Domenica di Pasqua – Anno C – 21 aprile 2019

Abbiamo bisogno della potenza del Risorto!

di fra Vincenzo Ippolito

Quante volte trasciniamo i nostri rapporti e i dialoghi sono più sguardi tra muti, che condivisioni fatte a cuore aperto, perché non vogliamo esporci, così da evitare inutili battaglie, dalle quali usciamo sempre feriti a morte dalle parole dell’altro/a. La nostra vita può e deve fermentare, se accogliamo Gesù.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 5, 6b-8)
Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova.
Fratelli, non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete àzzimi.
E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con àzzimi di sincerità e di verità.

 

Celebriamo oggi la Pasqua del Signore, il cuore di tutto l’anno liturgico. Abbiamo camminato nel deserto quaresimale ed ora, entriamo esultanti, al seguito di Cristo, nella terra promessa, dove il suo amore ci nutre, la sua mano ci guida, la sua presenza ci rende “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9). La liturgia della Parola di questo giorno santo celebra la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte e, al tempo stesso, ci invita a fare spazio in noi e tra noi alla vita nuova del risorto. La Prima Lettura è tratta dal Libro degli Atti degli Apostoli, che guiderà la nostra riflessione, sia nella liturgia festiva che feriale, durante l’intero Tempo pasquale. Il brano proposto (cf. At 10,34a.37-43) presenta la testimonianza di Pietro che, nella casa di Cornelio, annuncia la resurrezione del Signore, chiamando alla fede coloro che ascoltano la sua predicazione. Come Seconda Lettura si può scegliere tra un brano della Lettera ai Colossesi (3,1-4) e un altro della Prima Lettera ai Corinzi (5,6b-8) – su quest’ultima noi ci fermeremo – entrambi incentrati sulla Pasqua di Cristo, che determina, nella vita del credente, un profondo cambiamento di rotta. Il Vangelo (cf. Gv 20,1-9) ci offre, invece, l’esperienza del sepolcro vuoto, prima di Maria di Magdala e poi di Pietro e del Discepolo amato, corsi nel luogo della sepoltura, dopo l’annuncio sconvolgente della donna.
La Pasqua di Gesù dona ad ogni discepolo la grazia della trasformazione, per la potenza dello Spirito Santo, che ha fatto passare il Crocifisso dalla morte alla vita. Come i primi testimoni (Vangelo), che divennero annunciatori con la vita della resurrezione del Signore (Prima Lettura), anche noi siamo chiamati a lasciarci rinnovare nel cuore (Seconda lettura), per la grazia dello Spirito che il Risorto ci dona.

Guardare il male senza paura

La liturgia odierna ci dona di leggere e meditare, come Seconda Lettura, un brano tratto dalla Prima Lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo. Stando al racconto degli Atti degli Apostoli, Paolo giunge a Corinto, dopo l’evangelizzazione della Macedonia e, coadiuvato da Sila e Timoteo (cf. Ts 3,2), vi rimase circa un anno e mezzo, per poi ripartire alla volta di Efeso. Per guidare le sue comunità, Paolo oltre ad inviare i suoi collaboratori, era solito inviare delle Lettere per consolidare nelle chiese la predicazione apostolica ricevuta oralmente, spronando i credenti a rispondere generosamente alle esigenze della vocazione cristiana. È quello che capita anche con i Corinzi, a cui l’Apostolo indirizza due lunghe lettere, nella quali cerca di risolvere i problemi emergenti tra i credenti e di far crescere la comunione tra i suoi membri.

