Domenica delle Palme – Anno C – 14 aprile 2019

Passione: le parole della salvezza

di fra Vincenzo Ippolito

Dobbiamo riscoprire la bellezza del racconto della Passione e confrontarci con il Gesù che il Vangelo ci trasmette. Parole di perdono, di salvezza e di consegna sono quelle che servono alle nostre famiglie, come segno di una Pasqua da vivere quotidianamente. Siamo chiamati ad essere Cirenei della gioia, a patto di guardare il Maestro, per fare come Lui.

Dal Vangelo secondo Luca (23,35-46)
Gesù, dando un forte grido, spirò
Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte.
Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». C Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

 

La Settimana Santa, nella quale la Chiesa contempla il suo Signore e lo segue nel dono della sua vita, inizia oggi con la Domenica delle Palme. Il cammino quaresimale ha preparato il nostro cuore a non venire meno nella salita del Golgota ed ora ci apprestiamo a seguire il Maestro, senza lasciarci vincere dalla paura. Rispetto alle altre domeniche dell’anno liturgico, la mensa della Parola di Dio oggi è molto ricca e offre numerosi spunti di riflessione sulla Passione del Signore.
Per chi partecipa alla celebrazione preceduta dalla Commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, dopo la benedizione delle palme, si proclama la pagina evangelica (cf. Lc 19,28-40), che racconta quanto accadde nella città santa, a ridosso degli eventi dell’ultima Pasqua di Gesù. L’annuncio evangelico è il momento liturgico nel quale si rivive l’evento celebrato, peccato che la dimensione scenica sostituisca la potenza attualizzante che la liturgia realizza, per la grazia dello Spirito Santo! Non si tratta di una sacra rappresentazione, che ricorda l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, ma di rivivere, nei segni liturgici, quanto avvenne, per godere della salvezza che l’evento racchiude in sé. Dopo la benedizione, la processione, che conduce in chiesa, sostituisce l’atto penitenziale e il sacerdote, giunto alla sede, introduce l’orazione Colletta, cui segue la liturgia della Parola. Le altre celebrazioni eucaristiche seguono lo schema solito. In tutte le Messe, come Vangelo viene proclamato il racconto della Passione – Passio in lingua latina – che, soprattutto a coloro che non potranno partecipare ai riti liturgici della Settimana Santa, dona di riflettere sulla morte di Gesù, per la salvezza degli uomini. In tal modo la Chiesa, madre e maestra, offre loro in anticipo il racconto della Passione – quest’anno narrazione è tratto dal Terzo Vangelo (cf. Lc 22,14-23,56) – così da poter celebrare la Pasqua di Resurrezione, senza saltare la morte di Gesù in croce, che il venerdì santo celebra. Anche gli altri testi biblici scelti per questa domenica mettono bene in luce l’offerta di Gesù sino alla morte di croce.
La Prima Lettura, tratta dal Libro del profeta Isaia (50,4-7), presenta la sofferenza del Servo del Signore che si addossa il peccato degli uomini – nella rilettura cristiana il servo è Gesù – mentre, come Seconda Lettura ci è donato uno dei testi più conosciuti dell’Epistolario paolino, il cosiddetto inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2,6-11). In esso Paolo, facendosi voce della tradizione della chiesa delle origini, contempla in Gesù Cristo il Figlio di Dio che, facendosi uomo, accoglie la morte di croce, ricevendo dal Padre, per la sua obbedienza, la signoria universale, nella Resurrezione.
L’insegnamento che la liturgia ci dona appare ben chiaro: la sofferenza che il giusto sostiene, offrendola a Dio (Prima Lettura) è un itinerario di maturazione nella fede che permea la vita. In esso lo Spirito ci porta a vivere e testimoniare, come Gesù, la relazione filiale con il Padre (Vangelo), sapendo che la gloria segue sempre l’abbandono confidente e al pianto la gioia senza fine della vita nuova (Seconda Lettura).

