IV Domenica di Pasqua – Anno C – 12 maggio 2019

Dio ci conduce oltre, sempre, oltre la prova, oltre i malintesi, oltre le chiusure

di fra Vincenzo Ippolito

Anche nelle nostre famiglie, non possiamo evitare le difficoltà, ma siamo chiamati a vivere le tribolazioni con fede, sapendo che Dio ci è accanto e misteriosamente conduce la piccola barca della nostra vita personale e familiare, tra i flutti agitate della avverse situazioni.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (7, 9. 14-17)
L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete,
non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».

 

Con la Quarta Domenica di Pasqua siamo a metà strada del nostro itinerario verso la Pentecoste. Alle nostre spalle abbiamo la Resurrezione del Signore, mentre procediamo spediti verso il giorno che segnerà a fuoco i nostri cuori, con il dono dello Spirito Santo, per divenire tra gli uomini annunciatori e testimoni di Cristo.
Se nelle scorse domeniche abbiamo ascoltato e meditato i racconti delle apparizioni del Risorto, da oggi, le pagine evangeliche sono tratte dai discorsi di Gesù prossimo alla Pasqua. La pagina odierna del Vangelo (cf. Gv 10,27-30), infatti, ci presenta Cristo come il buon Pastore. È Lui che le pecore ascoltano e seguono, poiché ne conoscono la voce e sanno di essere custodite dalla sua mano. La Prima Lettura (cf. At 13,14.43-52), invece, racconta la predicazione di Paolo e Barnaba ad Antiochia, dove, rifiutati dai Giudei, si rivolgono ai pagani che, di buon grado, accolgono la parola del Signore. La Seconda Lettura (cf. Ap 7, 9.14-17) continua a donarci le visioni di Giovanni, raccolte nel libro dell’Apocalisse. L’Apostolo ed evangelista descrive la moltitudine immensa dei salvati, che stanno davanti al trono dell’Agnello, dopo aver lavato le loro vesti nel suo sangue.
Il punto nevralgico della liturgia odierna è Cristo Gesù, buon pastore delle nostre anime. È Lui a conoscerci e chiamarci per nome (Vangelo), a custodirci, come la pupilla dell’occhio. Lavati nelle piaghe gloriose dell’Agnello, immolato e in piedi sul trono (Seconda Lettura), cantiamo la gioia di appartenere a Lui, che ci ha tratti dalle tenebre alla luce e tutti attende nel suo Regno, mentre qui in terra serviamo i fratelli, annunciando con franchezza la sua misericordia, perché ogni uomo abbia in abbondanza la vita (Prima Lettura).

Siamo tutti chiamati a santità

Saltando interamente il capitolo sesto – la scorsa domenica abbiamo letto e meditato Ap 5,11-14 – oggi ci vengono proposti cinque versetti del capitolo successivo, il settimo (cf. Ap 7, 9. 14-17). L’autore ispirato, descrivendo la liturgia del cielo alla quale assiste, nota che il numero degli eletti è immenso. Egli, infatti, prima riporta “il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila” (v. 4), per poi aggiungere: “vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (v. 9). Siamo dinanzi alla smisurata stirpe degli eletti, all’incalcolabile universalità della salvezza, che l’Agnello partecipa a coloro che seguono le sue orme. Ascoltando le parole dell’Apostolo, siamo chiamati anche noi a contemplare, con gli occhi del cuore, questa dimora celeste, nella quale il Signore ci ha preceduto, per prepararci un posto. L’abbraccio del Padre raccoglie ogni suo figlio. Egli non vuole che nessuno vada perduto, ma che tutti entrino nella sua casa, per godere della bellezza di vita che si sperimenta nei suoi atri. Raccontandoci la visione celeste, Giovanni ci spinge a considerare l’universale chiamata alla santità e a ripensare il nostro cammino di fede, in vista del compimento futuro che è la partecipazione alla gloria degli eletti. Tutti, infatti, siamo chiamati a riflettere in noi l’immagine di Gesù, il Risorto, il Vivente. Insegna il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium “Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste»(Mt 5,48) […] È dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano” (LG 40). Ciò che l’apostolo Giovanni contempla è il regno dei cieli che noi attendiamo, per il quale combattiamo e ci affanniamo, in terra, che desideriamo raggiungere ed accogliere, come dono di Dio per noi. La moltitudine che il veggente di Patmos contempla è l’assemblea dei beati, della quale il Signore ci vuole rendere partecipi, accendendo nel cuore la nostalgia di vivere già in terra, ciò che Giovanni vede, di pregustare nei nostri rapporti, la beatitudine dell’amicizia e della concordia, riflettendo, come in uno specchio, la pace e l’amore che gli eletti vivono in cielo, dinanzi al trono dell’Agnello.

