IV Domenica di Avvento – Anno C – 23 dicembre 2018

Offrire la propria carne, i sentimenti e gli affetti, non è forse il sacrificio santo del matrimonio?

di fra Vincenzo Ippolito

Quando le cose si fanno per dovere, quando si vive al risparmio, quando si misura il dono, così da non intaccare tempi e spazi propri, quando la possibilità di un figlio sconvolge progetti e realizzazioni personali significa che si sta vivendo il rapporto al ribasso e la grazia sponsale non esplode come dovrebbe, secondo il dono di Dio.

Dalla Lettera agli Ebrei (10,5-10)
Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà.
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”».
Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.

 

Siamo giunti all’ultima tappa del nostro cammino di Avvento, che quest’anno coincide con l’antivigilia di Natale. Non avremo quindi un’intera settimana per sviluppare la ricchezza che la liturgia oggi ci dona, ma, al pari della Vergine, dobbiamo andare “in fretta”, se vogliamo arrivare con i pastori, a Betlemme, per contemplare il divino Bambino nato per noi.
I testi della liturgia di questa IV Domenica di Avvento ci proiettano nel clima gioioso dei primi capitoli del Vangelo secondo Luca, facendoci vedere come la grazia del Salvatore giunga nella casa di Zaccaria, attraverso la tenera presenza di Maria. Difatti, proprio l’incontro tra la Vergine ed Elisabetta, nella casa di Ebron, è descritto dalla pagina evangelica lucana (cf. Lc 1,39-45). La Prima Lettura, invece, ci conduce ad ascoltare le profezie circa la nascita del Cristo. È Betlemme, come annuncia Michea (5,1-4a), il luogo prescelto della rivelazione del Messia che “si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio” (v. 3). La Seconda Lettura, tratta dall’Epistola agli Ebrei (cf. 10,5-10), rilegge, invece, la venuta del Signore, attraverso le categorie del sacrificio e dell’offerta, proprie dell’antica alleanza. Entrando nel mondo, Cristo presenta al Padre la sua vita e mostra come il vero culto che Dio gradisce sia l’offerta di se stessi. In tal modo comprendiamo come le attese dell’Antico Testamento, illuminate dalle promessa, circa la venuta del Signore (Prima Lettura), si realizzano attraverso Maria, (Vangelo) e il Salvatore che Lei ci dona, viene nel mondo in obbedienza al Padre, per essere sorgente di vita nuova e di santificazione per tutti gli uomini (Seconda Lettura).

Il coraggio di uscire per entrare nella vita dell’altro

La Lettera agli Ebrei, per lungo tempo considerata opera di san Paolo, è uno scritto del Nuovo Testamento che, pur se definito e considerato solitamente una lettera, del genere epistolare sembra avere ben poco. Manca, infatti, la struttura classica di mittente, destinatari e saluti iniziali, anche se, in chiusura, si nota l’epilogo finale (cf. 13,22-25), che ha portato alcuni studiosi a crederla una lettera vera e propria. Oggi, la maggior parte degli studiosi la considera un’omelia, inviata per lettera, che ha i suoi temi cardini in Cristo, sommo ed eterno sacerdote e sul suo sacrificio esistenziale che culmina nel mistero pasquale, causa di salvezza eterna per quanti credono in Lui. L’esegesi tradizionale divideva i suoi tredici capitoli in due sezioni (parte dogmatica, cf. Eb 1-10 e parte morale, cf. Eb 11-13), ma oggi si preferisce dividerla seguendo i diversi temi che l’autore ispirato sviluppa. Ad una comunità che proviene in larga parte dalla cultura ebraica, ben radicata nelle tradizioni dell’Antico Testamento, l’autore indirizza una lunga catechesi per rileggere la realtà dell’economia salvifica antica, polarizzata su tempio, sacerdozio e sacrifici. Egli mostra che tutte le figure antiche si sono realizzate in Cristo. È Lui a donarci la possibilità di accedere al Padre, nella forza del suo Spirito.

