VI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 17 febbraio 2019

Che significa annunciare la Risurrezione?

(foto: @Rawpixel.com - Shutterstock.com)

di fra Vincenzo Ippolito

La fede professata, va interiorizzata con cura, vissuta con determinazione, compresa nelle sue molteplici sfaccettature ed implicanze. Quanti ogni domenica professano la fede della Chiesa, ma poi nella vita non condividono alcuni articoli del catechismo, né sopportano ingerenze di ogni genere, perché vogliono decidere liberamente di se stessi?

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,12.16-20)
Se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede.

Fratelli, se si annuncia che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.

 

La liturgia della Parola di questa Sesta Domenica del Tempo Ordinario è dominata dalla figura di Cristo che “disceso con i discepoli, si fermò su un luogo pianeggiante” (Lc 6,17). Diversamente dal racconto del Vangelo secondo Matteo, in cui Cristo, sul monte, quale nuovo Mosè, dona la pienezza della Legge (cf. Mt 5-7), l’evangelista Luca preferisce mostrare in Gesù la dinamica dell’Incarnazione, l’umiliazione volontaria del Verbo, che raggiunge gli uomini e se ne prende cura. La sua parola è forte ed incisiva, visto che alle beatitudini Luca aggiunge anche i quattro “guai a voi”, che mancano nel “Discorso della montagna” di Matteo. La stessa antitesi è presentata dalla Prima Lettura, tratta dal libro di Geremia (17,5-8). Il profeta presenta una benedizione per “l’uomo che confida nel Signore” ed una maledizione per “l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore”. Si tratta della via della vita e della via della morte (cf. Ger 21,8), che il Signore, come un tempo al popolo d’Israele, per mezzo di Mosè (cf. Dt 30,19), così sempre pone dinanzi ad ogni uomo. Gesù, nel Vangelo, ripropone la stessa dinamica, ma la sua parola e definitiva ed il suo giudizio inequivocabile. Nella Seconda Lettura (cf. 1Cor 15,12.16-20), continua la lettura dell’ultimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi, che sviluppa il tema della speranza cristiana, con la resurrezione che attende i credenti.

Rendere comprensibile la fede, per viverla

In queste ultime domeniche, la liturgia ci sta donando di leggere il capitolo conclusivo della prima Epistola, indirizzata da Paolo alla giovane chiesa di Corinto. Si tratta di una sezione importante, perché dopo aver risposto alle problematiche emergenti nella comunità, prima di congedarsi dai suoi (cf. 1Cor 16), l’Apostolo dedica il suo argomentare alle realtà ultime che riguardano la vita futura. La scorsa domenica ascoltavamo la professione di fede della Chiesa delle origini, che Paolo accoglie, crede e vive, divenendo annunciatore del Vangelo, per la grazia di Dio, che in lui non è stata vana (cf. 1Cor 15,1-11). Ora l’attenzione è rivolta a come la fede determini nel credente un diverso modo di concepire la vita futura, perché Cristo rinnova tutte le cose e conduce il discepolo a ripercorrere la via tracciata dal Maestro divino, nella vita e nella morte. L’esistenza cristiana è, infatti, scandita dal seguire le orme di Cristo (cf. 1Pt 2,21) e dal lavare le proprie vesti, inebriandosi, nel sangue dell’Agnello (cf. Ap 7,14). La sequela del Signore è un itinerario di cristificazione, dirà Paolo “facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11). “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rm 14,7-9). È questo il significato dell’espressione paolina “essere in Cristo”, vivere in Lui ogni cosa, la vita, nella sua totalità, come la morte, con il mistero che la avvolge.