Dobbiamo riscoprire, nelle nostre famiglie e comunità, la bellezza del cammino di santità, sentire che Dio ci vuole come Lui – “Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo” Lv 11,44 – partecipi del suo stesso amore, infiammati del fuoco vive della carità, che nessuna tempesta umana potrà spegnere, perché partecipazione al roveto ardente del suo Cuore. È importante crescere nella consapevolezza del dono dello Spirito Santo, ricevuto con il battesimo, che è la caparra dell’eternità e, al tempo stesso, consegnarsi, in totale docilità, alla grazia dello Spirito Santo, che ci conforma a Gesù Cristo, l’uomo nuovo e vero, secondo il disegno del Padre. Ogni nostra azione pastorale, ogni intervento educativo, il rapporto di coppia e la relazione con i figli, i nostri incontri in parrocchia e la vita sperimentata ogni giorno, nella complessità delle relazioni non semplici da vivere, devono tendere alla santità, alla vita di Dio in noi. Santità come partecipazione alla vita stessa di Dio; santità come dono del Cristo risorto alla sua Chiesa; santità come riflesso della perfezione della carità del Signore; santità come continuazione della sua missione tra gli uomini; santità come vita dell’amore, donata agli altri come misericordia e perdono; santità come riflesso dell’immagine di Gesù, mite ed umile di cuore, che incanta con la sua bellezza, seduce, con la sua parola, infiamma gli animi, con la sola presenza, guarisce le ferite del cuore, con la sua voce, riscopre l’anelito del Padre, seminato in ogni uomo, spinge a desiderare Dio, a sperimentare il suo amore, a vivere della sua gioia, a partecipare ai fratelli il profumo della sua vita nuova e vera, che vince la morte. La caparra dello Spirito di Gesù, donataci nel battesimo, ci spinge a tenere fisso lo sguardo verso il cuore del Padre, meta di ogni nostro affanno, porto sicuro di ogni tempestosa nostra navigazione, sorgente di quell’amore, che ci riveste della novità di vita del Risorto.

È bello contemplare il mistero della volontà salvifica di Dio Padre nei nostri riguardi. Scrive, infatti, l’Apostolo “[Dio] vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,5). Egli non solo, “non fa preferenza di persone” (Rm 2,11), ma “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Questo significa che, quando pensiamo il regno dei cieli, siamo chiamati a cambiare mentalità, sia perché, insegna Gesù, “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31), sia anche ascoltando che si tratta, secondo la visone di Giovanni, di “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (v. 9). Tutti, senza nessuna esclusione, siamo chiamati ad essere santi, a vivere già in terra la fraternità universale, l’accoglienza incondizionata, l’amore reciproco, riconoscendoci fratelli, figli dello stesso Padre, famiglia dei figli di Dio, dove “non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano” (Rm 10,12). Riscoprire l’universale chiamata alla santità vuol dire impegnarsi, perché nel mondo scompaiano le diseguaglianze tra “nazione, tribù, popolo e lingua”, che si crei e consolidi il desiderio di combattere ed estirpare dal cuore dell’uomo, con la potenza dell’amore, “la globalizzazione dell’indifferenza” e “la cultura dello scarto”. Non si può, infatti, desiderare di vivere in cielo, se già qui in terra non si costruisce il regno di Cristo, dove abita la giustizia e l’amore, la pace e la concordia, la fraternità universale e la cura dei deboli.
Se riuscissimo a vivere proiettati a questa verità esistenziale che ci abita, ad assecondare, l’azione dello Spirito che pone la sua abitazione e dimora in noi, a ricordare che la grazia dei sacramenti, massimamente dell’Eucaristia, nutre la nostra consegna a Dio, perché Egli viva in noi, per mezzo della sua grazia e, progressivamente, prenda tutto di noi, perché la realizzazione piega della creatura sta nel vivere e fra trasparire la relazione vitale con Dio, suo Creatore e Redentore.