Il brano liturgico odierno attinge dal capitolo decimo della Lettera che mette in luce la superiorità del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, rispetto all’economia dell’Antica Legge. Come spesso capita nella lettura liturgica della Scrittura, la pericope (cf. Eb 10,5-10) è parte di una sezione ben più ampia (cf. Eb 10,1-18), la cui lettura offre la possibilità di avere un quadro più chiaro di quanto l’autore sta dicendo. “La Legge antica – si legge in Eb 10,1 – poiché possiede solo un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non ha il potere di condurre alla perfezione per mezzo dei sacrifici”. Questa affermazione di principio, ampiamente giustificata in precedenza, diventa la pietra angolare della nuova argomentazione, incentrata sull’opera salvifica di Cristo. Tutta la vita terrena del Signore è vista come un progressivo itinerario, nel quale Gesù manifesta la sua volontà di aprirci alla conoscenza dell’unico Dio che è Padre e di parteciparci i beni della salvezza. Come Paolo in 2Cor 8,9 rilegge l’esistenza di Gesù Cristo con le categorie ricchezza/povertà, così il nostro autore vede già nella venuta del Verbo nella nostra carne mortale il senso della sua vita spesa per gli altri. Alla luce della Pasqua, la nascita del Signore è riletta con categorie nuove, che trascendono la pura narrazione storica dei Vangeli, andando al significato che l’evento ricopre, nella fede della comunità cristiana. In tal modo, l’autore pone idealmente sulle labbra di Cristo che viene nella storia le parole del salmo 40 e così tutta la vita del Verbo fatto carne è sotto il segno della docile ed incondizionata obbedienza al volere del Padre.

È bello seguire quando il testo ci fa immaginare. Scompaiono, nella descrizione proposta sulla venuta di Cristo, la stalla e la greppia, anche Maria e Giuseppe non vengono descritti, nel momento in cui Dio entra nel mondo, perché l’attenzione della rilettura della lettera è messa su Cristo, in tutto abbandonato a ciò che il Padre desidera da Lui. Così facendo, la stessa volontà di fare ciò che piace al Padre che il Nazareno ha vissuto, nel mistero della sua morte – “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” – è dinamica che il Verbo già vive venendo nel mondo. In Cristo c’è questa tensione a fare la volontà del Padre. È questo il suo cibo e la sua forza, il motivo del suo annuncio e la gioia della sua consegna. Gesù vive nell’orizzonte dell’amore del Padre, perché sa che al di fuori di questo spazio vita, c’è la morte, perché la vita è l’amore del Padre. Lontani da Lui, c’è il vuoto del proprio cuore abitato dall’egoismo. La preghiera che Egli insegna ai suoi discepoli, è la sintesi della sua vita, totalmente protesa a Dio, nella continua ricerca del suo volto di luce, nel desiderio struggente di partecipare agli uomini la relazione profonda vissuta con Lui, nel silenzio orante e nella solitudine prolungata. Poiché “è impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati” (Eb 10,4), “entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (vv. 5-7). La fine della vecchia economia, basata sui sacrifici rituali, è determinata dall’offerta di Cristo, che non si accontenta di dare a Dio delle cose, ma si offre a Lui in sacrificio di soave odore. Andando per gradi, comprenderemo meglio la ricchezza del testo.

Prima di tutto, l’autore dice “entrando nel mondo” (v. 5). C’è un momento preciso in cui Dio entra nella storia e ne determina una trasformazione profonda. Già in precedenza aveva scritto “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1). L’accento è ora posto sul gesto compiuto da Gesù – entrando – e sul luogo della sua visita, che è il mondo. Non si tratta di una rivelazione per pochi eletti, come nel caso del popolo d’Israele, destinatario privilegiato della Legge, ma di tutti gli uomini. L’iniziativa è di Dio, è Lui che entra nello spazio della nostra vita e questo comporta, per il Verbo, l’uscire dalla sua luce, per essere luce nella nostra tenebra. Si tratta della dinamica dell’uscire da sé e dell’entrare nel mondo dell’altro che si ama. Non è forse questa la dinamica di ogni autentica comunicazione? Un vero dialogo non si crea forse, quando io esco dal mio mondo e vivo il coraggio e la sfida di entrare nel mondo dell’altro, assumendolo, senza per questo perdere la mia personalità e la ricchezza di quello che sono? Dobbiamo imparare da Cristo che non si può dialogare ed incontrarsi tra noi, non è possibile amarsi e ricercare l’autentico bene, senza vivere la sfida dell’uscire e senza avere il coraggio di entrare lì dove l’altro abita, mai con la superbia di volersi imporre, ma con l’umiltà di sposare la vita dell’altro e di farsi carico della sua storia. Avere il coraggio di uscire da se stessi è un po’ come morire a se stessi, è questo il senso del rinnegamento che il Signore ci chiede, per seguirlo. Se non mi metto da parte, se non esco dai miei preconcetti e dai giudizi che abitano la mia mente, non solo non incontrerò mai l’altro, ma avrò sempre un’idea totalmente sbagliata di me stesso. Devo poi sapere che la persona che mi è davanti è un mondo, un universo da scoprire, un terreno da esplorare con amore e delicatezza, non da depredare con violenza. Dire che l’altro è un mondo significa mettere in conto che la sua vita è un mistero, a volte incomprensibile e indecifrabile anche per lui. Ecco dove inizia il vero incontro, dal sapere che solo l’amore e la tenerezza mi permetterà di avere accesso alla vita delle persone che mi sono vicine. In tal modo, il mistero dell’incarnazione ci insegna, invece, il coraggio di prendere quello che non è nostro, per incontrare l’altro sul suo stesso terreno, perché non c’è relazione vera senza incarnazione, non c’è dialogo fruttuoso senza immedesimazione, non si comunica e dona la vita, senza prendere la storia dell’altro e farla propria. Abbiamo bisogno di gesti concreti, che traducono il nostro desiderio di offrirci all’altro, non come a noi piace donarci, ma anche come l’altro è capace di comprendere il dono che facciamo di noi stessi. Tante volte abbiamo delle ottime intenzioni, ma non siamo capiti, perché il linguaggio che utilizziamo per l’altro è incomprensibile, non vi è stato iniziato. Come lo Spirito ha permesso al Verbo di farsi carne, così, se lo lasciamo operare in noi e tra noi, permetterà il fiorire dei nostri rapporti e la gioia vera del dono di noi stessi.