Il nostro brano (cf. 1Cor 5,6b-8) è tratto dalla prima sezione dell’Epistola (1Cor. 1,10-6,20), nella quale l’Apostolo, dopo aver richiamato i Corinzi a superare le divisioni, presenti nella comunità (cf. 1Cor 1,10-4,21), interviene su alcuni gravi abusi, che seminano scandalo e sconcerto tra i credenti (cf. 1Cor 5-6). Come le disgregazioni si combattono guardando Gesù crocifisso e lasciando che la parola della croce determini la trasformazione del cuore, attraverso la predicazione della Chiesa, così, sembra dire l’Apostolo, è possibile guarire dal mistero del male che ci attanaglia, a livello personale e comunitario, permettendo alla grazia del Risorto di agire in noi con la sua potenza creatrice. Da quanto leggiamo, ci rendiamo conto che Paolo dimostra una notevole capacità, nell’affrontare le difficoltà emergenti, con determinazione ed impegno. Non tace, dinanzi al male che impervia, neppure temporeggia, così da permettere al Nemico di mietere ancor più vittime. Egli è l’immagine riflessa del vignaiolo che taglia e pota, perché la vite porti più frutto (cf. Gv 15,1-2). È importante guardare in faccia il male, chiamarlo per nome, circoscriverlo, nell’analisi, cercando, sotto la luce di Dio, strade per debellarlo e estirparlo, indicando sempre via di riscatto a chi ha scagliato. Nel mistero della sua Pasqua, Gesù ci insegna a chiamare per nome le ingiustizie, i calcoli sinistri del potere umano, le alleanze che si stringono per convenienza, gli abusi dei potenti di turno, che, come i pastori contro cui tuonava il profeta Ezechiele “Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge” (Ez 34,3). Il Padre trasforma in vita e salvezza per il mondo intero, la morte del suo Figlio, obbediente fino al dono di se stesso, ma la croce del Nazareno è dinanzi ai nostri occhi ben irta a ricordarci le ingiuste condanne, il dolore innocente, la sofferenza dei piccoli, l’orrore perpetuato contro i poveri, il grido dei senza voce soffocato nel grembo materno, il pianto muto di chi è deriso nella sua dignità, vilipeso nel suo copro, offeso nelle idee, umiliato per la diversità. Come si può vivere sereni, dinanzi ai piccoli che muoiono di fame, come anestetizzare il cuore, quando le violenza più efferate accadono nelle mura domestiche, come lasciarsi portare dal Stiamo bene noi, stanno bene tutti, sapendo che tante famiglie non arrivano a fine mese e che la famiglia, cellula della società e della Chiesa di Cristo, costata l’effusione del suo prezioso sangue, è barattata, non considerata né difesa, mercificata ed equiparata a relazioni che dell’amore hanno solo un’ombra e della complementarietà sponsale una pallida illusione. “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo – scriveva Blaise Pascal – non bisogna dormire durante questo tempo” (Pensieri, 553). La croce di Gesù parla del dolore che solo il Padre ascolta ed accoglie, del soffrire che solo Dio, nella sua misericordia, consola, guarisce e trasforma. Il male è presente in noi e tra noi, ci consuma, disumanizzandoci, ci porta ad assecondare le nostre passioni, a dire di sì alle voce interiori che ci illudono di trovare la gioia, soddisfando desideri parziali, sogni superficiali, pensieri che non affondano nelle profonde regioni del cuore nostro, dove risplende il nostro vero essere, il senso del nostro vivere, la ragione del nostro esistere, essere immagine e somiglianza di Dio.

La grazia da chiedere al Signore è di non aver paura del male. È la paura che ci blocca a parlare e denunciare le dinamiche di morte, è il timore di non essere creduti a farci imboccare la strada dell’omertà. Quando non abbiamo il coraggio di combattere, perché il bene prevalga, quando preferiamo vivere nel quietismo e nella pusillanimità, quando parlare ci fa emergere dalla folla senza nome, per vivere con responsabilità la nostra specifica vocazione, allora il Nemico di fiacca, mettendo le briglia alla nostra lingua, impedendoci di dire e fare la verità. Paolo, invece, guarda ed accusa, interviene e corregge, non per seminare l’orrore o sedersi in tribunale ad accusare e a dispensare una legge di morte, ma a spingere a riprendere il cammino con gioia, lasciando che la potenza del Risorto operi meraviglie di grazia. Scrivendo ai cristiani di Roma lo dirà “La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,9-10). Detestare il male, attaccarsi al bene: è questo il programma di vita, per il discepolo di Gesù che guarda senza paura alla croce del Maestro e sa che l’amore dovrà condurlo alla sua stessa offerta, per amore del Padre e degli uomini. Il male, infatti, non ha l’ultima parola, se Dio è con noi, la cattiveria non può prevalere in eterno, se Cristo è il nostro pastore, perché sarà Lui, infatti, a guidarci alle sorgenti della vita. Questa speranza, la certezza che nulla è perduto, per chi segue l’Agnello immolato per noi, conduce Paolo a intervenire e a correggere gli abusi, presenti a Corinto, donando indicazioni concrete per venire fuori dalla notte del male. La chiarezza che l’Apostolo presenta va di pari passo con la misericordia, la condanna del male, si sposa con la capacità di tendere la mano verso il reo, perché si converta e viva. Non dobbiamo sperimentare questo anche nelle nostre famiglie e comunità? Ben venga il dialogo sincero, ma con toni pacati e rispettosi; le dinamiche di male vanno sì scovate e mostrate, ma con misericordia ed amore, senza mai condannare e poi, una volta mostrate è necessario aiutarsi, per uscire dalla notte dei rapporti e rivivere nella luce del risorto. A che serve accusarsi, se poi non ci si vuole rialzarsi ed aiutarsi nel ricominciare? Paolo ci insegna che ricominciare è possibile, solo se ascoltiamo parole di speranza, che riaccendono nel cuore il desiderio di costruire il bene tra noi.

