Ascensione del Signore – Anno C – 2 giugno 2019

Cristo asceso al cielo, intercede per noi presso il Padre

Ascensione del Signore

di fra Vincenzo Ippolito

Dobbiamo imparare ad essere come Cristo, mediatori di grazia e di bene per le persone a noi care e parlare a Dio di loro, perché riveli il suo volto di misericordia e riempia di bene i loro cuori.

Dalla lettera agli Ebrei (9,24-28; 10,19-23)
Cristo è entrato nel cielo stesso.
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura.
Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.

 

Celebriamo oggi l’Ascensione del Signore, di cui facciamo memoria ogni qualvolta recitiamo il Simbolo della nostra fede – “il terzo giorno è risuscitato dai morti e, asceso al cielo, siede alla destra del Padre e di là verrà a giudicare i vive e i morti” – e la liturgia ci conduce non solo a considerare l’evento celebrato, di cui i testi biblici offrono una descrizione dettagliata, ma anche ad attendere, nella preghiera, il dono dello Spirito, promesso da Gesù, per continuare la missione che Egli ha ricevuto dal Padre. In tal modo l’Ascensione di Cristo è una tappa intermedia nel cammino verso la Pentecoste, perché il Risorto invia lo Spirito che è la forza per l’annuncio del Vangelo tra gli uomini. La liturgia sviluppa questa doppia indole della solennità odierna e ci spinge a rimanere nel cenacolo in attesa di essere rivestiti di potenza dall’Alto.
La pagina evangelica odierna conclude la prima opera di Luca, visto che la pericope liturgica (cf. Lc 24,46-53) raccoglie le ultime parole che il Risorto rivolge alla comunità riunita a Gerusalemme. Dopo aver promesso lo Spirito Santo, anima della missione e forza della testimonianza, “lì condusse verso Betania e, alzate le mani, li benediceva. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo” (vv. 50-51). La Prima Lettura, invece, offrendoci l’inizio del libro degli Atti degli Apostoli, con il proemio rivolto a Teofilo e gli eventi ultimo accaduti prima dell’Ascensione, sembra collegarsi direttamente alla parte finale del Vangelo secondo Luca, di cui il libro è la continuazione, raccontando la corsa della Parola di Dio, attraverso la missione degli Apostoli. In entrambi i brani – in Atti ed in Lc – vediamo una sostanziale coerenza, Cristo promette lo Spirito e ascende in cielo, perché i discepoli continuino la sua missione e annunciano a tutti i popoli la conversione ed il perdono dei peccati. La Seconda Lettura, invece, tratta dall’Epistola agli Ebrei (cf. Eb 9,24-28; 10,19-23), non descrive l’evento dell’Ascensione del Signore al cielo, ma il suo significato per la vita dei credenti. Cristo, afferma l’autore ispirato, è entrato “nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Eb 9,24). È Gesù la via da imboccare, la porta da attraversare, solo seguendo il suo esempio noi avremo in abbondanza la vita, nel tempo e nell’eternità.
La grazia da chiedere al Signore oggi è di attendere il compimento della promessa di Gesù, perché il Paraclito ci renda testimoni della sua Pasqua, consapevoli che il Risorto, alla destra del Padre, accompagna il cammino della Chiesa e infonde nei suoi la forza del Consolatore, perché il seme della sua Parola, caduto nei solchi della storia, produca frutti di vita e di gioia.

Comprendere il senso del mistero celebrato

Dopo che, nelle domeniche del Tempo pasquale, la liturgia ci ha offerto di leggere, come Seconda Lettura, brani scelti tratti dal libro dell’Apocalisse, la Chiesa propone oggi alla nostra riflessione una pericope della Lettera agli Ebrei. Vedendo la citazione riportata in margine ci rendiamo conto che si tratta di un testo composito – cinque versetti del capitolo nono a cui si aggiungono altri cinque versetti del capitolo decimo, non consequenziali con i primi – nel quale l’autore considera le realtà dell’antica alleanza – in questo caso il santuario, luogo dell’incontro di Dio con il suo popolo – come delle figure che trovano realizzazione in Cristo Gesù. Con Lui, infatti, abbiamo la pienezza della grazia e non c’è bisogno di volgere ancora lo sguardo alla legge e ai profeti, come anche alle pratiche cultuali dell’Antico Testamento, perché tutto le promesse sono divenute realtà, nell’incarnazione del Verbo, culminante nella Pasqua del Signore.

