II Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 20 gennaio 2019

Una tessera da sola non è mosaico così anche i carismi dello Spirito sono indirizzati a creare comunione.

di fra Vincenzo Ippolito

Abbiamo una concezione troppo egoistica dei carismi, crediamo che sono di chi li possiede e deve trafficarli al meglio, anche facendo del bene agli altri, ma pur sempre considerandoli sua proprietà. Le operazioni dello Spirito in noi restano dello Spirito, noi siamo amministratori della grazia, mai padroni del dono.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12,4-11)
L’unico e medesimo Spirito distribuisce a ciascuno come vuole.

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

 

Celebriamo oggi la Seconda domenica del Tempo Ordinario – la Prima è dedicata alla festa del Battesimo del Signore, che chiude il Tempo di Natale – e la liturgia ci dona di ascoltare il racconto evangelico delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12), inizio del ministero pubblico di Gesù, nel Vangelo secondo Giovanni. In tal modo, nelle ultime tre domeniche, attraverso i brani evangelici, abbiamo rivisitato i tre eventi definitivi della manifestazione del Signore. L’adorazione dei Magi, il Battesimo al Giordano, il miracolo dell’acqua mutata in vino sono i momenti che segnano l’inizio della progressiva rivelazione del Signore, che esce dall’anonimato della vita nascosta e si incammina risoluto, con la forza dello Spirito, ad annunciare ai poveri un lieto messaggio.
Mentre il Vangelo ci porta all’alleanza, in antico promessa da Dio ed ora attuata da Cristo ed espressa nel segno del vino nuovo a Cana, la Prima Lettura, tratta dal Libro di Isaia (cf. 62,1-5), il profeta contempla le meraviglie che il Signore compie per il popolo rientrato dall’esilio. “Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata mio compiacimento e la tua terra Sposata” (). Dio stringe alleanza con il suo popolo e lega a sé la nazione d’Israele come uno sposo la sua sposa. La Seconda Lettura è tratta, invece, dalla Prima Lettera ai Corinzi (cf. 12,4-11). Nel brano che la liturgia oggi ci dona, l’Apostolo conduce i primi credenti a considerare con l’unico Spirito, pur effondendo i suoi doni, opera per ricondurre tutti alla perfetta comunione nell’amore. È questo, infatti, il segno della presenza di Dio tra noi e della collaborazione offerta da ogni credente per essere nella storia la continuazione della presenza del Risorto.
La liturgia ci chiede di vivere nella gioia più vera e profonda, gioia perché il Signore visita il suo popolo ed è per Israele lo sposo fedele sempre (Prima Lettura); gioia perché lo Spirito, dono del Signore, opera in noi meraviglie ed è lievito di comunione e di unità nella carità (Seconda Lettura); gioia perché è giunto il tempo del compimento, è giunto lo Sposo dell’umanità ed il vino nuovo è il segno dell’alleanza nuova ed eterna (Vangelo).

Unità nella diversità

La Prima Lettera ai Corinzi è una delle due Epistole indirizzate da Paolo alla giovane comunità cristiana, da lui fondata alla fine del secondo viaggio missionario (cf. At 18,1-17). Stando al racconto degli Atti degli Apostoli, Paolo vi giunge, dopo l’evangelizzazione della Macedonia e, coadiuvato da Sila e Timoteo (cf. Ts 3,2), rimase in questa importante città greca circa un anno e mezzo e ripartire poi alla volta di Efeso. Per guidare le varie comunità da lui fondante, Paolo oltre ad inviare i suoi collaboratori, scrive delle Lettere che servono a consolidare nelle chiese la predicazione apostolica ricevuta oralmente, spronando i credenti a rispondere generosamente alle esigenze della vocazione cristiana. È quello che capita anche con i Corinzi, a cui l’Apostolo indirizza due lunghe lettere, nelle quali cerca di risolvere i problemi emergenti nella comunità e di far crescere la comunione e l’unità tra i suoi membri.