Entrare nei sentimenti del Cuore del Signore

Il brano evangelico che la liturgia ci offre oggi (cf. Lc 22,14-23,56) è il cuore del mistero della nostra fede, nucleo essenziale dell’annuncio della Chiesa. La morte e resurrezione di Cristo rappresenta, infatti, la porta attraverso cui ogni discepolo è invitato a passare, per accogliere la vita di Dio e lasciarsi trasformare dal suo amore. In realtà, dovremmo leggere e meditare la Passione di Gesù non solo una volta all’anno, ma continuamente per avere dinanzi agli occhi del nostro cuore l’esempio di Cristo, lasciando allo Spirito la possibilità di infondere in noi i suoi stessi sentimenti di obbedienza al Padre e di servizio d’amore ai fratelli. “I tesori insostituibili del Cuore di Gesù – afferma papa Francesco – sono due: il Padre e noi. Le sue giornate trascorrevano tra la preghiera al Padre e l’incontro con la gente” e questo lo vediamo anche negli ultimi momenti della sua vita terrena del Nazareno, quando, sulla croce, sospeso tra cielo e terra, ama il Padre fino alla fine e gli uomini fino al dono totale di se stesso. Il racconto della Passione secondo Luca, snodandosi, dal cenacolo alla croce, ci porta a penetrare nel cuore del Redentore e comprendere come l’amore sia il senso e la forza del suo sacrificio, per accogliere dalle labbra del Crocifisso il Soffio di vita nuova.

Per la nostra riflessione, dell’intero racconto della Passione del Signore (cf. Lc 22,14-23,56), prendiamo la parte centrale, che possiamo facilmente dividere in più scene: nella prima, leggiamo della crocifissione e della preghiera di Gesù al Padre (vv. 35-38); nella seconda, il dialogo con il buon ladrone (vv. 39-43); nella terza, dell’agonia e della morte di Gesù in croce (vv. 44-46).

Le ultime parole di Gesù dalla croce

Ci troviamo a Gerusalemme, a ridosso delle celebrazioni pasquali. Il viaggio del Signore, insieme con i discepoli (cf. Lc 9,51-19,27), è giunto al suo compimento ed ora, nella città santa, cuore ed orgoglio della fede d’Israele, il Cristo testimonia, con il sacrificio della vita, il suo essere Figlio di Dio, rivelatore del suo volto del Padre. La pericope da noi scelta (cf. Lc 23,35-46) lo mostra sul Golgota, il luogo del Cranio, così come indicato dalla toponomastica ebraica, dov’è stato inchiodato alla croce. Appunta l’Evangelista “Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra” (v. 33). La prosa è asciutta, secondo lo stile dell’autore, quasi a mettere il lettore dinanzi al tragico spettacolo che potevano vedere coloro che erano presenti alla scena. A bene pensare, anche nella morte, Gesù dimostra la solidarietà e la cura verso i peccatori. Colui che chiamò Levi il pubblicano e accolse il suo invito a pranzo (cf. Lc 5,27-32), che scelse di entrare nella casa di Zaccheo, per donargli salvezza (cf. Lc 19,1-10), anche sul patibolo dove consegnerà lo spirito suo continua ad accogliere i peccatori, a stare con loro (cf. Lc 15,2). È bello contemplare la povertà di Cristo che è solidarietà con gli esclusi della società. Si tratta della stesa dinamica, identica scelta, a Betlemme come a Gerusalemme, nella greppia bambino e sulla croce, condannato come un bestemmiatore. I carnefici non si rendono conto che hanno concesso a Gesù di stare lì dove Egli ha sempre scelto e voluto stare, dalla parte degli ultimi. Il Signore è al centro del due malfattori, non per dividere, ma per unire, non per gridare vendetta, ma per riconciliare, il suo desiderio è perdonare, non fomentare l’odio ed il rancore, per quanto gli è stato ingiustamente inflitto. Essere presenza di riconciliazione, di perdono e di pace è questo che fa Gesù, dalla croce. Il dolore non lo chiude agli altri, la sofferenza non lo conduce a ripiegarsi su di sé, se così fosse il suo sarebbe egoismo sterile, non offerta volontaria della vita degli uomini, che nasce dalla sua consegna. Gesù sceglie di non chiudersi, vuole non lasciarsi prostrare dall’odio e dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla cattiveria. In una parola, Cristo reagisce al dolore e al soffrire, non ribellandosi, non chiedendo al Padre di essere liberato dalla morte, ma permettendo all’amore che brucia nel suo cuore di spazzare via l’amarezza della croce e di far fiorire la potenza della vita. Così facendo, quel luogo di morte diventa il giardino, nel quale rifiorisce la vita, per la grazia del perdono.

