I Domenica di Quaresima – Anno C – 10 marzo 2019

Nel deserto, invochiamo il nome del Signore

di fra Vincenzo Ippolito

Alla luce della Parola di Dio possiamo dire che tante nostre delusioni sono il frutto di una marcata incredulità, tante volte abbiamo seminato vento e raccolto tempesta, perché abbiamo creduto in noi, senza fidarci di Dio, del suo amore fedele, dei segni che Egli lascia sul nostro sentiero.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (10,8-13)
Professione di fede di chi crede in Cristo.
Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

 

Entriamo nel tempo santo della Quaresima, per condividere con Cristo il suo cammino verso la Pasqua. Il deserto nel quale è ambientata la pagina evangelica odierna (cf. Lc 4,1-13) rappresenta lo scenario nel quale Gesù, in tutto solidale con noi uomini, mette a frutto la grazia dello Spirito, scesa su di Lui, nel battesimo al Giordano (cf. Lc 3,22-23). Tempo di prova e di tentazione, i quaranta giorni che Egli vive sono il momento in cui sente di non essere solo, perché l’amore del Padre lo sostiene nella lotta contro il male, mentre lo Spirito lo spinge a fare della Scrittura la sua forza, il suo sostegno.
La Prima Lettura, tratta dal libro del Deuteronomio (26,4-10), è il memoriale della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, che ogni israelita dovrà ripetere nel presentare la propria offerta davanti al Signore. Ricordare i prodigi che Dio ha operato in antico, nel linguaggio biblico, significa riviverli e godere nel presente della salvezza sperimentata in antico. È questo il senso della celebrazione eucaristica, nella quale le parole della consacrazione, ricordano la Pasqua di morte e di resurrezione di Gesù e rendono vera ed operante per noi la salvezza, attraverso il Pane ed il Vino di cui ci nutriamo, presenza del Signore risorto in mezzo alla sua Chiesa. Nella Seconda Lettura, invece, l’apostolo Paolo, scrivendo alla comunità cristiana di Roma (cf. Rm 10,8-13) presenta la professione di fede della Chiesa, indicando ai credenti in Cristo morto e risorto, la strada della salvezza e della vita vera.
Dalla fede del popolo d’Israele che riconosce nell’esodo la potenza dell’Altissimo (Prima Lettura) alla fede in Gesù Cristo, professata dalla Chiesa, nuovo Israele (Seconda Lettura), c’è il mistero dell’umanità nostra che il Figlio di Dio ha preso da Maria santissima, nel mistero dell’Incarnazione. Gesù è l’uomo nuovo, l’uomo perfetto, in Lui il Padre trova la risposta d’amore obbediente che si attende dall’umanità. Teniamo fisso lo sguardo su Cristo, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Solo guardando a Lui, i nostri volti diventano raggianti, solo imparando da Lui, combattiamo lo spirito del male e avremo ristoro per le nostre anime.

