IV Domenica di Quaresima – Anno C – 31 marzo 2019

“Se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”

di fra Vincenzo Ippolito

Amare significa non attendere che l’altro faccia il primo passo, ma prevenirlo nel dono, proprio come Dio Padre fa con noi, offrendoci sempre il suo Figlio Gesù. Immettere questa dinamica dell’amore oblativo e preveniente di Dio nella nostra vita familiare e comunitaria significa vivere la gioia della consegna e la grazia della divina presenza in noi.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (5,17-21)
Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo.
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

 

Dal deserto alla montagna, dalla folla alla casa: è questo il cammino che la liturgia ci fa compiere, nelle domeniche del Tempo quaresimale. La casa è lo scenario della pagina odierna del Vangelo (cf. Lc 15,1-2.11-32). Da essa esce il figlio più giovane, assetato di libertà, per farvi ritorno, avendo sentito il bisogno dell’amore del padre, che ha sempre avuto, senza mai apprezzarlo nella casa è rimasto il figlio maggiore, incapace, nella sua obbedienza servile, di comprendere e vivere la relazione con il padre, non con il suo padrone. È il padre il centro di ogni scena della parabola evangelica, la sua figura primeggia, anello di congiunzione tra i figli, le sue viscere di misericordia sono la nostra vera casa, dove ogni figlio è rigenerato, per rivestirsi della dignità filiale, perduta con il peccato, di cui sono segno la veste più bella, i calzari ai piedi e l’anello al dito.
Un preludio della misericordia che Cristo rivela in pienezza ci è presentato nella Prima Lettura, tratta dal libro di Giosuè (cf. 5,9-12). Il brano narra dell’ingresso del popolo nella terra promessa e della nuova vita di Israele, che mangia i prodotti della terra, dopo essere stato nomade per quarant’anni. La manna diventa ora solo un ricordo, perché Dio provvede ai suoi eletti, secondo i tempi e le necessità. Nel brano proposto come Seconda Lettura (cf. 1Cor 5,17-21), invece, l’apostolo Paolo annuncia la novità di vita, che il Risorto ha donato al mondo ed invita i Corinzi a lasciarsi riconciliare con Dio, che prodigiosamente opera la trasformazione della vita.
La terra promessa dove scorrono latte e miele (Prima Lettura) è per ogni discepolo il cuore del Padre (Vangelo), la cui misericordia Cristo rivela, fino al dono della sua vita. Di questo amore, riversato dal Risorto nei nostri cuori, siamo ambasciatori (Seconda Lettura), donando ad ogni fratello “la parola della riconciliazione”, forza di conversione e di trasformazione del mondo.

Innestati in Cristo, come il tralcio alle vite

Il brano neotestamentario scelto come Seconda Lettura è tratto dalla Seconda Epistola, indirizzata da Paolo alla giovane chiesa di Corinto. La prima sezione di questa grande Lettera (cf. 2Cor 1-7) è considerata una vibrante difesa del ministero apostolico paolino. Avversato da più parti, l’autore è costretto a difendere il suo operato, per poi ricucire i rapporti con quanti non lo considerano più loro padre nella fede. Oltre a sostenere con forza la rettitudine delle sue intenzioni, nello scritto è possibile ravvisare quasi una teologia del ministero apostolico paolino, comprendendo come Paolo guardi, consideri e viva la chiamata ricevuta da Dio. La pericope liturgica è formata da appena cinque versetti di una più ampia riflessione, il cui punto nevralgico sembra essere la riconciliazione operata da Dio in Cristo e divenuta parola di riconciliazione sulle labbra degli apostoli, per trasmettere agli uomini la salvezza del Signore.
Nel corso del suo argomentare – è sempre cosa buona leggere l’intero capitolo, da cui è preso il brano liturgico, così da meglio comprendere il discorso che si sta portando avanti – Paolo è giunto a mettere in luce la nuova condizione che il credente vive, con il battesimo. Argomenta l’Apostolo “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (v. 17). Immerso nel fonte e purificato dai peccati, il catecumeno è innestato nella vita di Gesù e partecipa della grazia del suo Spirito. Difatti, “quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,27-28). L’espressione “in Cristo”, uguale nei due testi e spesso ricorrente nell’epistolario paolino, indica la nuova dignità, che il discepolo vive. Essere in Cristo significa vivere una relazione vera, viva, profonda, continua con Lui, vuol dire godere della sua amicizia – “Vi ho chiamato amici” (Gv 15,15) – realizzando quella unità profonda, che con l’immagine della vite, il Maestro rivelò ai suoi, nella sera del tradimento: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Gv 15,1-2). Essere discepoli di Gesù significa vivere innestati in Lui, perché, in caso contrario, c’è solo la morte. È Cristo la sorgente della vita, inutile attingere acqua a cisterne screpolate che non contengono acqua, come inutile risulta andare ai pozzi umani che smorzano la sete solo per breve tempo, come quello di Giacobbe, al quale la samaritana andava ad attingere acqua. Invece, “Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete in eterno. Anzi l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14).