Gesù non ha paura della croce. Egli che aveva detto ai discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23), è pronto a compiere la volontà del Padre, sino alla fine. Non si ritrae, infatti, quando nell’orto del Getsemani vengono a catturarlo, al seguito di Giuda né si ribella quando Pilato decreta la sua morte. “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). Come in Lui si realizzano le antiche Scritture e diventa concreto l’amore del Padre per ogni creatura, così in Lui diventa vita la sua stessa parola “a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica” (Lc 6,27-29). Gesù reagisce alla violenza amando, offrendo all’uomo un surplus di amore. Proprio quando il corpo, piagato in ogni suo membro, è prostrato ed incapace di reagire, perché mancano le forze – la tradizione della Chiesa ha immaginato le tre cadute di Gesù, sotto il pesante legno della croce – il suo cuore non teme, anzi, ama di più, con maggiore trasporto, con audacia indescrivibile, con un coraggio sovrumano. Dalle labbra del Crocifisso possiamo immaginare di ascoltare le parole del salmista “Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me si scatena una guerra, anche allora ho fiducia” (Sal 27,3).

È l’amore che sostiene Gesù, l’amore che il Padre nutre per Lui da sempre e che nutrirà per sempre, l’amore del Padre è la forza divina dello Spirito, che, scesa come balsamo sul suo capo nel battesimo, non lo abbandona mai, perché lo Spirito, nella vita di Gesù, è presenza divina che scende e rimane (cf. Gv 1,32), senza lasciarlo mai solo. Amore forte più della morte è quello del Padre, per il Figlio in tutto obbediente, amore incrollabile, che rompe il silenzio apparente del sentirsi abbandonato, per diventare più vero e reale dei chiodi che lo fissano al legno, incendio d’amore che consuma Gesù come un olocausto, perché, prima ancora della morte fisica, Gesù nel suo corpo, è arso d’amore, muore d’amore, è malato d’amore per le sue creature (Ct 2,5). I battiti del suo cuore superano di gran lunga il rumore martellante dei carnefici che lo inchiodano, perché a tenerlo alla croce è il desiderio di amare il Padre e gli uomini, congiungendo in se stesso Cielo e terra, facendo la pace tra Dio e gli uomini, perché chi ama vuole ed opera perché la persona amata abbia il meglio di quanto c’è e per l’uomo nulla è desiderabile più dell’amore del cuore del Padre. Proprio l’amore divino che lo consuma e che a più riprese ha rivelato agli uomini, nelle parole e nei miracoli, negli sguardi e nei silenzi, lo porta ora a trasformare dall’interno la sofferenza in luogo di pace e di riconciliazione. Chi ama trova in sé la forza di trasformare anche il dolore, intravedendo il bene che dal sacrificio della propria volontà ne avrà la persona amata. Così anche Gesù, il suo sguardo vede al di là dell’orizzonte che tutti percepiscono, oltre la sofferenza il dolore e la morte e, nell’amore riesce a dare un senso al suo soffrire. Dare un senso alla sofferenza, è questo che più ci prostra nel dolore, quando non vediamo strade di fuga, nella solitudine e nella prostrazione di un cuore che è in pena e di un corpo che si ribella. Gesù, come sempre ha fatto durante la sua vita, consegna il suo dolore, gli spasimi della sua croce, all’amore del Padre e nella consegna, lasciando tutto nelle mani di Dio, trova il senso di ogni realtà, intravedendo la luce, ravvisando un orizzonte di vita, oltre la morte.

Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (v. 34) è la voce di Cristo, parole che hanno una direzione diversa, rispetto a quelle di beffa e di insulto, che rendono squallida la scena della crocifissione. Ci si attende altro dalla bocca di un condannato, ancor di più se è ingiusta la pena che gli è stata inflitta. Non così Gesù, per il quale valgono le parole dell’apostolo Pietro “egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,22-23). Così facendo, il Crocifisso realizza la parola del profeta Osea “Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. […] Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os 11, 7.8b-9). La croce diviene l’esegesi di tutte le parole del Vangelo, perché lo Spirito scolpisce nella sua viva e nuda carne ciò che il Signore ha detto, nel suo insegnamento. Ogni parola della Scrittura è sintetizzata nel Crocifisso. Veramente Egli è la Parola fatta carne, la Parola di Dio consegnata nelle mani degli uomini. Le parole di Gesù sulla croce hanno una direzione doppia, sono rivolte ora a Dio ora agli uomini. Non potrebbe essere diversamente, visto che tutta la vita del Signore è orientata ad unire ciò che era diviso. Dicendo “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (v. 34), il Maestro parla con il Padre, continuando quell’intimo colloquio da Lui vissuto e nutrito, durante la sua vita terrena. Si tratta di parole tutt’altro che semplici da comprendere. Esse, infatti, aprono l’abisso del cuore misericordioso del Signore crocifisso, portandoci a sporgerci sul pozzo senza fondo del suo animo. Sorseggiamo dalle labbra di Gesù queste ultime sue parole, lasciamole scendere nel cuore nostro, perché, ruminandole con cura amorosa, facciano nascere in noi il desiderio di chiedere della conversione e della vita nuova.

La gioia di avere Dio come nostro Padre

La preghiera di Gesù sulla croce inizia con un vocativo, affettuoso e tenero, intimo e familiare. Egli si rivolge a Dio, chiamandolo semplicemente “Padre”, con la confidenza che Egli stesso aveva insegnato ai discepoli (cf. Lc 10,21). Ora, sulla croce, non smette di amarlo, di rivolgersi a Lui con affetto, di abbandonarsi al tuo tenero e dolcissimo abbraccio. Il dolore lo consuma nel corpo, ma l’animo suo è saldo; la sofferenza fiacca le sue membra e le sue ossa si possono quasi ad una ad una contare, ma il suo cuore è la casa costruita sulla roccia della parola di Dio, non vacilla, è stabile per sempre. La sofferenza che porta gli uomini all’abbattimento, ha in Cristo l’effetto contrario, perché lo conduce a rivolgersi al Padre, con un trasporto ancor più profondo. Senza sprecare parole, “Padre” Egli dice e, dicendolo, si sente Figlio e, pur nell’atrocità del supplizio, conserva, vuole, chiede la relazione filiale con il Padre. Tutto è venuto meno, anche i discepoli, che hanno condiviso con Lui le gioie e le fatiche dell’annuncio, si sono dileguati, dinanzi alla morte, ma il Padre è tutto per Lui, lo è stato sempre e anche ora, la sua luce lo rischiara, la sua presenza lo pacifica, il suo amore riempie di senso obbediente e amoroso la sua offerta cruenta. Aveva confidato ai suoi – è il Discepolo amato a narrarlo – “Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32). Sì, ora è giunto il momento della resa dei conti. “Padre” Egli dice, come un giorno Isacco ad Abramo, salendo sul monte (Gen 22,7) e la sua voce, come quella del figlio di Sara, il suo chiamarlo, invocarlo, supplicarlo, è proprio di un figlio, che soffre e dinanzi al quale il Padre non può rimanere insensibile, inerte. Il silenzio è il linguaggio di Abramo che ama il suo diletto più di se stesso, luogo dell’amore che il Padre riserva per il Figlio, che ancor più di prima è tutta la sua compiacenza. “Padre” Egli dice, mentre ogni sua membra è carne fatta obbedienza; “Padre” Egli invoca, mentre, ogni parte del suo candido corpo è sfigurata dagli atroci flagelli, ingiustamente a Lui inflitti. Flebile è la sua voce, che rompe le grida di orrore e rivalsa, forte è l’amore che si imprime nel timbro del suo pregare. Nella sua riconosciamo la voce del dodicenne Fanciullo che a Gerusalemme, non visto dai suoi, si occupa delle cose del Padre; in quell’Abbà che scuote la terra ed apre i cieli c’è il silenzio riverberante del Giordano, dove il Nazareno sentì su di Lui tutta la compiacenza del Padre; in quel suo grido, che non conosce sfida o ricatto, né ira e lamento, Gesù si manifesta Figlio che tutto riceve dal Padre, come puro dono del suo amore infinito. Egli bussa, chiede, cerca, sapendo di non restare deluso. Le sue mani sono vuote ed aperte, come un povero alla mano del suo signore. “Padre” Egli dice. Gli hanno tolto tutto, perfino la tunica e ora, nudo, sul nudo legno, è ricco, infinitamente ricco, più di ogni uomo sulla terra, ricco senza nessun confronto umano possibile, ricco dell’unica cosa che in cielo ed in terra possa veramente valere: il Padre, suo Padre. Nulla e nessuno potrà mai strappargli, la certezza di essere amato dal Padre, né la ferocia degli uomini, né il ferro delle percosse, né l’indifferenza degli uomini, né i dolori che lo prostrano fino alla morte. È come se Gesù stesse dicendo:

