CORRISPONDENZA FAMILIARE

di don Silvio Longobardi

“Mio figlio, nato con un danno cerebrale, è un figlio speciale!”

15 Aprile 2019

genitore

All’inizio della Settimana Santa, una storia in cui il dolore diventa sorgente di grazia. Don Silvio: “Ascoltando questa vicenda ho capito ancora meglio che la disabilità inizia dagli occhi. E se è così allora non si vince cambiando le parole ma imparando a guardare con occhi nuovi”.

I giorni della Settimana Santa invitano a contemplare la Croce di Gesù non più come patibolo infame ma come “talamo, trono e altare”, non più come luogo della condanna ma come sorgente di una grazia che, da quel giorno, si riversa abbondantemente su tutta l’umanità. Nella luce di questo evento, unico e irripetibile, tutto acquista un nuovo significato. Tutto viene rivestito di luce. Anche il dolore.

Oggi voglio presentarvi la storia di Nunzia, una mamma che ha voluto raccontare il suo legame speciale con suo figlio Giorgio. Ascoltando questa vicenda ho capito ancora meglio che la disabilità inizia dagli occhi: dallo sguardo attonito e deluso dei genitori, dallo sguardo compassionevole dei conoscenti, dallo sguardo indifferente di tutti gli altri. Se inizia dagli occhi, la disabilità non si vince cambiando le parole ma imparando a guardare con occhi nuovi.

Apro una breve parentesi. Un dettaglio di cronaca che certamente è sfuggito: “Rifiutata dalla Nuova Zelanda perché ha sindrome di Down”. Così titola un quotidiano italiano. Grazie ad un’offerta di lavoro, una famiglia inglese ha chiesto e ottenuto il visto per entrare nel Paese. Tutti meno uno: una ragazza con la sindrome di Down di 15 anni. A giudizio della commissione che deve valutare gli ingressi la giovane “mostra un inaccettabile standard di salute”. Per lo Stato le persone affette da disabilità non solo sono improduttive ma rappresentano un costo per la collettività, sono perciò un peso. Se questo è il contesto sociale è chiaro che una famiglia normale, cioè sana di mente ma non particolarmente coraggiosa né motivata da forti ideali, viene sospinta a praticare l’aborto. In fin dei conti, appare la soluzione più ragionevole. Se questo è il contesto, un adulto che vive questa condizione, sentirà il bisogno di togliersi di mezzo. Nei prossimi anni le domande di suicidio assistito aumenteranno a dismisura. E la società dell’ipocrisia, tirando un sospiro di sollievo, dirà con soddisfazione che la Legge ha risposto ad una legittima esigenza.

Nunzia, la protagonista della nostra storia, non la pensa così. Quando ha partorito Giorgio era ancora giovanissima, ha vissuto momenti terribili perché non era preparata ma ha risposto con una carità che solo una mamma può avere. Lei non vedeva in primo piano la disabilità né l’orizzonte problematico che questo comporta. Ai suoi occhi quel bambino era semplicemente un figlio che aveva bisogno, più degli altri, di essere amato. Un figlio si specchia negli occhi dei genitori. Come la madre lo guarda, così egli si guarda. Se la mamma lo guarda con compassione, anch’egli penserà di essere un povero disgraziato, qualcuno che dipende dalla carità altrui. Se percepisce di essere amato, se negli occhi della mamma scopre di essere anzitutto una persona, anch’egli imparerà ad avere coscienza della sua dignità e affronterà la vita con questa consapevolezza. Non potrà far tutto, sarà costretto a riconoscere di avere tanti limiti, ma non penserà mai che la vita sia inutile o un peso. In una vignetta appare un ragazzo su una sedia a rotelle, un altro si avvicina e gli dice: “Handicappato? Diversamente abile?”. Lui risponde: “Semplicemente Francesco”. Ogni persona ha un nome, un volto, un’identità. Questa coscienza la può dare solo lo sguardo di una mamma e di un papà. Se vogliamo che i figli siano speciali, dobbiamo perciò chiedere genitori speciali. Genitori come Nunzia, la storia che qui raccontiamo. Lascio a lei la parola. Ed è quella decisiva. Ma ricordiamo che tutti siamo chiamati a fare la nostra parte. Una storia come tante, troppe, fatta di legittimi interrogativi che un genitore si pone davanti alla disabilità del proprio figlio. Questa è quella di una mamma e del suo modo di intendere e gestire, col massimo dell’amore, la disabilità di suo figlio.