Inebriati dal sangue dell’Agnello

Gli eletti, su cui si ferma l’attenzione di Giovanni, “stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani” (v. 9b). A differenza dei “centoquarantaquattromila”, segnati con il sigillo (v. 4), questa moltitudine smisurata è la folla dei martiri. Il brano liturgico lo fa comprendere subito, saltando i vv. 10-13, dove il veggente riporta il loro canto rivolto all’Agnello e l’inizio del dialogo con un anziano, che introduce l’autore nella comprensione della visione. Essi “sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello” (v. 14). In tal modo l’indicazione offertaci, circa la loro postura, l’abito che indossano e quando stringono tra le mani – “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, [… con] rami di palma nelle loro mani” – sta a dire il cammino di fede, che essi hanno compiuto nella loro vita, la partecipazione alla Passione di Cristo, al dono della vita per amore. Nel loro sacrificio fino alla morte, noi abbiamo il riverbero vivente della parola di Gesù “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13), perché “nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,37), che rende conformi al suo Figlio Gesù, coloro che Egli vuole, perché “Tutto è possibile per chi crede” (M 9,23) e si abbandona docilmente all’opera della sua grazia santificante. Il martirio è una grazia, la testimonianza resa a Cristo a prezzo della propria vita è un dono e, al tempo stesso un impegno, un quotidiano esercizio. Difatti, coloro che stanno dinanzi al trono dell’Agnello stringono nelle loro mani le palme, come segno della vittoria e del trionfo di Cristo, ma le loro vesti sono il segno del cammino intrapreso e felicemente compiuto, dell’itinerario di conformazione a Cristo, crocifisso e risorto, Agnello immolato e ritto sul trono. Il candore delle loro vesti è il segno che essi “vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello”. È importante riflettere su questi passaggi, che scandiscono l’itinerario di conformazione degli eletti a “Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra” (Ap 1,5).