La potenza del lievito

All’analisi della situazione comunitaria, che porta Paolo ad intervenire “nel nome del Signore nostro Gesù Cristo” (v. 4) perché colui che ha compiuto il male possa ravvedersi, dopo un periodo di esclusione dalla comunità, segue il caldo invito dell’Apostolo, perché si continui a progredire nel bene, assecondando la potenza del Signore, che abita nel cuore dei credenti: “Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?” (v. 6). L’esortazione, fatta sotto forma di domanda, vuol portare gli stessi Corinzi a rispondere, quasi scuotendosi da quel torpore in cui la sopportazione passiva del male, presente nella comunità, potrebbe condurli. L’esempio del lievito, tratto dalla vita quotidiana, è anche parte dell’insegnamento di Gesù che, trasmesso oralmente, confluirà nei racconti evangelici, sia in positivo (“Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata” Mt 13,33), come anche in negativo (“Guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei” Mt 16,11).
Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta, ricordarlo vuol dire tenere a mente che il criterio per la trasformazione della storia, per chi segue Gesù, è la piccolezza e l’umiltà, il nascondimento ed il silenzio. Quel “poco lievito” di cui parla l’Apostolo ricorda il granello di “senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami” (Mt 13,31-32). È la piccolezza a salvarci, l’umiltà a darci forza, il nascondimento a farci vivere, il silenzio a farci parlare. La Pasqua di Gesù ricorda che il Padre, l’unico a vedere nel segreto (cf. Mt 6, 4.6.18), lì ricompensa ed effonde la sua grazia, concede il suo amore e guarisce chi è triste e risolleva colui che è spossato e solo nelle ombre della morte. La farina della storia attende di essere fermentata, come il nostro cuore cerca di essere amato, custodito, accolto e compreso, aiutato a battere, con una giusta aritmia, perché non si fermi o soffra per sbalzi repentini e muoia. Abbiamo in noi il lievito di Cristo, la potenza del suo Santo Spirito, dono del battesimo, cosa aspettiamo per lasciarla operare in noi e tra noi? Tutta la nostra vita personale e di coppia, familiare e comunitaria può fermentare, riprendere vitalità, perché attendere invano? Abbiamo bisogno della potenza del Risorto! Quante volte trasciniamo i nostri rapporti e i dialoghi sono più sguardi tra muti, che condivisioni fatte a cuore aperto, perché non vogliamo esporci, così da evitare inutili battaglie, dalle quali usciamo sempre feriti a morte dalle parole dell’altro/a. La nostra vita può e deve fermentare, se accogliamo Gesù, “la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze” (Fil 3,10).

Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?” scrive l’Apostolo e non vuol dire forse, cosa aspetti a lasciarti invadere dalla potenza del Risorto, perché non lasci che l’amore del Padre si riversi in te, come un giorno nel corpo del suo Figlio, deposto nel sepolcro, come seme caduto in terra? Possibile che tu non conosca – sembra incalzare Paolo – che Gesù è la salvezza, che il suo amore è vita, la sua presenza luce, la sua operosità in te vita nuova e vera, capace di vincere ogni morte? Devi lasciarti fermentare da Cristo! Perché la farina delle tue capacità è ben chiusa nei depositi del tuo cuore e della tua mente? Tira fuori i talenti, perché il Signore, passato attraverso la morte, ti insegni a rinnegare il tuo uso distolto delle energie che vengono da Lui, per trafficare in un bene sempre crescente, la grazia che è capace di trasbordare dal tuo cuore. La pasta della tua vita deve fermentare, lo hai capito oppure devo ripetertelo finché tu non lo comprenda, fino a quando questa verità, scritta nella carne del Risorto, non si imprima nelle fibre del tuo cuore, divenendo il pensiero dei tuoi tanti pensieri? Non ti basta aver visto la croce del Signore, per capire che la vita è vera, l’amore profondo, solo se si dona senza riverse? Una buona volta, metti la tua farina nelle mani del Padre. E se la tua giara è vuota, come per la vedova a cui venne inviato il profeta Elia, non preoccuparti, Dio ha promesso e la sua parola rimane per sempre, Colui che ha nutrito di manna il suo popolo nel deserto, sarà capace di nutrirti di miele dalla roccia e di saziarti con fior di farina. Donagli ciò che hai, come Gesù crocifisso, fosse anche solo la tua morte, fosse anche il tuo peccato, il tuo continuo ribellarti alla grazia, offrilo a Lui, ponilo, con fiducia ed abbandono nelle sue mani, e tutto diverrà vita, fecondato dal suo amore, plasmato dalla sua misericordia.

Fidati di me, grida agli orecchi del tuo cuore il Risorto, dammi il sacco della tua farina ed io, la macinerò muovendo le pale della mia croce, perché, come la mia vita è divenuta pane, nel mulino del Golgota, così la tua nutrirà i fratelli, passata nel crogiolo della sofferenza, accolta con amore. Ti dono il mio lievito, lo stesso che il Padre ha messo nella madia del sepolcro, dove le mie ossa erano state trapassate dai colpi dei carnefici. La mia pasta è fermentata dopo tre giorni ed ora la tua vita attende di essere vitalizzata dall’amore del Padre, dallo Spirito dell’amore che non conosce confini. Ti dono la vitalità del mio amore, riverso in te l’onnipotenza del mio Spirito, la mia grazia, la forza che fece risuscitare Lazzaro e la fanciulla dodicenne, che guarì l’emorroissa e scacciava il male, che liberava gli ossessi e portò il figlio della vedova di Nain a ridestarsi dal sonno della morte, quella stessa potenza, di cui io stesso ho fatto esperienza, nella mia morte, la dono ora a te, ma non in parte, come Eliseo chiedeva che gli venisse concesso lo spirito del suo padre Elia, ma tutta. Sulla croce ho donato tutta la mia vita per te ed ora dono tutta la mia vita risorta a te. Come non ho trattenuta e considerato un bene di cui appropriarmi la mia vita divina, che pur mi apparteneva per natura, come non ho rifiutato di donarti sulla croce la mia vita umana, accolta nel grembo di Maria, mia Madre, così ora mi dono a te, perché tu viva della mia stessa vita nuova, infondo sul tuo corpo, non il balsamo che smorza l’orrore della morte, ma l’olio di letizia, che penetra, donando la vita per sempre. Soffio il mio alito nella valle della tua anima, dove riposano inermi i desideri tuoi, i sogni infranti, dove le opere delle tenebre vincono e la morte regna sovrana, perché rifiorisca nuova la vita. Accogli la mia grazia e attendi, come io i tre giorni, tu il tempo della rinascita, non pretendere che in un attimo tutto cambi, ma aspetta che la grazia fruttifichi a misura proporzionata del tuo progressivo rinnegamento. Io ti renderò creatura nuova, se tu avrai il coraggio di non nascondere la morte, di lasciarti avvolgere dal mio sudario che profuma di vita, se la mia luce carezzerà il tuo volto, asciugando le tue lacrime, sarai veramente risorto con me. “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Ap 1,17-18).