Non è semplice comprendere il brano liturgico, visto che, senza leggere l’intero capitolo, facilmente sfugge lo sviluppo dell’argomentazione precedentemente proposta. Siamo arrivati ad una parte della Epistola – che è poi una grande catechesi, rivolta a quanti vengono dall’ebraismo – nella quale l’autore mostra come il sacrificio di Cristo ci renda gradito al cospetto del Padre ed il suo sacerdozio abbia un carattere definitivo, perché unico ed eterno, visto che “può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infetti è sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7,25). Oltre però ad indicare che in Cristo le figure antiche lasciano il posto alla realtà, è anche importante vedere in che modo il Signore crocifisso e risorto, nel mistero della sua consegna, attui la salvezza e la purificazione dei peccati, che i riti antichi manifestavano e mediavano per il popolo d’Israele. A questa esigenza sembra rispondere l’Epistola, perché è necessario spiegare la fede e far vedere i passaggi concreti, attraverso i quali Dio realizza il suo desiderio di rendere partecipi gli uomini del suo disegno di salvezza. Il nostro autore, infatti, sta dimostrando l’efficacia e la definitività del sacrificio esistenziale di Cristo e come, attraverso di Lui, gli uomini abbiano accesso, in maniera permanente, al mistero del Padre e del suo amore. Il vero problema per l’uomo, sembra di poter leggere fra le righe, è la partecipazione alla vita di Dio e Cristo la dona in pienezza, perché Egli è la vita e si dona come vita agli uomini che accolgono la sua testimonianza e credono nel suo nome. Per questo, riprendendo categorie antiche, ma rivisitandole e ricomprendendole alla luce della Pasqua, leggiamo che Cristo “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (vv. 24-27). L’amore che Dio nutre per noi si rende concreto nell’offerta che Gesù fa di se stesso, fino alla morte di croce. Leggendo il sacrificio del Golgota con le categorie culturali dell’Antico Testamento, ci rendiamo conto non solo che il sangue di Cristo è più eloquente di quello di Abele (cf. Eb 12,24), ma che il Signore, risorto e asceso al cielo, ci precede nel santuario del cielo ed è Lui a comparire a nostro favore, dinanzi al Padre. In tal modo, la materia dei sacrifici della nuova ed eterna Alleanza è la vita dell’uomo e Gesù mostra proprio che con la sua carne, presa nel grembo della Vergine Maria, passata attraverso la morte, glorificata nella resurrezione, compare dinanzi a Dio Padre, al fine di presentargli le nostre necessità ed essere mediatore unico ed universale, per quanti si rivolgono con fede a Lui. L’offerta poi della propria vita è compiuta una volta per tutte, visto che “ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (v. 26). Cristo, infatti, non ha bisogno di ripetere la sua offerta, perché non offre dei frutti della terra o dei capi di bestiame, ma se stesso. Per questo, il suo sacrifico è per sempre e la portata salvifica della sua consegna ci ottiene da parte del Padre misericordia e riconciliazione, grazia e pace.

Gesù ci insegna ad offrire al Padre la nostra vita, come “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1) e dobbiamo comprendere, guardando alla Pasqua di Cristo, che nel santuario del cielo, al cospetto del Padre, sussurra al suo orecchio le nostre necessità e gli parla di quello che noi sulla terra viviamo, le gioie ed i dolori del nostro cuore, le pene e le afflizioni del nostro animo, Gesù li conosce e ne parla con Dio, perché il suo Spirito ci rinnovi e ci sostenga sempre. In Cristo, asceso al cielo, la nostra carne, glorificata nella sua resurrezione, trova posto alla destra del Padre e non dobbiamo né misconoscere il nostro corpo, né la realtà umana, perché anche questa nostra carne parteciperà ad un destino di gloria e godrà in eterno del Dio amore eterno. È consolante pensare che Cristo parla di noi al Padre, intercede per noi, presenta i nostri bisogni, mostra le necessità che l’umanità, stanca e afflitta da ogni situazione negativa, si trova a vivere e sopportare, affannosamente. Gesù, asceso al cielo, continua ad essere vivo, perché prega per noi, come continua a vivere nella sua Chiesa, attraverso l’effusione del suo Spirito, che sostiene i credenti nella vita di fede e nella testimonianza da rendere al Vangelo, perché il mondo creda in Lui, che è il salvatore del mondo. Dobbiamo riflettere maggiormente sulla mediazione che Cristo risorto e asceso alla destra del Padre vive, a nostro favore e, al tempo stesso, imparare da Lui che ogni nostra offerta per essere gradita al Padre, deve coinvolgere la nostra vita. Per questo, non dobbiamo offrire a Dio delle cose, perché Egli vuole che la nostra storia manifesti la sua grazia e riveli la potenza della sua misericordia.