Non è semplice seguire il pensiero dell’Apostolo, visto che la liturgia, unendo il v. 12 ai vv. 16-20, ne salta alcuni (vv. 13-15), anelli argomentazioni di un’unica riflessione. Per questo è sempre bene leggere il testo biblico per intero, tenendo presente le citazioni riportate prima delle pericopi liturgiche. Potremmo considerare il brano odierno – come anche quelli che ci verranno donati nelle prossime domeniche – come delle esplicitazioni della professione di fede della primitiva comunità cristiana. È come se l’Apostolo si rendesse conto che non basta conoscere ed esprimere la fede, attraverso delle formule, perché risulta importante chiarire gli articoli del Credo, permettendo ai cristiani di interiorizzare la grazia del mistero pasquale di Cristo. Ecco perché nella Chiesa antica il Credo consegnato ai catecumeni, durante il percorso di preparazione al battesimo, veniva spiegato, sminuzzando le formule e rendendo i suoi contenuti comprensibili per coloro che si preparavano a vivere nella vita l’appartenenza a Cristo, che il sacramento celebra e dona.

Prima di tutto è importante vedere la modalità che l’Apostolo utilizza nella sua predicazione e riflettere su come la nostra catechesi ne segua le orme. Paolo annuncia il Vangelo e, suscitando la fede, fonda le comunità, seguendo il cammino della loro crescita. Vi ritorna personalmente o anche per mezzo dei suoi collaboratori, perché sa che non si può essere cristiani da soli, né ci si può considerare arrivati nella sequela del Signore. Abbiamo, infatti, sempre bisogno di aiuto e sostegno per approfondire la grazia dello Spirito, ricevuto in dono e metterla a frutto. Le difficoltà che sorgono nel cammino lo portano a ritornare sul primo annuncio e meglio chiarire alcuni punti che Egli si rende conto risultano oscuri, nella mente e nel cuore dei credenti. Questo non è solo frutto del dialogo con la comunità e del confronto con i suoi collaborati, latori delle notizie sulla vita di fede della comunità di Corinto, ma dalla stessa sensibilità dell’Apostolo, che comprende le difficoltà e riesce, per un dono particolare dello Spirito, ad andare al cuore dei problemi emergenti. In tal modo i suoi interventi sono finalizzati a chiarire i malintesi e a nutrire la comunità del vero spirito del Vangelo. Anche noi dovremmo imparare dall’Apostolo a seguire la crescita di fede delle persone a noi affidate. Non possiamo dire che bastino le formule o la presenza alla celebrazioni liturgiche per dirsi cristiani. Questo è un buon inizio, ma la fede professata, va interiorizzata con cura, vissuta con determinazione, compresa nelle sue molteplici sfaccettature ed implicanze. Questo significa che non basta il solo piano oggettivo, in famiglia ed in comunità, quando si parla di fede e di pratica della vita cristiana, ma bisogna vedere come ciascuno pensa e crede. Quanti ogni domenica professano la fede della Chiesa, ma poi nella vita non condividono alcuni articoli del catechismo, né sopportano ingerenze di ogni genere, perché vogliono decidere liberamente di se stessi?

Paolo aiuta i Corinzi in questo lavoro di traduzione della fede in vita, attraverso la mente che accoglie il mistero. Per questo, ai Tessalonicesi aveva scritto: “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza” (1Ts 4,13). Non si può parlare di autentica educazione alla fede se non ci si prende cura della crescita vera ed integrale delle persone che ci sono accanto. L’Apostolo vive la responsabilità della paternità spirituale e non si accontenta di annunciare il Vangelo, vuole che entri nei cuori ed illumini le menti, perché la vita di ciascuno venga trasformata dalla signoria universale di Cristo che le labbra professano. Dobbiamo rendere comprensibile le verità di fede, credibile la nostra professione, incisiva ed incrollabile la speranza che ci portiamo nel cuore. Non possiamo credere che sia l’anagrafe parrocchiale a darci il polso della situazione reale delle nostre comunità – anche lì le cose stanno cambiando, soprattutto per quanto riguarda i matrimoni! – perché la fede va nutrita, spiegata ed è soprattutto importante, con le nuove generazioni, chiarire il senso di termini quali libertà, autonomia, obbedienza, perché la fede non è coercizione, ma, di contro, neppure è libertinaggio e relativismo. Oggi assistiamo ad uno scollamento sempre maggiore tra fede e vita morale, in temi come la vita e la sessualità, il lavoro e l’equa distribuzione della giustizia, per fare solo alcuni esempi. Chi ha il coraggio, come Paolo, di prendere il Credo e di sminuzzare la fede, come una mamma, quando nutre il suo piccolo? Senza quest’opera di traduzione l’annuncio non sarà incisivo, perché il problema oggi è di linguaggio e comunicazione, non sempre riusciamo ad intercettare i veri problemi della gente e donare risposte evangeliche.