Gesù Cristo, il Dio tanto vicino da farsi uno di noi

Prima di lasciarci illuminare dalla Parola di Dio, come accadde a Gesù nel deserto, è bene fermarsi a considerare la nota caratterizzante del cammino iniziato con il Mercoledì delle ceneri. Diversamente da quanto accade per il Tempo Ordinario, che segue la lettura continua della Scrittura, durante la Quaresima, le letture bibliche, proposte sia nel ciclo feriale che in quello domenicale, vengono scelte per tematica, offrendo così di approfondire aspetti particolari del mistero della fede. Facendo così, la Chiesa desidera che ciascuno di noi metta nella bisaccia del cuore le cose essenziali per attraversare il deserto e giungere alla terra promessa, la cui porta è costituita dal mistero pasquale di Gesù. E così oggi leggiamo un brano della Lettera ai Romani, la prossima domenica dall’Epistola ai Filippesi, a seconda di ciò che è bene riflettere ed interiorizzare, in vista della trasformazione del nostro cuore.
Il nutrimento della nostra mensa è costituito oggi, tra gli altri brani, da una pericope tratta dall’Epistola i Romani. Tra gli scritti dell’Apostolo questa è una delle più importanti – è parte di quelle definite Lettere Maggiori – perché, in quindici capitoli, l’Autore sviluppa una riflessione teologica abbastanza completa e sistematica, sviscerando i cardini della fede cristiana. Il brano liturgico è preso dalla sezione (cap. 9-11), nella quale l’Apostolo riflette sul popolo d’Israele, nel suo rapporto con la salvezza portata da Cristo. Per l’Apostolo, Gesù Cristo è imprescindibile – “Ora il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede” (Rm 10,4) – e tutti possono salvarsi per la fede in Lui. Paolo presenta il passaggio che egli stesso ha vissuto, dalla giustificazione per le opere della legge alla salvezza per la fede in Cristo. L’Apostolo, “Ebreo figlio di Ebrei […] quanto alla giustizia derivante dall’osservanza della legge, irreprensibile” (Fil 3,5.6), sa bene cosa comporti credere in Cristo ed orientare a Lui tutta la vita, un tempo polarizzata verso la legge. Egli, al pensiero che, credendosi nel giusto, i suoi fratelli non accolgano Cristo come salvatore, scrive “il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza. Infatti, rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta coscienza” (Rm 10,1-2). Proprio su Cristo, compimento della Legge e pienezza della rivelazione, si struttura l’argomentazione paolina. L’Apostolo cita alcuni passi dell’Antico Testamento e li comprende alla luce del mistero di Cristo. E così le parole del libro del Deuteronomio – dette di Mosè, perché considerato autore dell’intero Pentateuco – trovano realizzazione in Cristo: “che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo” (v. 8).

Il primo dato che emerge dalla parola della Scrittura, citata da Paolo è la vicinanza di Dio. Il brano del Deuteronomio da cui l’Apostolo attinge recita “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te […] Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Dt 30,11-14). Dal contesto comprendiamo che Mosè sta parlando dell’obbedienza a Dio, attraverso l’accoglienza della sua volontà, codificata nella Legge. Nel commentare il brano anticotestamentario, l’Apostolo sembra identificare “questa parola” di cui parla il Deuteronomio, intendendo i comandamenti della Legge, con “la parola della fede che noi predichiamo” (v. 8), ovvero il Vangelo di Cristo Gesù. La Legge, sembra dire Paolo, ha trovato in Cristo la sua pienezza ed il suo compimento ed il Vangelo della salvezza, che la Chiesa annuncia, “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco” (Rm 1,16). Si tratta di un passaggio significativo – dalla Legge a Cristo – che, pur se non così scontato per i Giudei – rappresenta il proprium del messaggio cristiano. La speranza del credente, quindi, non è riposta nelle opere che la Legge dell’Antico Testamento richiede, ma nella fede in Cristo, nella relazione amorosa con Lui e la salvezza è il frutto maturo di una incondizionata obbedienza a Lui che è il Signore, nella totale confidenza in Lui che è il Maestro. Per questo, scrivendo ai Galati, può affermare con convinzione: “l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16). Parlare di opere della Legge come fonte di salvezza significa dire che tutto dipende dalla capacità dell’uomo di obbedire – ammesso che ci possa essere un’obbedienza, senza il concorso della grazia divina – mentre dire che si è salvi per la fede in Cristo vuol dire affermare il primato della grazia nella vita dell’uomo, non solo perché è Dio che ci rende giusti nella Pasqua del suo Figlio Gesù, ma anche perché è il suo venirci incontro a generare la fede. Difatti, “A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede” (Dei Verbum 5). Paolo, che è passato attraverso le opere della Legge e, incontrando Cristo, ha sperimentato la libertà dell’amore e della fede sa bene che ogni Giudeo, se vuole veramente sperimentare la salvezza, deve vivere questo salutare scandalo – scrivendo ai Corinzi dirà “noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” (cf. 1Cor 1,23) – scandalo quanto mai necessario per vivere da salvati, nella volontà del Padre. Per questo ciò che è vicino ad ogni uomo oggi è il Vangelo di Cristo, “la parola della fede che noi predichiamo” (v. 8). “Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito” (Rm 8,3-4).