Solo te posso chiamare, solo in te posso confidare, tu sei il mio tutto, l’unica cosa che ha senso per me è il tuo nome. Dire “Padre” che non richiama il vuoto, come altre parole che, pur se pronuncio ora, non richiamano, se non realtà passate. Se ora dico “discepolo”, questo nome sembra solo un ricordo, ma tu no, il tuo nome ha un senso, il tuo invocarti, non è parola inutile. Tu, invece, sei la presenza, unica e sola, fondante e stabile, assoluta ed eterna. Chiamandoti, non ti chiedo di schiodarmi da questa croce, né di manifestarti, con segni prodigiosi, ma di sentire come io pronuncio il tuo nome, dolce più del miele per me, che sazia il mio desiderio di amore. Chiamarti è sapere che tu sei mio Padre ed io sono tuo Figlio, che tutto è passato, ma che la relazione con te non verrà mai meno, perché la tua alleanza dura per sempre.

Le parole nostre sono fiato inutile dinanzi alla Parola che parla e si rivolge al Padre. Solo per grazia possiamo entrare in questo roveto ardente di divina carità. È Gesù stesso a dirlo: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,27). Cristo ci apre il suo cuore, non solo perché possiamo scorgerne le profondità, ma soprattutto per vivere la stessa bellezza del rapporto con Dio, che ci porta a rendere carne l’amore.

Dopo aver invocato il Padre, Gesù aggiunge “perdona loro”. Per chi ha dimestichezza con i Vangeli, non stupisce questa richiesta. Nel cuore del Signore non c’è posto per l’egoismo e, nella sua vita, non ha mai cercato la sua gloria. Così anche ora, il suo pensiero è per gli uomini. Li ama a tal punto che la loro gioia è più importante della sua stessa vita, il loro riscatto agli occhi del Padre primario rispetto alla sua personale salvezza. Per questo dice “Padre, perdona loro”. Dimentica se stesso, come, facendosi uomo non ritenne un bene di cui appropriarsi, la somiglianza con Dio, così ora non considera la sua vita un bene necessario, al pensiero che gli uomini sono lontani da Dio. Pensare agli altri, vivere per loro, ricercare il loro bene, non darsi tregua per assicurargli un futuro migliore è quanto Gesù ha vissuto sempre. Il suo chiedere perdono mostra che Lui già li ha perdonati, visto che non avrebbe senso, in caso contrario, la sua richiesta. È come se Gesù chiedesse al Padre di rettificare un atto che Egli stesso ha già compiuto, porgendo l’altra guancia e non imputando agli uomini le loro colpe. Gesù è Dio e di umano ha la natura, non la persona ed, in quanto Dio, manifesta il suo volto di misericordia e di tenerezza, di bontà e di pazienza, perché “Dio è amore” (1Gv 4, 8.16), per essenza, misericordia per scelta, effusione copiosa di tenerezza per natura, bontà e pazienza è il Signore. Gesù non può non essere misericordioso, non può non perdonare, perché è la sua natura l’amore, sua essenza il perdonare ed usare misericordia nei riguardi degli uomini, non è in Lui un impegno oneroso farci grazia, perché Egli è la grazia che non conosce confini. Per questo, sulle labbra di Gesù fiorisce il perdono, non la bestemmia, l’amore, mai l’odio, la comprensione, non la violenza, la giustificazione, mai l’accusa, il sorriso di chi accoglie, non il ghigno di chi giudica e condanna con asprezza. Egli si rivolge al Padre, con la tenerezza di sempre, l’abbandono abituale, la fiducia filiale. Se ripetiamo anche noi più volte la preghiera rivolta a Dio, le parole del Signore crocifisso donano pace e fanno scendere la serenità nel cuore in pena. “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Parole controcorrente su un monte che vede il trionfo della violenza che il potente di turno impone, il regno dell’ingiustizia che sbaraglia la verità, la legge del sopruso che accontenta la folla, sempre instabile e alla ricerca di un capro espiatorio, su cui riversare la propria rabbia. “Tra le loro malvagità continui la mia preghiera” (Sal 141,5), sembra che Gesù sussurri, con la sua voce orante. La preghiera nella tentazione – è il caso del Getsemani – non è semplice, ma ancora più dura è elevare al Cielo la propria voce, quando imperversa la guerra e le tribolazione, con una ferocia inaudita, si abbattono sul giusto e lo prostrano.