Nell’Eccomi di Cristo

L’autore, oltre a presentarci l’ingresso del Verbo nel mondo, pone sulla labbra del Redentore – siamo immaginando la scena dell’Incarnazione, andando al senso nascosto e vero del mistero del Natale, all’intenzione che abita la carne del Figlio di Dio, che nel presepe contempliamo tra le braccia di Maria – le parole del salmo 40, in cui l’orante loda il Signore per la salvezza che gli ha accordato, in un momento di profonda angoscia. Egli sa che Dio ha prodigiosamente operato nella sua vita, ma, al tempo stesso, è consapevole che l’uomo è incapace di ricambiare la benevolenza che gli è stata accordata. L’unico modo per testimoniare il primato della grazia divina ed essere segno del bene che Dio ha compiuto è quello di permettere che la propria vita riveli la potenza del Signore. Come Dio per natura è buono e fa il bene e non potrebbe essere diversamente, così l’uomo, che ha sperimentato il favore del Cielo, è chiamato a lasciare che il Signore lo renda come Lui, permettendo alla vita di divenire sacrifico e offerta.
Dio non vuole delle cose, ma desidera noi, chiede che la nostra vita sia offerta sull’altare del mondo, per la salvezza dei fratelli, come quella di Gesù. Per questo Paolo può dire, scrivendo ai Romani (12,1),“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. L’autore della Lettera agli Ebrei ha compreso che con la venuta di Gesù nel mondo è stato offerto agli uomini che desiderano rispondere alla chiamata di Dio un modo nuovo per vivere la fede in Lui e la testimonianza della carità verso il prossimo. Si tratta di riprendere al linea profetica dell’Antico Testamento per comprendere, alla luce della Pasqua di Gesù, che siamo chiamati ad offrire la vita e a mettere nelle mani di Dio la nostra esistenza, perché sia segno suo e non ricerca egoistica del proprio tornaconto. Cristo, venendo nel mondo, riconosce che il corpo assunto nel grembo della Vergine, è dono del Padre per lui e non lo trattiene per sé – Paolo in Fil 2,6-7a parla proprio non appropriazione, in riferimento alla natura divina del Verbo che, “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso” – ma lo dona. Siamo dinanzi alla dinamica del dono che origina altro dono. Il Verbo, riceve il nostro corpo mortale, ma non lo trattiene per sé, come un tesoro di cui appropriarsi, lo dona a sua volta, non entrando nel dinamica dell’egoismo che scandisce la nostra vita. Lo stupore per il dono ricevuto da Dio, determina nel Verbo il desiderio di vivere nel dono e di rendere grazia la vita che il Padre gli ha dato.