Non è semplice per noi comprendere e vivere la dignità del nostro battesimo, come grazia di relazione e di amicizia, sperimentare quotidianamente la novità di vita che Cristo ci dona, in termini di rinascita spirituale. Cristo non solo ci vuole nuovi, della nuova vita che Egli ha ricevuto in dono dal Padre, con la sua resurrezione, ma effonde in noi il suo Spirito, per vivere come Lui. È lo Spirito la novità che il Signore dona ai suoi discepoli, è Lui il principio vitale che ci rinnovella, non è in termini di restyling spirituale, ma di rinascita interiore profonda. Scrivendo “Se uno è in Cristo è una creatura nuova” (v. 17), Paolo sta indicando ai suoi il medesimo cammino, prospettato da Gesù a Nicodemo (cf. Gv 3,1-21). Significa che il mio principio vitale non è più il mio egoismo, ciò che io penso, dico, faccio, ma Gesù, è Lui e Lui solo a determinare la mia vita, totalmente rivoluzionata dalla presenza del suo Spirito. In tal modo, il mio cuore abita nel cuore di Cristo, la mia mente è plasmata dai suoi stessi pensieri, il mio volto è illuminato, come quello di Pietro, Giacomo e Giovanni, dal Signore trasfigurato sul monte. Non sono io, quindi, a rinnovarmi, ma il lasciare operare Cristo in me che compie meraviglie di grazie. Il segreto della vita cristiana sta nel lasciarsi amare da Cristo, permettendo alla potenza della sua misericordia di dilagare in noi e di renderci conformi a Lui. La Quaresima è il tempo in cui è offerta a tutti noi la novità di vita dello Spirito, a patto di vivere totalmente in Lui. Difatti, solo se il mio sguardo è fisso in Lui e la mia esistenza è orientata a trovare in Gesù la sua sorgente, io vivrò della potenza della Pasqua del mio Signore e l’amore del Padre sbaraglierà gli eserciti nemici che mi tengono schiavo delle mie passioni ingannatrici. Proprio perché la totalità della consegna di me stesso a Dio gli permette di trasformare il mio cuore e di rendere la mia vita accogliente per i fratelli, non è possibile vivere compromessi con il mistero dell’iniquità. L’amicizia con Gesù deve essere totale e totalizzante. Come non c’è tralcio diviso in se stesso, ma interamente riceve linfa dalla vite, così anche noi dobbiamo sempre di più dare spazio alla potenza della Pasqua di Gesù, la sua grazia deve inondarci, il suo amore colmarci oltre misura, la sua amicizia renderci creature nuove. Il tempo dei quaranta giorni nel deserto con Cristo serve proprio a vedere in quali stanze dell’anima nostra il Signore ancora non regna. Una verifica questa che riguarda tutti, nessuno può credersi già arrivato, visto che la conversione consiste nel far perdere terreno al nostro egoismo e nel consegnarlo a Gesù, perché vi ponga la sua stabile dimora.

Guarire in profondità, con il farmaco della divina misericordia

La trasformazione della nostra vita, l’essere creature nuove è frutto della presenza dello Spirito del Signore. Innestati in Lui, come il tralcio alla vite, riceviamo la linfa del suo amore che fa meraviglie. In tal modo, lo Spirito opera in noi ciò che ha compiuto nel Crocifisso. Deposto nel sepolcro, come il seme caduto in terra, il corpo esanime del Signore ha ricevuto una vita nuova, per la potenza dell’amore del Padre. Lo Spirito non ha donato al Figlio, obbediente fino alla morte, di riprendere la vita che viveva prima – cosa che accadde a Lazzaro – ma gli ha concesso in dono un’altra vita, diversa rispetto alla precedente, perché perfetta ed eterna, visto che “Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8). Il principio della vita nuova del Risorto è l’amore, per questo dona lo Spirito ai discepoli, la sera di Pasqua, abilitandoli al perdono dei peccati: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi […] Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,21-23). Come lo Spirito ha fatto passare Gesù dalla morte alla vita, così dona anche a noi di passare dal peccato alla vita nuova dell’amore. Per questo motivo la vita cristiana è un cammino di conformazione a Gesù Cristo, per la potenza dello Spirito Santo che Lui effonde in abbondanza nei nostri cuori. Paolo può quindi scrivere: “le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (v. 17b), ovvero, il Paraclito ha operato in noi quel passaggio che noi contempliamo pienamente realizzato in Cristo risorto e che in noi si attua con il graduale cammino di consegna della nostra libertà nelle sue mani.

