Vita

“Io figlio degli slums indiani, dovevo essere abortito, invece sono nato e lotto con gli UpV”

Universitari-per-la-Vita

di Francesco Chilla

Oggi la storia di Francesco, uno studente e attivista pro life che appartiene agli Universitari per la Vita: “Non è vero che il processo chiamato progresso è irreversibile. Voglio vivere per riempire di giovani le future Marce della Vita”.

Mi chiamo Francesco, ho 24 anni, sono di Roma, studio Giurisprudenza e faccio parte degli Universitari per la Vita. Inizio col ringraziare Punto Famiglia per l’opportunità che mi ha dato. Cosa mi ha spinto ad intraprendere l’attivismo pro life? Già durante la mia adolescenza vedevo come i valori che mi sono stati insegnati, ovvero la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, l’attenzione agli ultimi, la famiglia come luogo in cui ogni persona nasce e si forma, fossero messi, non semplicemente in dubbio, ma detestati dalla cultura dominante. Oggi tutto, dai dibattiti, alle lezioni a scuola, ai film e alle pubblicità parlano di quanto siano necessari aborto ed eutanasia. Il pensiero umano, secondo questa cultura, si evolve ciecamente, seguendo le idee dominanti che, di volta in volta, si affermano con la forza e che sembra impossibile contrastare. No, non è vero e non voglio credere che il processo chiamato “progresso” è irreversibile. Voglio credere invece che è possibile recuperare e vivere quei valori tanto vituperati eppure autentici.

Se posso crederci è innanzitutto grazie alla mia famiglia. Mio padre e mia madre, persone di grande fede, sono stati e sono, per me un esempio di vita, soprattutto di come si affrontano le sofferenze. Con loro, negli anni decisivi della mia crescita, mi sono ritrovato ad andare a vari incontri e manifestazioni a difesa della famiglia. Su tutti, i due (non più) recenti Family Day. Alle Marce per la Vita ho iniziato ad andarci da quando faccio parte degli Universitari per la Vita.

Dall’altro lato c’è la mia storia che mi porta a credere nei valori autentici della vita e dell’amore. Mia madre biologica, una povera disperata di un’anonima cittadina industriale del nord dell’India ha deciso di farmi nascere, nonostante i grossi problemi di salute ed economici che l’affliggevano, lasciandomi poi alle Missionarie della Carità, le quali con dedizione, anche se con un’insufficiente dose d’affetto (d’altronde potevano fare più di così?) mi hanno accudito. Poi sono stato adottato e, tramite la mia famiglia, ho potuto coltivare la fede che mi ha permesso di vedere che c’è sempre stato Dio in ogni momento, soprattutto nelle cose difficili. Questa è stata la vera chiave di volta della mia vita.

Leggi anche: Chiara Chiessi: “Contro aborto ed eutanasia se non siamo noi a fare qualcosa, chi lo farà?”


Qui in Italia, poi, ho scoperto che ci sono tante persone che si preoccupano di donne che, come la mia mamma naturale hanno tanti problemi, a queste donne essi sanno restituire un sorriso, assieme a beni di prima necessità e il calore umano (e spero che questa rete si allarghi sempre più). Da uomo, aggiungo, avrei voluto sapere di mio padre, quello biologico, e prego Dio di non ritrovarmi mai io stesso ad abbandonare, per codardia o per impossibilità materiale, nessuna persona a cui sono e sarò legato. Insomma, io sono uno di quei bambini che i lor signori dirittocivilisti avrebbero consigliato di abortire, sia per le cattive condizioni di salute di mia madre sia perché, di conseguenza, sarei nato con molti problemi. E, effettivamente, sono nato con molti problemi agli occhi e, di tanto in tanto, gli oculisti mi dicono che ce ne è un altro di problema: sono un collezionista a quanto pare. Ho un bassissimo residuo visivo. Ma prima le suore in India, poi i miei genitori e il sistema scolastico italiano si sono rimboccati le maniche per darmi il meglio: ed oggi, io, figlio degli slums indiani, mi ritrovo a studiare all’università, con prospettive che nessuno, 23 anni fa, mi avrebbe dato. Questa è compassione, anzi di più: questo è Amore. L’amore che non è cieco, ma che sa vedere oltre gli ostacoli. Perciò sono pro life, per gratitudine verso Dio e verso le persone a cui mi ha affidato.

Un ruolo importante nella mia scelta di campo, l’hanno giocato le opere di Tolkien, in particolare il Signore degli Anelli. Negli Elfi e negli Uomini ho sempre visto dei relitti affascinanti di cose del passato che, al pari dei grandi ideali che ogni epoca ha coltivato, sono destinati a scomparire in un modo o nell’altro, pur nella loro grande potenza. Negli Hobbit mi sono sempre rivisto, perché sempre mi sento inadeguato: a volte mi sento troppo piccolo persino per la mia testimonianza, che pure è e resta un esempio lampante di come sia la Provvidenza ad operare, soprattutto tramite chi vuol essere suo araldo. Ma anche Frodo che porta l’Anello e, ancor di più, Sam che lo accompagna, così anche Merry, che cavalca in prima linea in una possente battaglia, e Pipino, obbligato a servire un re diviso tra sapienza e follia, sono inadeguati. Eppure quello era il loro posto: “Ho qualcosa da fare prima della fine. Devo andare avanti sino in fondo”.

Nel secolo che esalta le persone comuni, Tolkien ha saputo riaccendere il fuoco nell’animo di chi aspira alle virtù. Virtù che sono tanto vituperate nell’esaltazione della banalità, la quale è considerata oggi, erroneamente, la caratteristica principale degli uomini e delle donne comuni. È anche grazie alle figure dei quattro Hobbit, che mi sono lentamente aperto alla possibilità di spendermi per qualcosa di più.

Ho conosciuto gli Universitari per la Vita durante un convegno sulla tutela della vita, organizzato dalla mia professoressa di Diritto Romano, Maria Pia Baccari, vedova del giudice Massimo Vari, presso l’Università che frequento (Lumsa). Il mio già alto tasso di attenzione, si è alzato ulteriormente quando ha preso la parola Chiara Chiessi, che è la fondatrice del gruppo, e ormai mia amica. Come gruppo abbiamo in questi due anni organizzato concerti, corsi di formazione, manifestazioni e i nostri famosi aperitivi. Il nostro sogno è riempire di giovani le future Marce per la Vita, e rendere le future generazioni attente alla vita nascente e alla cura, quella vera, per gli ultimi.

In tutto ciò, come direbbe Tolkien, dobbiamo avere la consapevolezza che: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo, terra sana e pulita da coltivare”.

 




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1 risposta su ““Io figlio degli slums indiani, dovevo essere abortito, invece sono nato e lotto con gli UpV””

Grazie Francesco.
Le tue convinzioni sono un balsamo. La tua determinazione un regalo. Le persone che incontrerai però non sempre saranno pronte a reggere la tua forza. Sii mansueto e persuasivo con mitezza. San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti ed ispiratore delle opere di San Giovanni Bosco, diceva che si “prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”. Cari auguri anche anche alla tua famiglia.

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