Fino a quando continueremo a pensare che Dio voglia da noi delle cose, che desideri le nostre azioni, non avremo compreso la volontà di Dio e quale sia il nostro vero bene. È necessario entrare nella dinamica del dono e viverlo, con l’offerta della propria storia, della carne che ci costituisce, dei sentimenti che ci portiamo nel cuore. È la vita che deve trasformarsi in grazia, che deve rivelare la benevolenza di Dio, testimoniare il suo primato, manifestare il dono della sua presenza. Abbiamo molto da imparare su questo. Nei doni che a Natale ci facciamo dovremmo offrire il nostro cuore e la nostra vita, ma, tante volte, è pura formalità lo scambio dei doni, perché non esprimono il desiderio di offrici nella nostra quotidianità. I doni devono esprimere la dinamica dell’offerta che scandiscono sempre la nostra esistenza. I regali esprimono concretamente ciò che noi viviamo continuamente. Se questo non accade, gli omaggi che facciamo non dicono nulla e, chi le riceve, le metterà da parte o, nel peggiore delle ipotesi, sarà pronto a sbarazzarsene alla prima occasione. Offrire la propria carne, il proprio corpo, i sentimenti e gli affetti, i pensieri e i moti dell’animo non è forse il sacrificio che caratterizza la vita matrimoniale? Quando le cose si fanno per dovere, quando si vive al risparmio, quando si misura il dono, così da non intaccare tempi e spazi propri, quando la possibilità di un figlio sconvolge progetti e realizzazioni personali significa che si sta vivendo il rapporto al ribasso e la grazia sponsale non esplode come dovrebbe, secondo il dono di Dio. Siamo chiamati a vivere la dinamica del dono di noi stessi anche nelle comunità religiose e parrocchiali, che devono essere, al pari delle famiglie, lo spazio della gratuità del dono rivenuto e dell’offerta di se stessi, che non dipende dalla capacità dell’altro di accogliere, ma dal mio coraggio e dal mio amore, nell’offrirmi. Se non si vive questo rischio, se l’offerta non mi coinvolge, se il dono che faccio non attinge da quello che sono, l’Incarnazione non è il modello dei nostri rapporti e la dinamica della venuta del Signore del mondo non ci coinvolge, spingendoci a cambiare strada, come i magi che, una volta incontrato Gesù, si rendono conto che nulla può essere come prima. Chi incontra Dio che si dona, non può far finta che nulla sia accaduto. Chi stringe tra le mani il divino Bambino, chi si lascia stupire dal dono che Egli fa di se stesso, non può chiudere le porte alla dinamica del sacrificio di se stesso, perché l’amore di Cristo è contagioso, spinge al dono, è potenza d’amore che non si può contenere, ma deve essere comunicato con gioia, concesso ai fratelli con gratuità.

Il mistero dell’obbedienza sta nella volontà

Il Verbo, che giace nella mangiatoia – seguendo la rilettura dell’autore della Lettera agli Ebrei – parla ed il Bambino che ancora non è capace di pronunciare nessuno parola, indica la strada che Egli percorrerà in tutta la sua vita “Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (v. 7). La vita di Cristo è sotto la luce dell’obbedienza, che è il segno della scoperta dell’essere dono. Io sono un dono per me stesso, ma non posso tenere questo dono per me, non posso appropriarmi di quello che sono, altrimenti, potremmo dire con san Francesco, sarei un ladro. Neppure io mi appartengo: questo dice chi ha consapevolmente ha scoperto l’amore di Dio e vive nella relazione amorosa con Lui. Ma per vivere nel dono, per evitare la tentazione di assecondare l’egoismo, è necessario assumere la volontà del Padre che, come determina in Dio stesso, il desiderio di effondere grazia, così conduce l’uomo a fare dono della propria vita. La volontà di Dio per noi – scrive Paolo – “è la nostra santificazione” (1Ts 4,3), come partecipazione alla vita di Dio che è amore e dono. Chiamandomi alla santità, Dio mi chiede di vivere come Lui e mi dona il suo Spirito perché io, nell’amore, mi riconosca come un dono e mi doni agli altri, che sono, a loro volta, dono per se stessi e per me. Cristo vuol vivere nel dono e sa che questo il Padre desidera da Lui, diventare trasparenza del suo amore per gli uomini, nelle diverse possibilità che la natura umana permette. Il dire “Ecco, io vengo a fare la tua volontà” significa da parte di Gesù che il dono ricevuto va vissuto non secondo dei criteri umani, ma tenendo conto di ciò che il Signore desidera, secondo la volontà che ha determinato il dono. Il Signore, creandomi, mi ha reso un dono ed io, al tempo stesso, sono dono e donatore, perché ciò che io sono non posso tenerlo per me, ma devo metterlo in circolo. Non basta entrare nella vita dell’altro, nel suo mondo – sembra insegnarci il Verbo, con la sua Incarnazione – ma è importante che ci sia consapevolezza nell’offerta, volontà nel fare la volontà del Padre, che è poi la sorgente della nostra vera gioia. La volontà di Dio deve trovare la nostra docile volontà, altrimenti non si può realizzare la salvezza e la trasformazione della nostra storia. L’Incarnazione del Verbo mostra la sua volontà, nel non abbandonarci alle nostre tenebre, ma di salvarsi per farci abitare nella sua luce e nel suo amore.

Guardando il presepe contempliamo l’eccomi di Gesù, il Fiat di Maria ed il silenzio obbediente di Giuseppe. La fede si fa carne, come il Verbo si fa carne in Gesù. Dobbiamo chiedere la concretezza dell’amore e la retta volontà nel dono, perché risplenda in noi lo stesso mistero che illumina la notte santa di Betlemme e determinò una trasformazione della nostra storia.




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