Quanto è importante per noi il Vangelo di Gesù per ogni discepolo! La Scrittura non solo trasmette al volontà del Padre per ciascuno di noi, ma ci dona di vivere la vicinanza di Gesù, di sperimentare la potenza del suo Spirito, di avere sulle nostre labbra le sue stesse parole, proprio come avviene quando recitiamo il Padre nostro. In tal modo, in noi abbiamo lo Spirito che ci rende figli adottivi, principio anche del nostro gridare “Abbà! Padre!“(cf. Rm 8,15). Permeati dalla potenza del Risorto, sperimentiamo la sua vicinanza, godendo all’interno della Presenza dello Spirito e, all’esterno, lasciando che sia Lui ad agire, portati da Lui, nostro Maestro interiore, che ci conduce alla verità tutta intera del mistero di Cristo. Anche noi dobbiamo passare, soprattutto in questo tempo santo di Quaresima, dal credere alle nostre opere al confidare nella potenza di Dio, che la fede suscita in noi. In questi quaranta giorni siamo, infatti, chiamati dalla Chiesa, ad avere la Parola di Dio, il Vangelo di salvezza sulle labbra e nel cuore, proprio come fa Gesù nel deserto (cf. Lc 4,3-12), perché solo la presenza di Cristo, la vicinanza di Dio può far indietreggiare lo spirito del male, che cerca in ogni modo di destabilizzare la nostra fiducia in Dio. La parola della fede plasma il cuore, l’annuncio della salvezza ridonda nelle parole, i gesti ed i pensieri del credente sono un continuo riferimento a Cristo. “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1Cor 3,11). È importante, nelle nostre famiglie comunità, sperimentare la vicinanza di Dio attraverso la sua Parola, letta, meditata, accolta con fede nel cuore, nell’incontro orante con la Scrittura che, sotto la guida dello Spirito, ci conduce a ravvisare in Cristo il nostro modello, il Maestro e la Guida da seguire, la Sorgente zampillante di quello Spirito a cui nulla è impossibile. La Quaresima è il tempo della Parola. Essa deve risuonare nel nostro cuore, come in quello di Maria (cf. Lc 2,19) e deve abitare sulle nostre labbra, perché le parole nostre traducano il volere di Dio e annuncino la salvezza che è per tutti gli uomini.

Labbra e cuore in armonia tra di loro

La salvezza che ogni discepolo sperimenta in Cristo e che i Giudei, in nome dell’osservanza della Legge, volutamente rifiutano, è il segno dell’incontro di tutto l’uomo con la potenza risanatrice della Pasqua di Gesù. Paolo lo mostra in maniera chiara, attraverso la struttura del nostro brano. L’Apostolo, infatti, prima cita il Deuteronomio (v. 8a), poi lo applica alla predicazione della Chiesa (v. 8, b), in seguito chiarisce come la salvezza che Cristo dona sia frutto dell’incontro di tutto l’uomo – cuore, mente, forze (cf. Dt 6,4) – con Cristo salvatore. I cristiani di Roma devono, infatti, comprendere che solo Gesù Cristo è “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,2) e che la fede, come atto libero dell’uomo che risponde a Dio interamente, perché ha scoperto che Dio si è totalmente donato a Lui – “Noi amiamo, perché Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19) – deve coinvolgere la totalità dell’umanità nostra, così come il Verbo, nel farsi uomo, ha preso tutto di noi, eccetto il peccato, che della natura umana non fa parte. È questo che anche san Francesco d’Assisi insegna ai suoi, guardando l’umiltà di Gesù nell’Eucaristia “Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre” (Lettera all’Ordine 29: FF ). L’amore richiede la totalità del dono, quando è vero. Per questo, insegna sempre il Concilio Vaticano II, nella Dei Verbum 5, attraverso la fede, “l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente [a Dio] prestandogli «il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa”. La Quaresima è, infatti, il tempo nel quale noi contempliamo il dono totale di Dio per noi, nell’offerta volontaria di Cristo, fino alla morte di croce ed è anche il tempo in cui cresciamo nella docilità allo Spirito, che mette in noi il desiderio di rispondere all’amore di Dio, con la forza dello stesso amore che Egli nutre per noi, visto che “Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia « a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità ». Affinché poi l’intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni” (Dei Verbum 5).