Non è semplice per noi considerare passate le cose vecchie, come non è facile chiamare vecchie quelle situazioni, le cui conseguenze sono dinanzi ai nostri occhi e che ci sembrano vive ed attuali. Non è forse questo sentimento di impotenza che spingeva Davide a dire: “Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Sal 50,5)? Non solo la misericordia di Dio ci libera dalla schiavitù del peccato – è già una grande impresa questa per noi, considerare la gratuità del perdono e non vivere la pretesa di dover meritare l’amore! – ma la potenza dell’amore di Dio vuole guarire anche la nostra memoria, per vivere da persone riconciliate, come dei peccatori perdonati. Se non avviene in noi questo passaggio, se il peccato ai nostri occhi non è il luogo estremo dove Dio si rivela con il suo amore che diventa misericordia, la nostra vita non sarà veramente nuova, ma sentiremo continuamente il peso della nostra creaturalità ribelle. Vivere da persone riconciliate non significa convincersi che Dio ci ha perdonati, né illudersi che tutto è passato, se poi in noi non ci sentiamo veramente perdonati, né ci siamo perdonati e avvertiamo di essere vittime di quelle situazioni di fallimento che, speriamo non torneranno più, ma di cui portiamo, invece, i segni, quasi a dirci che non saremo mai completamente affrancati dal mistero del male commesso.
Il perdono di Dio non è un pensiero che anestetizza il senso di vuoto e calma il nostro delirio di onnipotenza, perché prima o poi riusciremo a fare quello che fino ad ora, per avverse situazioni e concause, non siamo riusciti ad ottenere, con le nostre forze. Questo significa vivere nella frustrazione e nell’illusione, non nella potenza del perdono, interiormente sorretti e condotti per mano dal Dio tre volte Santo e infinitamente ricco di tenerezza e misericordia. Dio Padre, usandoci misericordia, non solo ci guarisce dalle lividure dei nostri peccati, ma ci insegna a saperci usare misericordia, a guardarci con benevolenza, ad accoglierci con compassione, spezzando dentro di noi la paura di ricadere nelle maglie del male. Egli vince il senso di solitudine con la sua presenza e ci spinge a riappropriarci di quello spazio del cuore, affidato imprudentemente al nemico, che ci aveva promesso la luna, senza accorgerci che il grande astro era solo un riflesso nell’acqua di un pozzo. Paolo ci ricorda ciò che la misericordia di Dio ha veramente operato in noi. Scrivendo “le cose vecchie sono passate”, vuole che impariamo a considerarle realmente passate, a non piangere sul latte versato, a vedere le infinite strade possibili che la misericordia e il perdono di Dio aprono dinanzi a noi. Per far questo, dobbiamo imparare e a rendere innocui i ricordi dei nostri errori, togliendo dai nostri pensieri la spada di cui si serve il demonio per infiggerci il colpo mortale della disperazione e dell’angoscia. Solo se impariamo a permettere a Dio di entrare nei sepolcri del nostro cuore perché il profumo della resurrezione spazzi il puzzo della nostra morte, potremo sperimentare sul serio che “ne sono nate di nuove”. Dio, infatti, dalle ossa inaridite fa rinascere una umanità nuova e ci dice, per mezzo del profeta Isaia: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,18-19). Dobbiamo permettere allo Spirito di giungere “fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla” (Eb 4,12), per essere guariti in profondità, altrimenti non riusciremo a guardare il passato, con cuore sereno, sapendo che tutto è stato bruciato nel roveto ardente della misericordia di Dio e che Lui ha permesso tutto per correggerci ed indicarci la via da seguire.