Cosa veramente predichiamo?

L’Apostolo scrive: “se si annuncia che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti?” (v. 12). Paolo nota una certa discrasia tra la Parola della fede e le dicerie che circolano nella comunità. Sembra che i Corinzi non riescano a portare il passo con quanto si annuncia. In realtà, la prima cosa che la lettura della pericope ci porta a riflettere è sulla natura della nostra predicazione. Potremmo rendere quanto Paolo scrive, domandandoci: si annuncia che Cristo è risorto dai morti? Che peso ha nella nostra vita il pensiero dell’aldilà? Si tratta delle realtà ultime che, se così presenti nella chiesa primitiva e in un passato non tanto remoto, sembra oggi assente come tensione della vita cristiana. Si predica di tutto, molte volte, ma il cuore della nostra fede è il mistero pasquale di Gesù Cristo, nella sua interezza. Risulta essenziale per il nostro essere Chiesa, recuperare la dimensione escatologica della fede e comprendere che seguiamo e viviamo nella potenza del Risorto. Non viviamo una vita alienata dalle realtà di questo mondo, ma, al tempo stesso, neppure possiamo credere che il finito debba livellare la nostra esistenza, come l’impegno per la giustizia e la trasformazione della storia in regno di Dio, qui in terra. Non deve mai mancare sulle nostre labbra e nel cuore Cristo e Cristo crocifisso e risorto. È Lui il centro della nostra fede, Lui solo il cuore del nostro vivere ed operare nella storia degli uomini. Vivere l’ansia dell’annuncio è proprio di un cuore che crede ed ama il Signore. Per questo Paolo può dire “annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16). Possiamo dire che Cristo è tutto per noi, se nascondiamo la nostra fede? Cristo è veramente necessario per la vita, se non manifestiamo apertamente la nostra appartenenza a Lui, se, come Adamo ed Eva, ci nascondiamo e non sappiamo rendere ragione della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15). Come dire che Gesù è la nostra vita, se non viviamo in Lui quanto accade nella nostra giornata? È veramente Lui la nostra via, se percorriamo strade alternative di salvezza, che ci conducono al fallimento? Cristo Gesù è la mia verità, se quando bisogna dire con sincerità quello che si pensa, ci si uniforma alla massa e non si riesce ad alzare la voce, anche se fioca per difendere i diritti della persona umana, la vita nascente, il diritto ad una esistenza dignitosa, ad una società senza discriminazioni? Che annuncio è mai il nostro, che siamo riusciti a diluire tutto, non solo la resurrezione di Cristo, ma anche il nostro impegno nella storia?
Attraversiamo un non semplice momento, nella vita ecclesiale, politica, sociale e familiare. Sembra manchino punti di riferimento, perché il Principe di questo mondo, ci ha fatto credere che il nostro egoismo, rivestito di desiderio ed affermazione di progresso, potesse portarci a nuove ed importanti conquiste. Ci sono, per grazia di Dio, ma a che servono, se stiamo perdendo umanità nei nostri rapporti, sensibilità nelle relazioni, concretezza nei dialoghi, perché la nostra è la cultura del verosimile, delle parole che passano, non di quelle che restano, nutrendo la vita e chiedendo un cambiamento di rotta, una conversione del cuore. Annunciare la resurrezione significa insegnare a leggere la vita con la Pasqua di Cristo, scoprire il significato degli eventi della storia, con la chiave del mistero pasquale di Gesù, perché le nostre morti ed i fallimenti che ogni giorno sperimentiamo, le difficoltà, ad ogni livello, hanno un senso solo se immersi nel Cuore trafitto del crocifisso. È lì che l’amore dimostra di essere vero, i nostri peccati sono perdonati e le incomprensioni ricevono la forza, perché vengano superate.