Paolo non parla direttamente di totalità, ma lo fa comprendere con eguale chiarezza, riprendendo i termini usati dall’Autore del libro del Deuteronomio. Egli parla di bocca e di cuore e sembra, in tal modo, riferirsi all’armonia che deve regnare in tutta vita del credente, per l’azione dello Spirito Santo. Egli scrive “se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (v. 9). Si tratta di due azioni complementari, nella vita del credente, da un lato la proclamazione della signoria di Cristo, dall’altra il credere nel mistero della sua resurrezione. Nelle parole dell’Apostolo, la bocca ed il cuore stanno ad indicare la totalità della persona, nella relazione con Dio. Non possiamo credere di poter rispondere alla chiamata di Dio solo con la mente – la fede diverrebbe pura conoscenza, gnosi – né dobbiamo pensare che il cuore possa bastare – la volontà fredda non plasmata dall’amore diventa intransigente durezza, che schiaccia e mortifica l’uomo – ma è necessario relazionarsi con Dio, secondo le capacità di ciascuno, mettendo a frutto tutti i doni che Egli, nella sua benevolenza, ha elargito per il nostro bene e perché noi li condividiamo con i fratelli. Dio Padre ci mostra in Gesù Cristo la risposta incondizionata e totale che si attende da ciascuno di noi e che si può attuare solo se ci lasciamo condurre dallo Spirito Santo. In tal modo, la professione della fede deve plasmare e determinare la vita del credente, sprigionando in lui la forza della Pasqua, che è potenza di vita capace di vincere e sbaragliare ogni tipo di morte. Chi incontra Gesù Cristo, la potenza della sua croce, chi si lascia investire dall’amore che Egli nutre ed è, accogliendolo con gioia, orienterà a Cristo la sua vita e vivrà per Lui, che è il Figlio del Padre, il rivelatore del suo volto di misericordia, il testimone fedele e verace della bellezza travolgente della comunione con Lui. La fede è fatta di cuore, come volontà decisa di rispondere all’amore con l’amore ed è fatta anche di labbra che invocano la presenza e l’azione potente dell’Altissimo, nella chiara consapevolezza che senza la sua forza, l’uomo non può far nulla. Cuore e labbra, mente e forze tutto l’uomo deve entrare nel rapporto con Dio, cosi come tutto l’uomo deve entrare nella relazione con i fratelli. Quando ci ritraiamo, perché crediamo che è preferibile per noi battere ritirata, non viviamo l’avventura del dono ed eviteremo di metterci veramente in gioco. Ha senso la vita senza essere vissuta fino in fondo? Si può parlare di una esistenza in cui si è giunti al midollo, gustata nella sua interezza, se non si sfrutta il tempo che ci è dato, per vivere, nel cuore e nelle parole, la grande avventura della comunione con Dio e con i fratelli?