Leggi anche: Cosa dire a una coppia che ha un figlio con sindrome di Down?

Speciale. Mio figlio è un bambino speciale. Forse lo pensano tutte le mamme dei loro figli. Me ne rendo conto. Ma ora so che le cose che Giorgio non riesce a fare e quelle che riesce a fare più e meglio di noi, sono proprio le caratteristiche che lo rendono unico. Quando era nella mia pancia, spesso gli parlavo. Immaginavo con lui come sarebbe stato. Cosa sarebbe diventato da grande. Che forma avrebbero avuto i suoi occhi. Quale luce, il suo sorriso. Mi sono immaginata tante volte di vederlo camminare insieme a me. Mano nella mano. Fino a quando non sarebbe stato in grado di proseguire da solo. Verso la vita. Allora la mia mano, di carne, avrebbe lasciato il posto alla mano immaginaria. Invisibile. Ma sempre stretta alla sua…

Speciale. Ci ho messo un po’ di tempo a capirlo. Quando mi hanno detto che mio figlio aveva un danno cerebrale con esiti sulla funzionalità motoria, mi ricordo che quasi impazzivo. Non capivo. Improvvisamente mi sembrava di non avere un corpo. Che tutto intorno avesse un peso così grande che il mio fisico non era in grado di sostenerlo. Come se, improvvisamente, il corpo non avesse più consistenza. Dallo stato solido allo stato liquido. Poche parole, pronunciate con l’enfasi del carico del peso che portavano. E il passaggio di stato.

Speciale, mi hanno detto. Sarà un bambino speciale. Non sono stata in grado di capire subito quanta forza possa abitare dentro un corpo quando un figlio ha bisogno di te. E quanto potente possa essere un amore, capace di esuberare i limiti del possibile e di scatenare le forze più incontrollabili che ciascuno ha dentro di sé. Credo di essere nata insieme a mio figlio. Giorgio ha tirato fuori delle cose di me che non sapevo di avere. Giorgio non è la mia ragione di vita. È colui per il quale e grazie al quale io sono…

Speciale. È così mio figlio. Solo speciale. A volte, quando incrocio gli sguardi delle persone, mi capita di scorgere nei loro occhi il dispiacere. Riesco a scorgere il loro tormento. A volte guardano me con ammirazione. Se io, tutte le volte, avessi il potere di verbalizzare i loro pensieri, sono certa che sentirei parole che non rispecchiano la nostra condizione. Nei loro occhi, spesso, leggo la disabilità. Mi diverto a indovinarli, i pensieri di queste persone che guardano me e mio figlio. Che brava mamma! Quanta forza! Chissà quanto soffrirà! Se fosse successo a me, non credo che ce l’avrei fatta! E io, ogni volta, vorrei poter dire a queste persone che non sanno che il Signore assegna a tutti la stessa capacità di sopportare la vita. Semplicemente, qualcuno è costretto a misurarsi ogni giorno, con quella capacità. Sono più fortunati di me, tutti loro? Non lo so. So solo che a volte possono dimenticarsi che esistono delle difficoltà contro cui bisogna lottare. Ma io, quando sorrido, posso farlo con più consapevolezza.

È speciale Giorgio. È come tutti gli altri. È speciale come loro, non di più. Non ha superpoteri. È unico. Ha una dolcezza fuori dal comune. Una forza incredibile. È lui che mi ha insegnato a sorridere. È lui che tiene per mano me. È lui che sa reagire e spiegarmi che siamo solo noi adulti a vedere la disabilità. È un bambino felice. E la sua felicità – piena, autentica – è l’ossigeno della mia vita. Negli occhi dei bambini vedevo con chiarezza il futuro di Giorgio; un bimbo comune, con altre capacità. Un bimbo che sarà un ragazzo, poi un uomo. Fidanzato, marito, amico, e comunque qualcuno a cui non si potrà non volere bene. Mi sono immaginata tante volte di vederlo camminare insieme a me. Mano nella mano. Verso la vita. Non so fino a che punto sarà in grado di proseguire da solo. È vero. Non abbiamo mai camminato, mano nella mano, io e mio figlio. Ma abbiamo vissuto. E lo abbiamo fatto mano nella mano. E così vivremo, per sempre. Con la mia mano stretta alla sua”.

Nunzia

 




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