La predicazione del Vangelo – Paolo lo fa comprendere a chiare lettere – porta i Corinzi a discussioni che non hanno nulla di evangelico. Gesù, durante il primo periodo della vita pubblica, impose il silenzio ai suoi discepoli – si tratta del cosiddetto segreto messianico – perché sapeva che, non avendo ben capito il mistero della sua Persona e la modalità della salvezza che Egli stava per donare, non avrebbero servito la causa del regno e seminato idee contrarie a quelle proposte dallo stesso Cristo nella sua predicazione. È questo il criterio da tenere sempre presente. A Corinto si discute animatamente – le dicerie sono giunte anche a Paolo – “alcuni tra voi [dicono] che non vi è risurrezione dei morti” (v. 12), ovvero si parla senza aver capito bene il contenuto della predicazione ricevuta. E così, invece di chiedere spiegazioni, si semina lo scompiglio. Dire cose totalmente contrarie alla verità è altamente deleterio, in ogni contesto, dall’altra parte è importante vedere come l’Apostolo reagisca. Egli, infatti, interviene con determinazione a Corinto, affronta con coraggio le deviazioni dottrinali, di cui gli è giunta notizia, perché sa che disorientano i deboli e confondono i piccoli. Non solo le bugie e le mezze verità impediscono la crescita del bene, ma soprattutto un non intervento tempestivo di correzione può rendere la deriva ancora più pericolosa. Le falle, ad ogni livello, richiedono il nostro intervento chiarificatore, perché tutto ritorni nell’alveo della verità e del bene sinceramente ricercato. Tante volte, in famiglia, i genitori sono divisi, come anche in comunità c’è chi predica o dice il contrario di quello che altri affermano. È così difficile comprendere che fare muro contro muro non aiuta la comunione? Gettare il discredito sulla parola dell’altro non è da fratelli che si stimano e si vogliono bene, da sposi che si amano sul serio, da religiosi e presbiteri che lavorano per il regno di Dio? La nostra parola deve essere limpida e cristallina, la predicazione evangelica chiara ed incisiva. Se sorgono dei dubbi, bisogna chiarirli e domandare aiuto, se nascono delle contese, con determinazione e carità, intervenire perché ogni spiacevole situazione rientri.

Costruire tutto sulla Pasqua di Gesù

L’Apostolo, procedendo nella sua argomentazione, trae le conseguenze dal vociare dei fedeli di Corinto: “Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (vv. 16-17). È molto semplice parlare ed esprimere giudizi, soprattutto quando non si tiene conto delle conseguenze che possono sorgere. Invece proprio qui si vede la maturità di una persona, se, parlando, comprende ciò che dice e pensa agli eventuali effetti e, agendo, accoglie di buon grado gli esisti che potrebbero venire dalle scelte fatte. Paolo presenta il discorso a ritroso, attraverso una dinamica argomentativa ben curata. Parte da quello che alcuni tra i Corinzi dicono, per mostrare poi come le affermazioni che circolano distruggono la professione di fede della Chiesa. Possiamo dire tutto, ma dobbiamo ben ponderare ogni cosa. Ciò che affermiamo, tanto può testimoniare la signoria di Cristo, nella nostra vita, quanto, anche distruggerla, non solo in noi, ma anche negli altri. La casa della nostra vita si regge sulla roccia di Cristo, morto e risolto. Mettendo in dubbio l’evento della sua Pasqua, la fede si dissolve – “è vana la vostra fede” – e, con essa l’impegno cristiano per l’edificazione del regno, ma anche la salvezza perde consistenza “e voi siete ancora nei vostri peccati”.