Il brano liturgico odierno (cf. 1Cor 12,4-11) è tratto dalla sezione dei capitoli 12-14, dedicati alla riflessione sui doni dello Spirito (carismi), in vista dell’utilità comune. L’Apostolo, dopo aver cercato di far rientrare le fazioni presenti (cap. 1-4) e le derive morali (cap. 5-6), non solo offre direttive concrete circa la vocazione cristiana (cap. 7) e su come vivere in ambiente pagano (cap. 8-11), ma sente anche di dare indicazioni su come vivere la fede in comunità (cap. 11), lasciando allo Spirito di operare l’unità, nelle diversità delle sue manifestazioni. La nostra pericope risulta quindi un significativo anello argomentativo all’interno della riflessione dell’Apostolo, che rappresenta anche per noi un provocazione a ripensare come, a livello di coppia e di comunità religiose e parrocchiali, viviamo la complementarietà nella diversità, lasciando che sia lo Spirito del Risorto a fare unità e a creare la comunione tra noi. Nulla possono le nostre buone volontà e gli sforzi umani, se il Signore non dona la sua grazia e concede la sua forza, a cui nulla è impossibile.
Il discorso che Paolo presenta prende le mosse proprio dal rapporto tra diversità ed unità, in ordine ai doni dello Spirito Santo. Egli scrive: “vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (vv. 4-6). A ben vedere, si tratta di tre frasi parallele, in cui i primi membri (carismi, ministeri, operazioni) sempre al plurale e preceduti da uno stesso aggettivo (diversi), mostrano la pluralità e vivacità dell’opera di Dio nella Chiesa. Invece, il secondo membro, antitetico al precedente, pone l’attenzione sull’unità (uno è lo Spirito, uno è il Signore, uno è Dio), mostrando come si debba vedere nella diversità non il principio della dispersione, ma il segno di Dio che crea la comunione e fa crescere la complementarietà e la corresponsabilità tra i credenti. La molteplicità dei doni dello Spirito non deve portarci alla dispersione o al desiderio di coltivare ciascuno quanto ha ricevuto, ma a vedere che la sorgente dei doni è lo Spirito di Cristo e come tutto viene da Lui, così tutto deve ricondurre a Lui. È Dio, infatti, il comune denominatore che anima ogni attività e che tutto riconduce all’unità. In una comunità, come quella di Corinto, che sperimenta le divisioni e gli scismi (cf. 1Cor 1-4), non è superfluo mostrare che le differenze, quando sono pietre di inciampo, non vengono da Dio e non edificano la comunione tra i credenti, mentre quando è lo Spirito di Dio ad effondere i suoi doni, l’unità è segno della complementarietà e le diversità di armonizzano, per opera dello Spirito Santo. Tre sono i passaggi che Paolo indica: riconoscere i doni dello Spirito; comprendere che sono differenti, non contrari ed in opposizione tra loro; ricondurre in unità la molteplicità che è dono dello Spirito e sua manifestazione di grazia.

Prima di tutto, Paolo afferma che nella Chiesa ci sono carismi, ministeri e operazioni. Non si tratta di un’affermazione scontata, ma della constatazione della presenza di Dio nella comunità credente. Dopo la sua ascensione al cielo, il Risorto non ha abbandonato la sua Chiesa, ma come “agiva insieme con loro [gli Undici che predicavano dappertutto] e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20), così dona lo Spirito come principio della sua vita nuova, perché i credenti manifestino al mondo la potenza della sua resurrezione. Lo Spirito di Cristo risorto opera in maniera multiforme, perché “a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito, per l’utilità comune” (v. 7). Lo Spirito prende dal Risorto e distribuisce ai credenti. Difatti, “A ciascuno di noi è stata la grazia, secondo la misura del dono di Cristo. Per questo ha detto: Asceso in alto ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Ef 4,7). Dobbiamo riconoscere i carismi dello Spirito, i ministeri di Dio, le operazione del Signore a noi affidati. Si tratta di doni di grazia, servizi ecclesiali, compiti particolari che lo Spirito suscita nel cuore dei credenti, nessuno, infatti, può dire di non avere doni da parte di Dio, né lamentarsi, come se gli fossero stati elargiti talenti. Misconoscere la grazia è un grave peccato di miopia spirituale. La Chiesa, come ogni famiglia, è il luogo della manifestazione concreta della presenza e dell’azione dello Spirito del Signore e il nostro impegno primario è quello di riconoscere Dio all’opera nella storia personale, familiare e comunitaria, per lavorare sinergicamente alla comunione tra noi. Siamo, infatti chiamati a riconoscere il bene e a dargli sempre di più spazio. Abbiamo nelle nostre famiglie e comunità carismi, ministeri e attività, potenzialità straordinarie che non possono rimanere inutilizzate.