Anche nella vita delle nostre famiglie dobbiamo imparare a guarire, non considerando i torti subiti, ma lasciando che il fuoco dell’amore che Dio mette in noi bruci ogni contrarietà ed errore. La mancanza di perdono, come incapacità di dimenticare il passato, ci porta a rinfacciare le cose, durante gli alterchi, dimostrando che, pur se ci siamo usati il perdono – o almeno così ci siamo detti – il cuore fa fatica a dimenticare. La mancata riconciliazione ed il perdono che fatica a fiorire impediscono di guardare in avanti, per contemplare le cose nuove e belle che Dio mette nella nostra vita. Comprendiamo bene che è ancora lungo il cammino della riconciliazione vera. Ci vuole tempo, infatti, per guardarsi con gli occhi di Dio e amarsi con il suo cuore, ma a questo serve il tempo che la Chiesa ci offre, per interiorizzare la grazia della vita nuova, per cantare il canto nuovo della liberazione dalla schiavitù del proprio Egitto. Solo così le cose passate saranno definitivamente archiviate e le ferite, pur lasciando in noi le cicatrici, come segni dei combattimenti sostenuti, saranno sanate e, come quelle di Gesù, saranno per i fratelli i segni di ciò che l’amore di Dio opera in chi si fida di Lui. Dio getta in fondo al mare i nostri errori, è quello che dobbiamo imparare anche noi, se vogliamo che la gioia regni nelle nostre famiglie ed i nostri rapporti si aprano con speranza al futuro.

Tutto viene da Dio, perché, senza di Lui, non possiamo far nulla

Ad operare la novità di vita in noi, a spingerci a guarire dal male, anche nella nostra memoria, è Dio, trasformando in bene anche le situazioni più avverse, proprio come ha fatto con la morte del suo Figlio Gesù. Significativo è notare la scala discendente della salvezza. Scrive, infatti, Paolo: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (v. 18). Dio Padre, attraverso Gesù Cristo, salva l’uomo dal peccato e, perché tutti possano sperimentare la rinascita spirituale della Pasqua, ha disposto che, attraverso il ministero della predicazione apostolica, ogni uomo conosca la potenza della croce del Signore, liberazione e salvezza per ogni creatura. Non stupisce il fatto che l’Apostolo, visti i trascorsi burrascosi con quella comunità, approfitti per chiarire quanto sia importante, nella dinamica salvifica, la mediazione ecclesiale e la predicazione evangelica che rende viva la parola di Gesù, perpetuando nella storia il suo insegnamento e la salvezza della Pasqua.

Il termine nevralgico della pericope paolina, la password che ci permette di comprendere i vari passaggi dell’argomentazione è riconciliazione. Sia come sostantivo, che come verbo ritorna spesso nel nostro brano – “Dio ci ha riconciliati / il ministero della riconciliazione/ Dio riconciliava a sé il mondo/ la parola della riconciliazione/lasciatevi riconciliare con Dio” – e poiché l’occorrenza lessicale è un indizio del cuore del discorso – anche noi, quando utilizziamo più volte uno stesso termine, vogliamo dire che quel concetto è per noi importante, rispetto agli altri – spinti da quanto l’Apostolo sta dicendo, dobbiamo fermarci a riflettere sulla riconciliazione come dono del Padre in Cristo e sul ministero/parola della riconciliazione, affidata alla Chiesa, perché ogni uomo incontri Cristo salvatore. Sotto questa luce acquista un significato nuovo la redenzione operata da Cristo e meglio si comprende come l’opera di evangelizzazione consista nel rendere presente la portata salvifica della Pasqua qui ed ora.

Gli anelli tematici della catena argomentativa sono bene chiari, leggendo quanto l’Apostolo scrive. In primo luogo l’iniziativa è di Dio, visto che, insegnerà san Giovanni, “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Scrive, infatti, l’Apostolo “Tutto questo però viene da Dio” ed il soggetto – “Tutto questo” – richiama e fa sintesi di quello che precede – “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (v. 17) – facendo così comprendere che tutto, nell’economia della salvezza, viene da Dio, il primo passo è suo, non nostro e noi siamo chiamati a riconoscere il suo progetto e a consegnarci al suo Spirito, che fa nuove tutte le cose. Per contemplare in Cristo il mediatore e la pienezza della rivelazione dell’amore misericordioso del Padre, dobbiamo ripetere le parole rivolte da Gesù a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16) e dire con Paolo: Cristo “mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Quindi, “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,11). Amare significa non attendere che l’altro faccia il primo passo, ma prevenirlo nel dono, proprio come Dio Padre fa con noi, offrendoci sempre il suo Figlio Gesù. Immettere questa dinamica dell’amore oblativo e preveniente di Dio nella nostra vita familiare e comunitaria significa vivere la gioia della consegna e la grazia della divina presenza in noi, perché si permette allo Spirito di porre la sua abitazione nella nostra vita, come un giorno nel seno immacolato della Vergine di Nazaret.