La preghiera di intercessione – e quella di Gesù che domanda al Padre il perdono per i suoi carnefici lo è – mostra la capacità empatica dell’orante. Gesù, infatti, rivolgendosi a Dio, entra nella situazione in cui si trovano gli uomini, analizza il loro modo di percepire e guardare la realtà, non giudica i suoi avversari per la pena che gli stanno infliggendo, ma cerca di capire il loro cuore. In questo vediamo la misericordia di Dio nei nostri riguardi. Non attua subito quell’atteggiamento di condanna, ma vuole prima di tutto capire, comprendere i sentimenti che li hanno mossi a quel comportamento aberrante. Questo non significa giustificarli, ma semplicemente prendere in considerazione le intenzioni che li stanno animando. Per questo può dire “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Gesù comprende che i suoi carnefici non hanno colpa, la ferocia della loro violenza è animata dall’incapacità di aprirsi all’amore che Dio ha per loro. “Non sanno quello che fanno” Egli dice e, dicendolo, sembra scusarli, fermare il braccio della vendetta di Dio, della punizione che meritano, per le colpe commesse. L’ignoranza è un’attenuante per il loro crimine contro il Giusto.
Se riuscissimo anche noi a fermarci, frenando i giudizi affrettati, così da pensare a quanto l’altro si porta nel cuore, ciò che la sua mente conserva e rimugina! Se riuscissimo ad imparare che l’apparenza spesso inganna e che il perdono non lo si merita, ma è il puro dono di chi ama e cerca il vero bene dell’altro.

Imparare da Gesù a vivere d’amore sino alla fine

Parole di perdono, quelle rivolte al Padre, parole di salvezza, indirizzate al buon ladrone, parole di consegna, prima di rimettere in Dio lo spirito: così l’evangelista Luca ci narra le ultime frasi pronunciate da Gesù sulla croce. La tradizione, facendo tesoro delle molteplici narrazioni degli Evangelisti, ne trasmetteranno ben sette, tutte sintesi della vita del Maestro, vissuta all’insegna dell’amore oblativo, della misericordia offerta in gratuità. Dobbiamo riscoprire la bellezza del racconto della Passione e confrontarci con il Gesù che il Vangelo ci trasmette. Parole di perdono, di salvezza e di consegna sono quelle che servono alle nostre famiglie, come segno di una Pasqua da vivere quotidianamente. Siamo chiamati ad essere Cirenei della gioia, a patto di guardare il Maestro, per fare come Lui, assecondando lo Spirito, di cui ci ha fatto dono. Solo così la nostra vita avrà i suoi colori e nulla e nessuno potrà mai fermare in noi la corsa dell’amore.




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