Il secondo aspetto che l’Apostolo sottolinea è che i doni di Dio sono differenti – l’aggettivo ricorre per ben tre volte nei vv. 4-6 – differenti nel senso di complementari tra loro, mai in opposizione o in antagonismo. La comunione che lo Spirito vuol che si crei tra i credenti è l’unità, non l’uniformità. Mentre la prima nasce dall’armonia delle diversità, la seconda è il livellamento delle differenze, dove il particolare scompare ed è mortificato. I carismi che lo Spirito suscita, oltre ad essere il segno concreto della multiforme sua azione, indica che c’è complementarietà tra di loro, perché, frutti della presenza e dell’azione del Signore, convergono tutti verso Colui che di essi è la sorgente. È importante vedere che le differenze, di ogni genere ed in ogni campo, sono un valore, da difendere ed accogliere, se comprese come possibilità di un incontro e di uno scambio. È quanto capita anche nella relazione coniugale ed in ogni tipo di rapporto. La differenza tra gli sposi crea la complementarietà come impegno e possibilità concreta da attuare, sfida imprescindibile da accogliere, per sconfiggere il proprio ed altrui egoismo ed essere in Cristo una carne sola. Il Nemico ci spinge sempre ad assolutizzare le differenze e a rimarcare le diversità, perché sa bene che in tal modo mina alle radici la comunione e la reciproca stima tra noi. Quanto è importante comprendere in ogni rapporto che ciascuno ha i suoi doni, di natura e di grazia, ma questi non sono in opposizione e, anche quando sembra che ci siano difficoltà insormontabili, sono sempre superabili, con il rinnegamento di se stessi e l’impegno a vivere la bellezza della complementarietà e del dono. Dobbiamo lavorare sulla complementarietà dei doni. Se vediamo le differenze come pietre di inciampo e non riusciremo a capire che rappresentano possibilità di crescita e di confronto, di dialogo e di maturazione, non solo l’unità tra noi sarà un utopia – si pensi all’essere una carne sola tra marito e moglie ed in comunità un cuor solo e un’anima sola – ma non metteremo a frutto la grazia dello Spirito che in noi ribolle, come il vino negli otri.

Ricondurre in unità le diversità è la vera sfida da vivere nelle nostre relazioni. Quando si è compreso che tutti abbiamo delle energie divine da mettere in circolo, che, pur essendo diversi tra noi, abbiamo doni complementari, che si illuminano reciprocamente, allora metteremo ogni nostro impegno per costruire la comunione e vivere l’unità. Una tessera da sola non è mosaico e la sua identità è legata alle altre, così anche i carismi dello Spirito, per natura sono indirizzati a creare comunione. Abbiamo una concezione troppo egoistica dei carismi, crediamo che sono di chi li possiede e deve trafficarli al meglio, anche facendo del bene agli altri, ma pur sempre considerandoli sua proprietà. Le operazioni dello Spirito in noi restano dello Spirito, noi siamo amministratori della grazia, mai padroni del dono. Questo significa che dobbiamo lasciare che faccia delle sue cose, ciò che meglio crede, senza porre impedimenti o limitando l’azione onnipotente di Dio in noi. Lasciare allo Spirito di partecipare al grande sogno dell’unità è l’avventura che è chiesta a ciascun credente. “Siamo pietre vive per l’edificazione di un edificio santo” e non dobbiamo credere di poter fare da soli. Lo sposo deve sapere che è parte della vita della sposa sempre e che deve mettere ogni impegno a ricondurre all’unità pensieri e parole, intenzioni e desideri, propositi e sogni. Raccogliersi in unità è quello che lo Spirito chiede a noi. C’è troppa dispersione nella nostra vita, viviamo presi da tante cose e ci manca, troppo spesso, la capacità di fare sintesi e di legare le attività della nostra vita. Abbiamo bisogno di fare unità in noi stessi e tra noi, per non essere divorati dalla frenesia dell’attivismo, perdendoci nei rivoli dei nostri pensieri che non giungono a nulla.
È necessario pregare lo Spirito, perché ci renda cosciente dei doni che benevolmente ci ha elargiti, che ci faccia capire il valore della diversità come complementarietà e per donarci la forza di lavorare all’unità e alla comunione in noi e tra noi.

Nessuno può dire di non avere doni

L’Apostolo desidera che la chiesa di Corinto cresca nella docilità incondizionata alla grazia dello Spirito, che agisce nel cuore di ciascuno misteriosamente per creare l’unità. La potenza di Dio è come il sangue nel corpo umano, penetra in ogni dove e nutre, irrorando, ogni tessuto. È il corpo che ne trae profitto, ma nessuno si accorge che la vera energia viene dalla sinergie degli organi interni e dal cuore che irradia la forza della vita. Lo Spirito Santo è la forza della vita per il corpo ecclesiale, la Chiesa vive della potenza dello Spirito e quanto più i singoli vivono la bellezza e la responsabilità dei carismi personali, per l’utilità comune, tanto maggiore è la coesione e l’incisività della testimonianza evangelica nel mondo. Per questo l’Apostolo, dopo aver argomentato sulla diversità dei carismi che lo Spirito suscita e che sono tutti manifestazioni della grazia di Dio nella storia personale, esemplifica il suo discorso, mostrando che è l’utilità comune il criterio per affermare che il dono viene da Dio e che è messo a frutto, sull’esempio di Cristo, secondo la volontà del Padre. Non esiste, infatti, dono di Dio che possa essere vissuto a proprio vantaggio, perché la grazia, per natura è potenza di Dio che si effonde, come il lievito fa crescere la massa, come il sale dona sapore alla terra. “A ciascuno è data una manifestazione dello Spirito per l’utilità comune” (v. 7) scrive l’Apostolo.