Prima di tutto si parla di “grande tribolazione”, che è poi la persecuzione dei cristiani sotto l’imperatore romano Nerone, esempio magniloquente delle vessazioni subite dai discepoli di Gesù, in ogni tempo. Coloro che stanno davanti al trono dell’Agnello e cantano la sua gloria in vesti candide, non hanno evitato la croce, ma l’hanno assunta, con la determinazione amorosa e la volontà obbediente del Cristo, perché il nostro Dio ci vuole uomini e donne veri, non ci toglie la difficoltà, non evita i momenti nei quali, quando ci fidiamo solo delle nostre capacità, cadiamo a terra e avvertiamo il fallimento della nostra vita, la tristezza, per i colpi inflitti al nostro egoismo, ma ci aiuta a risollevarci nella prova, a non soccombere allo scoraggiamento, a non lasciarci vincere dal male, ad accogliere la croce, la morte, l’umiliazione, la mortificazione, lasciando che l’amore, dal di dentro, tolga al dolore, l’amarezza, alla sofferenza la solitudine, al buio il senso del vuoto, alla disperazione la forza dell’angoscia. Il vero seguace di Cristo, sembra dire fra le righe l’autore, non è colui che scappa nella difficoltà e che evita di guardare in faccia la propria fragilità creaturale, il limite proprio ed altrui. Chi ha sentito su di sé lo sguardo di Gesù ed ha ascoltato il suo “Seguimi”, ponendosi alla sua sequela, non può limitare la potenza dell’amore del Maestro che in lui dilaga, frenare la grazia dell’elezione, che porta frutti di conversione e vita nuova, secondo il Vangelo. A somiglianza di Cristo, chi lo segue accoglie la croce e, come il protomartire Stefano (cf. At 7,51ss), segue il Maestro, perdonando i suoi stessi carnefici e consegnando la sua vita, nelle mani del Padre. È la tribolazione la verifica del nostro essere discepoli di Gesù, la difficoltà il banco di prova dell’appartenere a Lui, lo stare nella gabbia dei leone, come Daniele, il segno che ci fidiamo di Dio, il rimanere nella fornace, dove i servi di Nabucodonosor gettarono i tre fanciulli, aumentando la fiamma sette volte, la verifica della nostra totale confidenza in Dio. A bene vedere, il Maestro ci ha ammoniti a non venire meno – “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33) – come nel caso di Pietro, ha pregato per noi.
Anche nelle nostre famiglie, non possiamo evitare le difficoltà, ma siamo chiamati a vivere le tribolazioni con fede, sapendo che Dio ci è accanto e misteriosamente conduce la piccola barca della nostra vita personale e familiare, tra i flutti agitate della avverse situazioni. Dio ci conduce oltre, sempre, oltre la tribolazione, oltre la prova, oltre i malintesi, oltre le chiusure, oltre i silenzi che dicono freddezza e incomprensione, perfino oltre la morte del rapporto. Tante sono le difficoltà che possiamo vivere nelle nostre famiglie, ma siamo chiamati a venirne fuori, ad essere salvati dalla mano di Cristo, strappati dalla sua presa, afferrati dal suo desiderio di farci vivere con Lui, per sempre. Anche noi dobbiamo vivere la “grande tribolazione” – ciascuno ha le proprie – sapendo che la prova è un passaggio obbligatorio, perché la nostra fede cresca, l’abbandono maturi, la confidenza si consolidi, l’amore si rafforzi, la testimonianza del nostro essere cristiani nel mondo diventi più incisiva. Come senza le cadute, un bambino non impara a camminare, così anche noi senza passare attraverso la prova non possiamo dire di essere maturi. Lo ricorda il salmista “Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste; siamo passati per il fuoco e per l’acqua, poi ci hai fatto uscire verso l’abbondanza” (Sal 66,12).

La seconda tappa che Giovanni sottolinea riguardo gli eletti è che “hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello”. Lavare fino al punto da rendere candida la propria anima è l’impegno profuso dai martiri, nella loro vita terrena, incuranti di se stessi e totalmente protesi ad seguire le orme dell’Agnello. E come, ammonisce Geremia, non bisogna andare a cisterne screpolate per attingere acqua, perché si tratta di una fatica vana, così è inutile rivolgersi a sorgenti diverse dal costato di Gesù, per rendere monda la propria vita, se si vuole sperimentare la purificazione del cuore ed il perdono dei peccati. Di questa fonte, Dio Padre dice “Su, venite e discutiamo – dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana” (Is 1,18). Solo il sangue di Cristo, che è il vero Agnello, purifica “la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente” (Eb 9,14). Per questo Giovanni, nell’indirizzare le sue lettere alle sette Chiese dell’Asia, può parlare di Cristo come di “Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Ap 1,5-6). Nel linguaggio biblico, il sangue sta ad indicare la vita, l’intera persona e dire che noi, attraverso la fede, entriamo “nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente” (Eb 10,19-20) significa che è tutta la vita di Gesù, “con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con al sua morte e la sua gloriosa resurrezione di tra i morti e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna” (Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum 4).