L’autore della Lettera agli Ebrei ci chiede oggi di ripensare la nostra vita in termini di offerta e di dono. Non sono le cose che riempiono il cuore delle persone che ci sono accanto, tantomeno regali ed oggetti che doniamo per compiacere gli altri dicono che l’amore è vero. Dinamiche come queste innescano la necessità e la preoccupazione di dover ricambiare la benevolenza ricevuta, non di vivere nella gratuità dell’amore, liberamente elargito e accolto. Gesù ci insegna che entriamo nel cuore dell’altro/a con l’offerta di noi stessi, con l’amore vero, l’affetto sincero, la volontà ferma di essere al suo fianco sempre, di caricarsi delle altrui difficoltà, di ricercare sempre e solo la sua gioia. Non dobbiamo aver paura di comparire, come ci insegna Gesù, al cospetto di Dio e dell’altro/a con le nostre mani vuote, perché ognuno di noi è ricco della sua debolezza che il Signore abita misteriosamente e prodigiosamente trasforma. Nei nostri rapporti, non abbiamo diritti da accampare, né doveri da difendere, perché l’amore è regola e legge a se stesso. Adamo ed Eva avevano paura, dopo il peccato, di farsi vedere nudi dinanzi a Dio, ma noi, sapendo che Egli è “misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore”, non dobbiamo temere nulla, perché Dio è amore e dono, effusione continua di grazia e dono senza misura di benevolenza. Importante poi risulta, volendo applicare l’insegnamento del brano biblico alla nostra vita familiare, ripensare la preghiera, nel rapporto sponsale e con i figli. Se Cristo si presenta al Padre in nostro favore, anche noi dobbiamo presentarci a Lui, portando sempre la vita delle persone che ci sono accanto. Lo sposo non può dividersi, nella sua vita di fede e nella relazione con Dio, dalla sua sposa e viceversa, né insieme possono credere di mettere da parte il loro essere genitori ed i figli che Dio gli ha concesso la grazia di generare, quando si ritagliano del tempo, per stare in preghiera o per partecipare alla Celebrazione Eucaristica. Dobbiamo imparare ad essere come Cristo, mediatori di grazia e di bene per le persone a noi care e parlare a Dio di loro, perché riveli il suo volto di misericordia e riempia di bene i loro cuori.
Comparire in favore dell’altro e al cospetto di Dio è il risvolto della promessa nuziale, perché tutto quello che ciascuno di noi fa, deve essere compiuto a favore del’altro, non per il proprio tornaconto. Gesù ci insegna l’altruismo dell’amore, ci mostra la strada per vivere ed operare, in vista il bene del fratello, per avere a cuore le sue necessità, alleviare le sue pene ed accrescere la sua gioia. Questo non significa assecondare l’altrui egoismo, ma operare per il bene, secondo Dio, di cui lo Spirito ci fa intuire la necessità, perché sia la sua forza divina ad operare in noi.

La nostra salvezza è Gesù

È importante nella Celebrazione odierna, andare al senso recondito del mistero celebrato. Nella professione della nostra fede, quando ripercorriamo le tappe della salvezza, di cui i Vangeli sono una testimonianza imprescindibile, dobbiamo sempre renderci conto che ogni evento operato da Dio incide sulla nostra vita e determina la nostra esistenza concreta, secondo il volere di Dio. Anche con l’Ascensione al cielo del Signore risorto capita lo stesso, perché questo mistero ha una concreta ed efficace ricaduta anche sulla nostra esistenza quotidiana. È proprio quello che l’autore della Lettera agli Ebrei ci propone, attraverso la pericope odierna.
Asceso alla destra del Padre, Cristo intercede per noi ed in nostro favore si presenta a Lui; al tempo stesso però ci ha aperto una strada, non solo ci ha indicato una via. Egli stesso, da buon pastore, ci precede e ci mostra, con il mistero della sua Pasqua, che è possibile vivere nell’obbedienza, diversamente da Adamo, che si ribellò alla parola ricevuta e così, accogliendo il dono di Dio, penetrare nel santuario del cielo, lì dove i progenitori erano stati cacciati. Con Cristo nasce e rinasce la vita, rifiorisce la speranza e la relazione con Dio si riallaccia, per l’offerta del suo sangue, che purifica le nostre colpe e ci rende graditi e giusti al cospetto del Padre. Ecco perché questo discepolo di san Paolo, stilando la sua catechesi, può dire: “Abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Cristo” (Eb 10,19), visto che è Lui che ha riaperto la strada al cielo, “di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro si separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne” (Ef 2,14) e se Dio “pose ad oriente del guardino di eden i cherubini e la fiamma dalla spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita” (Gen 3,24), ora è Cristo stesso che è vita per ogni uomo e si offre come albero che effonde con abbondanza i suoi frutti a quanti credono nel suo nome e lasciano che lo Spirito sia in loro sorgente di gioia perenne. “Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5,1), per questo “abbiamo piena libertà di entrare nel saltuario” e “presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,18). Il discepolo non è più schiavo del peccato, della morte e neppure di se stesso, perché Cristo ha spezzato il giogo che l’opprime e gli restituisce la dignità perduta, la gioia dell’amicizia con Dio.