Tutti abbiamo dei doni che il Signore ci ha concesso, anche coloro che credono di non averne. In primo luogo sono chiamati a scorgere in se stessi le meraviglie dei doni del Paraclito, perché se non diverranno consapevoli di ciò che hanno, non potranno neppure metterlo a frutto. La parola di Paolo diventa non solo un invito alla speranza, ma anche alla ricerca e alla scoperta delle miniere inesplorate del bene che è nel nostro cuore. “A ciascuno è data una manifestazione dello Spirito”. Questo significa che il Signore non è ingiusto, ma effonde la sua grazia sempre e su tutte le creature. Io sono manifestazione della grazia di Dio, la mia vita, la mia intelligenza, la mia capacità di amare e di parlare, di relazionarmi con gli altri, tutto in me è un’esplosione di grazia, una meraviglia di bene. La famiglia, come anche ogni comunità ecclesiale, è il luogo dove si impara che tutti abbiamo dei doni, piccoli e grandi che siano e che quanto il Signore ci ha dato deve essere messo in circolo per l’utilità comune. Non il tornaconto personale, ma l’utilità comune deve essere il criterio da attuare nei nostri rapporti, perché se guardo il mio profitto, farò crescere il mio egoismo, ma non lascerò allo Spirito la possibilità di costruire il Regno di Dio tra gli uomini. È questa, infatti, la posta in gioco, la presenza di Dio, attraverso di noi, nel mondo, il dono di criteri nuovi di vita insieme, di possibilità di unità e di comunione nelle diversità che sono una ricchezza, mai un impoverimento. Fino a quanto continueremo a ragione in termini di utilità personale e di tornaconto, mortificheremo la grazia e utilizzeremo male i doni del Signore in noi e tra noi. Il fine della nostra vita, della grazia che ci abita, della chiamata di Dio, della nostra vita, interamente concepita e vissuta, è il bene e la comunione con i fratelli. Cosa è veramente utile per l’altro? Di cosa il fratello ha bisogno? Cosa lo Spirito mi spinge a fare per il suo bene, per risollevarlo nella difficoltà, per soccorrerlo nel bisogno, per consolarlo nella pena? Io sono utile all’altro oppure rifletto e calcolo sempre nei termini di cosa di utile l’altro faccia per me? Sono queste le domande che devono accompagnare un serio discernimento spirituale, nella nostra vita di fede.

Ad una lettura poco ponderata del brano, potrebbe sembrare che i doni di cui l’Apostolo parla o siano straordinari, nel senso di non comuni, oppure che solo la comunità delle origini ne abbia avuto esperienza. Siamo, infatti, portati a credere che il linguaggio della sapienza e della conoscenza, il dono delle guarigioni, il potere dei miracoli e della profezia, la varietà delle lingue e la sua interpretazioni non siano più doni che lo Spirito elargisce e guardiamo con scetticismo coloro che sembrano presentare oggi manifestazioni particolari dello Spirito. Proprio perché i doni di Dio sono per l’utilità comune e non per un tornaconto personale dobbiamo credere che lo Spirito li concede non solo nelle necessità delle condizioni storiche e quando è veramente finalizzato all’utilità della comunità credente, ma soprattutto quanto, dove e a chi lo ritiene opportuno. Il Signore è libero di fare ciò che desidera, nel suo progetto di amore per l’umanità. Scrive infatti, l’Apostolo: “Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (v. 11). La libertà di Dio è sovrana e anche le nostre famiglie e comunità possono essere destinatarie di doni ordinari e straordinari di grazie da parte di Dio. Egli è libero nel dono, come noi nella risposta, pena, però, la non realizzazione della nostra gioia, se non metteremo a frutto i doni del Signore, secondo la sua volontà. Doni straordinari sono presenti anche oggi nelle nostre comunità, ma tanti carismi rimangono infruttuosi perché non si conoscono, non vengono curati e scoperti, perché manca una vita di grazia che renda consapevoli delle meraviglie di Dio in noi. Quelli citati da Paolo sono solo alcune delle operazioni che lo Spirito suscita, forse quelli che a Corinto erano maggiormente presenti, ma questo non significa che il Signore non si manifesti in altro modo. Dio può tutto, nella forza del suo Spirito e anche noi possiamo tutto, se lasciamo operare in noi la potenza dell’Altissimo, perché il vino nuovo, come a Cana, riempia le anfore della nostra vita e semini la gioia della comunione tra noi.




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