “Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù” (v. 8). E proprio questo amore che sgorga dalle sue viscere, partecipazione al cuore amate del Signore, di cui Paolo, come suo ministro, è viva immagine, sgorga la preghiera: “E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento” (v. 9). Chi ama desidera il meglio per l’altro e c’è amore più grande di chi desidera il puro amore dell’altro, ovvero quell’amore che è il segno vivo della vita di Cristo in noi?
Il tempo d’Avvento ci è dato per preparare il nostro cuore all’incontro con Cristo, per essere partecipi del suo amore redentivo, ma è possibile viverlo, senza un incontro autentico anche con quanti ci sono accanto? L’amore di Dio in noi ci spinge verso gli altri e crea la comunione nell’amore e nel dono. Dobbiamo prepararci a questa esperienza di amore che Cristo è venuto a portare come fuoco (Lc 12,49). La comunione nella Chiesa è incendio d’amore e più, come l’Apostolo, vivremo nelle catene, maggiore saranno le fiamme che ci spingeremmo a fare della nostra vita un dono ai fratelli. Preghiera e azione, contemplazione ed evangelizzazione, vanno sempre insieme, persuasi anche noi con Paolo che “colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (v. 6). Questo tempo santo ci ricordi il primato di Dio e ci porti a credere che solo l’amore riversato da Cristo in noi può fare meraviglie di grazia.




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