La resurrezione di Cristo è il fondamento della speranza cristiana, perché anche noi risorgeremo in Lui a vita nuova, ed è la causa della nostra salvezza, la sorgente della grazia della redenzione che ci rende creature nuove. Scrive san Bernardo “Dio Padre ha inviato sulla terra un sacco, per così dire, pieno della sua misericordia; un sacco che fu strappato a pezzi durante la passione perché ne uscisse il prezzo che chiudeva in sé il nostro riscatto” (Disc. 1 per l’Epifania, 1-2; PL 133, 141-143). La resurrezione di Gesù ci mostra come l’amore del Padre da peccatori ci rende giusti, da schiavi liberi, da lontani figli amati. Nella Pasqua del suo Figlio, Dio ci ha detto tutto e ci ha dato tutto, mostrandoci come l’universo intero viene da Lui rinnovato, per un gesto di amore infinito che non si ritrae dinanzi alla cattiveria e alla violenza. Per la mediazione del Risorto noi abbiamo lo Spirito Santo, che è lo Spirito del Risorto, perché è la sua vita in noi. È questo il principio che ci guida a vivere da risorti, rinnegando le passioni ingannatrici e rivestendoci di Lui, che è per noi tutto. Senza la resurrezione di Gesù, siamo ancora nella schiavitù del peccato, soggetti ai desideri della carne, intenti alle opere delle tenebre, nemici uno dell’altro, brancoliamo nel buio dell’odio e della vendetta, incapaci di compiere il bene che desideriamo, perché manca in noi la forza di attuarlo. “Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto per la vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 622-23). È la resurrezione di Gesù il segno della vittoria di Dio sul peccato e sulla morte, è il suo apparire agli apostoli, nel suo corpo glorioso, che dona un corso nuovo alla loro storia e li spinge ad annunciare risoluti la grazia della salvezza, il perdono dei peccati, la necessità della conversione. È la croce che rifiorisce in vita a donare alla parola della predicazione la potenza della salvezza; è la grazia del Risorto che consacra i discepoli nella verità e li invia missionari di misericordia tra gli uomini; è l’amore del Padre che, come strappa il Figlio dalla morte e dagli inferi, così libera dai tentacoli della morte, conseguenza del peccato, ogni uomo e lo riveste della dignità filiale. Anche la grazia dei sacramenti è potenza di resurrezione, capacità di offrire la propria morte perché regni in noi la vita di Cristo salvatore. Anche il nostro essere Chiesa nasce dalla resurrezione.
Il mistero pasquale di Gesù Cristo, in quanto costituito dalla sua morte e resurrezione, è unico ed indivisibile e va annunciato nella sua interezza. Negare tale unità significa vivere senza la speranza di risorgere un giorno con Cristo e senza la gioia di vivere ora di Cristo, nella potenza del suo Spirito. La luce del Signore, svegliatosi dalla morte, all’alba del giorno dopo il sabato, è la forza divina che ci spinge a lavorare nella storia, con coraggio, senza temere nessun genere di morte, perché il Risorto è con noi, guida i nostri passi nella volontà del Padre e ci spinge a tenere fisso lo sguardo verso il cielo, dove tutti un giorno ci ritroveremo, per sedere alla mensa eterna del regno. Non possiamo svuotare il mistero del Signore della sua potenza viva e vivificante, come anche della portata “folle e scandalosa” che la predicazione del Crocifisso determina in tanti, che non riescono a superare il velo della carne e del sangue, con un gesto di fede e di totale abbandono, lo stesso che Cristo ha vissuto nella sua Pasqua.

Come l’apostolo Paolo, siamo chiamati ad affermare il fondamento della nostra speranza e la sorgente dell’amore che ci riempie di Dio: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (v. 20), ricordandoci continuamente il cuore del mistero della nostra fede. Non riguarda, infatti, solo Gesù Cristo, ma è un mistero che ci tocca in profondità, perché in Cristo siamo un solo corpo (cf. 1Cor 12,13) e quanto contempliamo nel Capo si realizzerà, con la forza dello Spirito, anche in noi suo corpo, nel tempo e nell’eternità.




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