Se riuscissimo a godere della libertà filiale e a mettere a frutto la grazia della redenzione! Possiamo presentarci al cospetto del Padre, ricchi della grazia che Cristo ci ha donato, della certezza dell’amore che Egli ha riversato nei nostri cuori. Non c’è dono più grande della libertà, che è la conseguenza dell’amore che Dio nutre per noi. L’amore, infatti, ricerca sempre e solo il bene della persona amata, per questo Cristo ha spezzato le nostre catene e ci fa vivere in amicizia con Lui, perché è Lui la nostra libertà, la grazia che Egli è, ci permette di non soccombere al male e di combatterlo, con la certezza di essere vincitori, per virtù di Lui, che ci ha amati. Amare ed essere liberi nell’amore è il segno che siamo maturi nell’affetto e che non ricerchiamo, se non il bene dell’altro/a, la sua gioia e la realizzazione di tutte le potenzialità che gli sono state date da Dio. Tale certezza – la libertà che nasce dall’amore – ci è stata acquistata dal sacrificio di Cristo, dalla sua offerta sulla croce, dal desiderio di essere con noi e per noi sempre. Nel sacramento nuziale, l’uomo e la donna, immersi nel sangue di Cristo, diventano una sola carne e, irrobustiti dal lavacro che sgorga dal costato del Crocifisso, ricevono continuamente linfa nuova, per crescere nel reciproco amore e ricercare l’unità che nasce dalla complementarietà e dalla reciprocità, che l’amore fa nascere e sviluppa, gradualmente. Gli sposi, rafforzati nella volontà di donarsi dalla grazia del sacramento celebrato, sanno gli stipiti delle porte della loro casa sono segnate con il sangue dell’Agnello, evitando che l’angelo sterminatore semini la morte. Essi possono liberamente entrare nel santuario di Dio, presentandosi al Padre, grazie ai meriti di Gesù Cristo.

Seguire la via tracciata da Gesù

Oltre a precederci nel cammino verso il Padre, nel desiderio di prepararci un posto (cf. Gv 14,2), il Risorto è anche “la via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi, attraverso il velo, cioè la sua carne” (Eb 10,20). Nel Vangelo secondo Giovanni, nel clima amicale dell’ultima cena, il maestro aveva detto “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), ora, l’autore dell’Epistola agli Ebrei, soffermandosi maggiormente sul tema Gesù-via, definisce “nuova e vivente” la strada che è Cristo. Mentre, un tempo, la legge dell’Antico Testamento era il percorso per essere felici e giusti, secondo Dio, ora, con la venuta di Cristo ed il mistero della sua Pasqua, è Gesù la strada unica, la porta da attraversare, la grazia da interiorizzare, la luce da accogliere, la gioia che il cuore può e deve far trasbordare. Il confronto, nella vita cristiana, è con Gesù Cristo, è Lui il Maestro da seguire, non solo facendo quello che Lui ha fatto, ma lasciando che lo Spirito ci conformi a Lui, per essere come Lui, sua immagine e somiglianza. Con l’Incarnazione, il Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo e ha inaugurato una via prima non battuta, quella della propria carne. Questo significa che l’uomo, nel relazionarsi con Dio, non deve uscire dalla propria umanità, ma proprio partendo da quello che egli è, può giungere al Padre, passando attraverso l’unica e perfetta mediazione di Cristo. Tutta la vita di Gesù è quindi una sorta di progressiva inaugurazione di una strada a portata di ogni uomo, perché Cristo, facendo propria ogni umana attività, l’ha resa luogo di rivelazione del volto misericordioso del Padre e riflesso della sua grazia. Non dobbiamo quindi scappare da quello che siamo, ma, seguendo Gesù, ci è chiesto di orientare a Dio tutta la nostra vita, per accostarci “con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” (10,22). Gesù ci ha aperto la strada ed ha mostrato in se stesso che tutto l’uomo, perfino il suo corpo, ha un destino di gloria, un futuro di luce.