Dobbiamo vivere nella signoria di Cristo, confessare continuamente la nostra appartenenza a Lui, invocare il suo nome santo, chiamarlo in nostro soccorso, con lo stesso docile e confidente abbandono di un fanciullo, che sa di trovare i genitori, in ogni necessità, sempre amorevoli e solleciti. Sulle nostre labbra deve fiorire continuamente la professione di fede “Gesù è il Signore!” (v. 9) e questo è necessario insegnare alle nuove generazioni, vivere in Cristo, proclamare la sua regalità, non vergognandosi del suo Vangelo, non tacere per conformismo o perché si va incontro alla derisione. Gesù è la nostra gioia e non possiamo tenere nascosta la sorgente della nostra speranza, la fonte della nostra vita, il senso dell’amore che doniamo ai fratelli. È necessario educarci ad amare in totalità e a non giocare al risparmio nei nostri rapporti. Spesso capita di non volersi coinvolgere più di tanto nelle relazioni, per non rischiare poi di sperimentare fallimenti e delusioni, da quali non è semplice risollevarsi. Si può veramente parlare di rapporto quello in cui non c’è sincerità e totalità, nel quale le lebbra non parlano dell’altro/a come la persona che ha riempito il cuore, della luce che Dio ha donato alla propria vita, come riflesso di quell’unico sole, Cristo Gesù, che illumina quanti sono nelle tenebre? Non possiamo, per paura o viltà, ritrarci, perché la vita non può essere concepita a compartimenti stagno, interamente, con tutto noi stessi, siamo chiamati ad amare Dio, totalmente a donarci nelle nostre famiglie comunità, senza nessun risparmio, senza credere che mettendo sottoterra i nostri talenti verranno custoditi meglio di qualunque investimento. Il discepolo di Gesù, invece, fa della Pasqua del suo Signore il senso della sua vita e sa che in ogni rapporto è chiamato a donarsi totalmente ai fratelli, come nella relazione con Dio non deve ritrarsi, ma vivere in Cristo il dono della figliolanza, di cui lo Spirito effuso nei cuori è un segno eloquente e una presenza costante. Se riuscissimo a vivere la bellezza dell’armonia nella complementarietà delle nostre differenze! Se riuscissimo a lasciare che lo Spirito sciolga il nodo della nostra lingua, come nel caso di Zaccaria, perché le lebbra proclamino la sua lode e muova il cuore a battere all’unisono con quello di Cristo! È questa la grazia da chiedere al Signore per questo tempo santo di Quaresima.

Mai smettere di invocare il Signore

L’ultima parte del nostro brano propone un nuovo riferimento alla Scrittura – “Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso” (v. 11), questa volta la citazione è del profeta Isaia (28,16) – a cui fa seguito la rilettura paolina in chiave cristologica – “Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano” (v. 12) – che trova conferma in una nuova citazione della Scrittura – “Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (v. 13) – questa volta del profeta Gioele (3,5). A ben vedere, il procedimento e la struttura sono identici ai versetti precedenti. Difatti, il metodo di approccio ai testi antico testamentari è sempre cristologico. In Paolo abbiamo la volontà risoluta di riferirsi a Cristo, quale “chiave, senso e fine di tutte le cose”. È Lui, infatti, il perno per la comprensione della Parola di Dio, in Lui tutto trova compimento, per Lui riceviamo il significato pieno della volontà del Padre.
Alla luce della Parola di Dio possiamo dire che tante nostre delusioni sono il frutto di una marcata incredulità, tante volte abbiamo seminato vento e raccolto tempesta, perché abbiamo creduto in noi, senza fidarci di Dio, del suo amore fedele, dei segni che Egli lascia sul nostro sentiero. Le delusioni sono la diretta conseguenza di illusioni, cercate e vissute con caparbietà, come unica via di salvezza. Dobbiamo poi sempre riconoscere che Gesù “è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano”, sempre pronto a sposare la nostra povertà, per farci dono della sua ricchezza, della sovrabbondanza della sua grazia (cf. 2Cor 8,9).
Vivere nella confidenza ed invocare il nome santo del Signore sono le azioni, rispettivamente del cuore e delle labbra, che il cristiano, soprattutto in questo tempo quaresimale, non deve mai trascurare. Solo Gesù è l’ancora della salvezza, solo il suo nome può salvare le nostre famiglie e comunità da ogni possibile deriva del male. Abbiamo il Maestro, perché non rivolgersi a Lui? Abbiamo l’animo e il compagno, non ha senso non fidarsi di Lui, non chiamandolo nel momento del bisogno! Egli vuole che noi siamo amici importuni, che in ogni ora del giorno e della notte, bussano alla porta del suo cuore. Chiediamo allora la grazia di abbandonarci in Lui, per sperimentare la pace e così, nella costante invocazione del suo nome, per la fede che lo Spirito suscita nel cuore, trovare la strada per vincere il demonio e vivere la gioia della salvezza.




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1 risposta su “Nel deserto, invochiamo il nome del Signore”

…nel deserto….Siamo, piú che mai, nel deserto. Senza scoragiarsi, incochiamo il Signore!

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