Il secondo anello dell’argomentazione presentata da Paolo è la mediazione unica ed universale di Cristo, “Dio […] ci ha riconciliati con sé mediante Cristo” (v. 18), leggiamo nel brano odierno. Attraverso Gesù ci vengono tutti i doni del Padre – “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia” (Gv 1,16) – e questo porta l’autore della Lettera a Timoteo a poter dire: “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1Tm 2,5). Tutto l’Antico Testamento culmina in Gesù – “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1) – e non si può prescindere dal Figlio di Maria, è Lui solo il Salvatore del mondo. Egli solo può dire: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9). Dobbiamo passare attraverso Gesù, immergerci nel mistero della sua croce, imporporarci del suo prezioso sangue, inebriarci dell’acqua salutare del suo Costato. Lasciamo che penetri nei deserti del nostro cuore, rimargini le piaghe dei nostri rapporti, purifichi lo sguardo, che conosce sempre il velo del pregiudizio e dell’orgoglio. Solo guardando verso di Lui, passando attraverso i suoi trentatré anni, fino al giungere al duro legno della croce, potremo incontrare e lasciarci invadere dalla luce della sua resurrezione.

L’ultimo anello del discorso è la mediazione della Chiesa e dei suoi ministri, che rendono attuale la potenza e la presenza di Gesù salvatore che “ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (v. 18). Per questo l’Apostolo può dire “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v. 20). Comprendiamo quindi che l’adagio, in voga una volta Cristo sì, Chiesa no! è una contraddizione in termini, visto che la Chiesa è la visibilità che Cristo stesso si è dato, attraverso il dono del suo Spirito sugli apostoli e sui loro successori. Chiesa siamo noi, perché ogni battezzato è chiamato ad essere discepolo di Cristo e suoi apostoli tra i fratelli. Tutti dobbiamo sentire l’ansia dell’annuncio e poter dire con Paolo: “Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1Cor 9,16). Accogliere la chiamata ad essere ministri della riconciliazione di Cristo è la sfida che ci attende, in un contesto nel quale le differenze sono assolutizzate e creano barriere. Riconciliare significa rendere operante la potenza della Pasqua di Gesù, unendo i lontani e nutrendo tra noi quella logica dell’incontro e della solidarietà che ci rende fratelli l’uno del’altro, costruttori di un mondo migliore, secondo il progetto di Dio. C’è bisogno di annunciatori della riconciliazione, di persone di supplicano i fratelli, perché si ascolti Cristo e la potenza del suo sacrificio metta in circolo, nella società degli uomini, quell’amore che onnipotenza del dono di se stessi. Riscoprire la mediazione nostra, nell’unica e perfetta mediazione di Cristo è il compito che ci attende. Il marito è mediatore di grazia per la moglie, così come la sposa per lo sposo; mediatore di Cristo e della sua salvezza, nella dimensione sacramentale, è il presbitero per quanti lo incontrano. Tutti, a titolo diverso, secondo gli specifici carismi e le differenti vocazioni, siamo chiamati a rendere presente Gesù e ad allargare il raggio di azione della sua grazia santificante.

Voce del buon Pastore

La fede in Cristo ci porta ad essere, in mezzo ai fratelli, segno del sua amore e della sua tenerezza, sua voce, visto che “per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” (v. 20). Vagliare le parole, discernere i pensieri, considerare le azioni, perché non tradiscano le intenzioni buone, ma le manifestino al meglio, sono alcuni dei passi da fare in questo tempo, per rendere presente Gesù oggi. La domanda da porsi sempre è “Sono specchio della vita di Gesù? Solo un raggio di luce di Cristo che è l’unico sole di misericordia e di accoglienza?”. Chiederselo non può che farci del bene, curando le ferite del cuore e portandoci a fare sempre più spazio in noi al suo amore che, proprio attraverso di noi, vuol raggiungere gli altri.




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stiamo vivendo un tempo di prova e di preoccupazione riguardo il presente e il futuro. Questo virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità e ci ha obbligati a rivedere i tempi del lavoro, delle amicizie, delle Celebrazioni. Insomma, ha rivoluzionato tutta la nostra vita e non sappiamo fin dove ci porterà e per quanto tempo. Ci fidiamo delle indicazioni che provengono dal Governo e dagli organi sanitari preposti ma nello stesso tempo manifestiamo con la nostra fede che “il Signore ci guiderà sempre” (cfr Is 58,11).

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