Dire che Gesù è la via nuova e vivente significa immergersi nel mistero della sua Pasqua ed essere rinnovati dalla grazia del suo sangue. Incamminandosi dietro Lui, con la propria croce, il discepolo scopre che non ci sono vie alternative per sperimentare la salvezza, né scorciatoie per essere felici, ma il Figlio di Dio, nel mistero della sua umanità, è il passaggio obbligatorio, se si vuole veramente trovare la verità di se stessi e la vita in abbondanza. Non sono i riti che ci purificano, né esistono formule che ci assicurino la salvezza a buon mercato. Nel cristianesimo la nostra carne è “il cardine della salvezza”, il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19), da qui dobbiamo partire, se vogliamo veramente sperimentare la potenza rinnovatrice della Pasqua, se desideriamo che l’amore non sia una parola vuota, ma ci conduca ad una continua incarnazione, seguendo l’esempio di Gesù. Egli, infatti, ha santificato ogni realtà umana e ci offre un orizzonte in cui la nostra vita, nascosta con Lui in Dio, raggiunge il suo naturale sviluppo e la sua realizzazione piena. Accogliere Gesù come via significa seguire il suo esempio, nell’amore e nell’offerta, nel sacrificio e nell’obbedienza alla volontà del Padre. Confessare che Lui è il Signore, il Vivente vuol dire che, al di fuori di Lui, non c’è possibilità di vita e si vive nella morte, assecondando il proprio egoismo, che, solo apparentemente, ci conduce alla vera pace. Il Risorto è via nuova rispetto a quella dell’Antico Testamento, alla legge data ai padri e strada vivente perché in Lui tutti vivono, non si tratta di percorrere un selciato, ma di entrare in relazione amorosa e confidente con Lui, vuol dire percorrere Lui, passare su di Lui, entrare nella sua vita, godere della sua pienezza, da cui riceviamo continuamente grazia su grazia.
La famiglia è il luogo dove l’umanità è trasfigurata dall’amore e la grazia dello Spirito trasforma i nostri rapporti, rendendoli partecipi della grazia del Risorto. Tutti siamo, infatti, chiamati a percorrere la via nuova e vivente che è Gesù, facendo spazio allo Spirito e accogliendo, nella nostra fragile carne, la potenza di un amore che ci abita misteriosamente e gradualmente ci trasforma in tempio della gloria di Dio. Dobbiamo far diventare i nostri rapporti luoghi di resurrezione, perché non abbiamo altre strade di santità e di gioia, al di fuori della fedeltà alla nostra vita e alla vocazione che il Signore ci ha donato. Da quello che siamo dobbiamo partire per costruire e realizzare il disegno di Dio, è questa la strada che Gesù ci indica e che, con la forza del suo Spirito, dobbiamo percorrere, per essere veramente felici. Dare carne all’amore è quanto ha fatto Gesù e questa è la chiamata che il Signore ci dona, perché solo la nostra umanità è il vero tempio che Dio sceglie per rivelare la sua santità. È la nostra carne, vivificata dallo Spirito della resurrezione, la pietra scelta ed intagliata che costruirà la Gerusalemme celeste.

La Pasqua di Gesù mostra che la via della croce conduce al Padre, perché la resurrezione è il segno che Dio non ha abbandonato il suo Figlio obbediente fino alla morte e lo ha strappato dalle catene degli inferi e che quanti come Lui accolgono una amore che conduce al dono totale non saranno confusi, né verranno lasciati soli. Al tempo stesso, poi, l’Ascensione dimostra che la strada tracciata da Gesù ha una meta ben definita e che il compimento di ogni umana speranza, del travaglio del nostro cammino di discepoli è la gloria del Figlio, a noi partecipata, per puro dono di grazia da parte della Trinità santa, a coloro che in terra hanno risposto all’amore e hanno seguito in tutto Gesù, offrendo se stessi e permettendo allo Spirito di rendere la propria carne cifra di una amore che tutto trasforma. Gesù, asceso alla gloria del Padre chiede a ciascuno di noi di essere testimone, con la vita, della potenza della Pasqua e di non aver paura di nulla, perché la nostra patria è nei cieli e lì Cristo ci ha preceduto e ci attende.




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