Fare spazio alla grazia

Perché la grazia possa far frutto in noi, è necessario liberare il cuore, purificare l’interno della coppa, perché accolga la potenza della vita. Per questo l’Apostolo dice “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi” (v. 7). In noi, afferma sempre l’Apostolo, c’è il desiderio del bene, non la capacità di attuarlo (cf. Rm 7,19). Per questo togliere vuol dire lasciare operare Dio in noi, dove l’arrendevolezza vuol dire non mancanza di volontà, ma desiderio che sia Cristo ad operare con potenza e a donare la grazia della conversione e del perdono dei peccati. Se Paolo usa il verbo attivo è perché vuol sottolineare che anche noi dobbiamo collaborare fattivamente, per il nostro rinnovamento interiore. La vita ci porta a crollare, ogni qualvolta crediamo di poter fare da soli. Quando siamo convinti che con le nostre forze possiamo tutto, che è nelle nostre capacità l’obbedienza al vero bene che Dio ci propone, sperimentiamo il fallimento e la caduta. Il male che avvertiamo è causato dalla nostra superbia e dalla pretesa di essere forti, dalla volontà di dimostrare chi siamo veramente. Allora il Signore ci guarda con tenerezza, perché sa che siamo vittime di noi stessi, soffriamo, perché incapaci di rinnegare la nostra volontà, senza permettere alla sua grazia di venire in aiuto alla nostra debolezza. Quando rimettiamo nelle mani di Dio ciò che siamo, quando, esausti per le inutili battaglie combattute e perse, lasciamo a Lui la possibilità di essere il nostro unico Signore e Salvatore, ci rendiamo conto che Cristo ci libera prima di tutto dalla pretesa di poter bastare a noi stessi, dalla schiavitù del nostro egoismo, dall’orgoglio che ci attanaglia e dalla superbia che ci divora interiormente, ogni giorno di più. Ed è allora che lo Spirito di conversione e la grazia del perdono dei peccati ci permette di divenire creature nuove e di spostare l’asse delle nostre attese, da noi a Cristo, perché senza di Lui, non possiamo far nulla, la sua grazia vale più della vita, il suo braccio ci salva, la sua destra ci libera dagli assalti del male.

Non bisogna però credere che tutto dipenda soltanto da Dio. Anche a noi è richiesta la determinazione di lasciarlo operare, l’impegno a farlo regnare in noi. Tra noi e Dio si deve creare quell’alleanza amorosa, che, da una parte, ci spinge a riconoscere in Lui il Signore, e, dall’altra, a combattere strenuamente, perché la sua potenza, come nel caso dell’Apostolo, in noi non sia vana (cf. 1Cor ). Per questo Paolo può dire “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi”. La salvezza dipende da Dio, ma anche da noi, insieme con Lui dobbiamo lavorare per vincere il male e far regnare in noi al vita nuova del Signore risorto. Eliminare il vecchio fermento significa che “le cose vecchie sono passate, ecco ne sono venute di nuove”. Dobbiamo riconoscere la grazia di Dio che ci raggiunge, la potenza della vita che abita la nostra morte, senza paura o vergogna, perché Egli getta in fondo al mare i nostri peccati e fa nuove tutte le cose, con il suo amore infinito ed eterno. Il Signore ci chiede di togliere le cose che non ci aiutano, perché fare Pasqua con Cristo significa riconoscere in noi il male e domandare a Dio che ci aiuti a cambiare vita e a convertire il cuore al vero bene che è Lui. Togliere vuol dire potare la pianta della nostra vita, purificare gli affetti e i desideri del cuore nostro, chiedendo al Signore la grazia di condurci a riconoscere il male, per sradicarlo con la forza che viene da Lui. Dio ci vuole come pasta nuova, fermentata dal suo Spirito, vivificata dal suo amore. Il principio della nostra nuova vita deve essere Cristo, il Risorto ed il vivente. È Lui la nostra Pasqua, che ci conduce a celebrarla gioia della vita nuova che da Lui passa a noi, perché anche noi viviamo in novità di vita.

La potenza dell’amore fa nuove tutte le cose e rinnova la vita delle nostre famiglie e comunità. Solo liberandoci del vecchio lievito, della malizia e della perversità, potremo lasciare allo Spirito di renderci uno in Cristo, partecipando alla sua vita e manifestando tra gli uomini, cosa la misericordia del Padre è capace di compiere in quanti si abbandonano a Lui, con la stessa obbedienza amorosa del suo Figlio Gesù.




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