Persecuzione dei cristiani

Da Notre Dame allo Sri Lanka, ma la speranza non muore

mani con croce

(Foto: Rinelle - Shutterstock.com)

di Ida Giangrande

Il Cristo risorto tempestato da schizzi di sangue e il ricordo ancora vivo della croce che illuminava il fondo buio della Cattedrale di Notre Dame: segni di speranza di una fede che nonostante tutto ce la farà.

Attacchi simultanei, stessa uniforme, rivendicazioni orgogliose: questa la ricetta dell’ennesimo bagno di sangue. Mentre si ripulisce l’asfalto dai corpi dilaniati, come sempre scoppiano le polemiche contro chi avrebbe sottovalutato l’allarme, ma alla fine tutto quello che resta è una lista nera da compilare con nomi, cognomi e date di decesso.

Bisogna fare i conti con la mattanza. È un lavoro sporco, ma qualcuno lo deve fare nel ricordo bruciante di un attimo che ti porta via tutto. Ed ecco che dalle rovine più che bollettini e i bilanci emergono le storie spezzate delle vittime degli attacchi terroristici nello Sri Lanka. A partire dal padre che ha dovuto scegliere tra i due figli. Matthew Linsley, 60 anni di Londra. Ha deciso di portare via in braccio prima Daniel suo figlio, 19 anni appena. Era ridotto peggio di Amelie, l’altra figlia che sembrava in condizioni migliori. “Ho detto a una donna di curarsi di lei nel frattempo”, racconta Matthew ed è sceso al piano inferiore, dove intanto erano arrivati i primi soccorsi, urlando: “Salvate mio figlio!”. Ma Daniel non ce l’ha fatta e purtroppo nemmeno Amelie. Tutti erano sfuggiti alla prima esplosione dei sette kamikaze penetrati nell’albergo Shangri-La di Colombo. La seconda però si è portata via sia Daniel che Amelie.

Si sarà accorto di qualcosa il piccolo Zayan Chowdhury? 8 anni, il sorriso degli angeli e la vita palpitante negli occhioni verdi. Era il nipote del cugino della prima ministra bengalese Sheikh Hasina Wazed e anche parente di una parlamentare laburista, Tulip Siddiq. Anche lui è morto allo Shangri-La: stava mangiando con i genitori e i suoi fratelli quando tutto è esploso.

I Fernando, invece, erano a messa, nella chiesa di San Sebastiano a Negombo, a nord della capitale Colombo, dove sono morti 110 innocenti, tra cui papà Rangana, mamma Danadiri, la figlioletta di 6 anni Biola, l’altra piccolina di 4 anni Leona e poi Seth, soltanto undici mesi. Il padre Rangana da bambino portava sempre una Bibbia sotto il braccio, lo raccontano gli amici e i parenti, perché ora tutto quello che resta è il ricordo.

Eppure un segnale di speranza a mio modesto parere c’è. Come non aver notato tra le rovine delle chiese colpite nello Sri Lanka, quella statua della Resurrezione macchiata di sangue che strideva con lo scenario? Uno scenario ancora più triste iscritto nel solco della Santa Pasqua, culmine della fede per i cristiani di ogni dove.

Il bollettino di guerra, tristemente noto, ci dice che è arrivato a circa 359 il bilancio delle vittime, 45 bambini, fra cui anche un neonato di 18 mesi. Ma sono ancora molti quelli che lottano tra la vita e la morte. Le immagini scorrono a raffica in televisione, sui giornali. Ne parlano tutti e riportano sempre le stesse immagini: foto di chi non c’è più, lacrime e urla disperate di chi invece è rimasto. Intorno le macerie di una umanità ridotta a brandelli e lì, in quello scenario infernale, la statua di Gesù risorto, tempestata da schizzi di sangue. Una sintesi perfetta che sembra quasi voler richiamare la croce che brillava tra le fuligginose rovine di Notre Dame. Un segnale di speranza che non dovrebbe lasciarci sorpresi. Dopotutto abbiamo sempre saputo che le “porte degli inferi non prevarranno”.




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