Lavare le vesti significa immergersi in Gesù, nella sua vita, nei sentimenti del suo cuore, moti dell’animo, che palpita all’unisono con il Padre, con i pensieri della mente, che ricerca il volere divino, con gli sguardi suoi, assetati di donare salvezza e gioia piena agli uomini. Amare non significa forse lavare la propria vita nel fiume in piena del cuore dell’altro? Gli eletti hanno vissuto l’amicizia con Cristo, hanno fatto della sua morte e resurrezione il modello della propria donazione, la fonte del proprio agire. Essere in Gesù Cristo: è questo il segreto della salvezza, vivere con Lui quanto ci accade, trarre dal suo Cuore la ricchezza dell’amore che ci sostiene e che si traduce in perdono, forza di accoglienza, grazia di ascolto, silenzio di preghiera e parola che cura le ferite del cuore. Significativo è poi notare che i martiri sono attivi in questo processo di rigenerazione e di salvezza, in prima persona, afferma il Testo, lavano le loro vesti e le rendono candide. Questo dice impegno e determinazione, volontà e perseveranza. La salvezza, infatti, è dono di Dio per loro, ma è anche frutto di collaborazione fattiva, perché Dio ci ama, se noi gli permettiamo di amarci, Lui ci salva, se noi lasciamo che tagli i legacci del nostro peccato e ci faccia vivere con Lui, che ci protegge dai lupi rapaci. Gli eletti sanno che solo il sangue di Cristo, “più eloquente di quello di Abele” (Eb 12,24), li purifica da ogni colpa, li santifica nell’intimo, li rinnova nel cuore, li salva dalla schiavitù del male, li rende giusti e accetti al cospetto del Padre, partecipi della sua grazia, unti della sua forza, irrobustiti dal coraggio del Crocifisso, illuminati dalla luce della sua Pasqua. Il sangue di Gesù è il segno della nostra salvezza, siamo segnati, come gli stipiti delle porte delle cose dove dimoravano gli Ebrei, in Egitto. L’angelo sterminatore, non potrà farci del male, se invochiamo la sua potenza, se ci affidiamo alla sua intercessione, se, imbevuti della sua grazia, imporporati della fonte del suo Cuore, ci presenteremo al Padre, per accogliere il suo perdono.

È Gesù che ci salva, se ci immergiamo nel mistero della sua vita, veniamo purificati, perché è Lui che rinnova la nostra giovinezza. Il Giordano, nelle cui acque il profeta Eliseo mandò Naaman il Siro, perché guarisse dalla lebbra (cf. 2Re 5,1-19) è il segno del costato del Signore, in quella sorgente troviamo grazia, misericordia e perdono e la nostra carne ridiventa come quella di un fanciullo. La salvezza è quindi frutto della collaborazione tra la grazia di Cristo e la nostra accoglienza, solo da queste mistiche nozze nasce la gioia e le nostre famiglie potranno sperimentare la potenza dell’amore che ci rende creature nuove. Il Signore vuole rendere le nostre vesti come quelle di Cristo glorificato, ma è necessario che la nostra vita sprementi la preghiera ed il raccoglimento, la contemplazione ed il silenzio. Dio Padre desidera che noi trasudiamo della potenza della sua grazia, come Gesù, perché i fratelli, come l’emorroissa, possano guarire, per la potenza che misteriosamente ci abita. Quanto è importante, nella nostra vita personale e familiare, riscoprire la bellezza del candore e la grazia della purezza, nelle parole e negli atteggiamenti, nei pensieri e negli sguardi, nel rossore del viso che dice riservatezza e verecondia, pudore e silenzio. È Gesù che ci dona la grazia di non aver paura di essere noi stessi, è Lui che rimuove le brutture del peccato e dona agli sposi cristiani di essere l’uno dinanzi all’altro/a, come Eva di fronte ad Adamo, in quella nudità, che non è vergogna, ma gioia di essere se stessi e di vivere nella complementarietà del dono.

Sotto lo sguardo di Cristo, pastore ed agnello

I salvati, che stanno davanti al trono di Dio, gli prestano servizio e vivranno per sempre, sotto la protezione di Colui che siede sul trono. È Gesù Cristo, infatti, che “stenderà la sua tenda sopra di loro” e, grazia e a Lui, saranno custoditi dalla fame e dalla sete e non “li colpirà il sole né arsura alcuna perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita” (vv. 16-17). Il tempo di Pasqua ci è dato come occasione propizia per lasciare che Cristi sia tutto per noi. Solo Lui può guidarci alle fonti della vita. Guardando Gesù, il Crocifisso – risorto, il Pastore ed Agnello, possiamo sperimentare che sono in Lui tutte le nostre sorgenti e che solo Lui è la fonte delle acque della vita che il nostro cuore ardentemente desidera.




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