Coppia

di Assunta Scialdone

Se uno va in paradiso e l’altra all’inferno come faranno gli sposi ad essere una sola carne anche dopo la morte?

21 Giugno 2019

coppia

Una giovane donna, sposa e madre, dopo l’ultimo articolo, mi ha sottoposto questo quesito: “Le coppie che avranno un giudizio diverso, uno in paradiso e l’altro all’inferno, come vivranno l’una carne in cielo? È possibile che l’una sola carne possa essere giudicata in maniera differente?”. La domanda non è fuori luogo perché è più immanente di quanto si creda.

Prima di questo quesito posto dalla giovane lettrice dobbiamo chiarire un paio di domande: cos’è l’una sola carne? Cos’è il “noi coniugale”? L’una sola caro racchiude in sé un’unione inscindibile di mente, anima, spirito e corpo sigillata dalla consacrazione divina che passa attraverso le mani del presbitero, mentre pronuncia la preghiera di benedizione sugli sposi imponendo, sulle loro teste, le mani. Il momento della consacrazione matrimoniale è visto dai teologi come una vera e propria epiclesi. Come con l’epiclesi sul pane e sul vino si ha la transustanziazione in Corpo e Sangue di Cristo, in modo simile i due sposi diventano una sola carne. La consacrazione matrimoniale è indelebile: sigilla in eterno. Il termine consacrare è composto da cum, “con”, e sacer, “sacro”, quindi, potremmo tradurlo alla buona con “impastato di Dio”. Questa consacrazione poggia su un’altra: quella battesimale.

Due sposi cristiani che chiedono il matrimonio sono già consacrati mediante il battesimo e quindi sposati con Cristo cioè uniti in maniera indissolubile a Dio. Il giorno delle nozze, dunque, non vengono uniti a Cristo i due battezzati. Ciò che è unita a Cristo in matrimonio è la relazione, il noi coniugale, che i due fidanzati hanno costruito e s’impegnano a continuare a costruire. Il loro amore che dall’Io diventa Noi, viene unita a Cristo attraverso il matrimonio con Lui. Tale matrimonio, che scaturisce dalla consacrazione nuziale del giorno delle nozze, è indelebile proprio come il battesimo. L’indelebilità della consacrazione che non ci consente di essere “sbattezzati” è presente anche nella consacrazione matrimoniale: perciò non si può accedere al divorzio. Questo significherebbe rompere il matrimonio tra Cristo e la sua Chiesa, in quanto sia il battesimo che il matrimonio inseriscono il credente nel matrimonio di Cristo-Chiesa. Gli sposati diventano, in più, i portatori di tale immagine. Quindi i nubendi che chiedono il matrimonio religioso e ricevono la loro consacrazione devono sapere che ciò implica le nozze con Cristo: diventeranno realmente Cristo/Chiesa. Non sono solo un’analogia di tali nozze, ma lo diventano concretamente. Ecco perché la famiglia può essere definita Chiesa Domestica ed ecco uno dei motivi perché nel rito aggiornato del matrimonio sono state inserite le litanie dei santi: si consacra una nuova Chiesa. È da precisare che il “Noi coniugale”, che scaturisce dalla relazione dei due sposi, non abolisce i due “io” cioè l’unicità dei due sposi. Essi diventano una sola carne (nel Noi) portando con sé le loro differenze.

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Se il sacramento del Battesimo è considerato il sacramento della fede per eccellenza e si ritrova, come memoria, all’inizio del sacramento del matrimonio, si deduce che anche in questo ultimo sacramento si presuppone la fede. Qual è, però, questa fede supposta? E, inoltre, un matrimonio celebrato senza fede rende i due una sola carne? È valido? Ci si rende conto che, in una società come la nostra, questi interrogativi risultano fondamentali. In passato, soprattutto nei primissimi secoli, quando una persona riceveva il sacramento del Battesimo, significava che aveva fede in Gesù Cristo, morto e risorto. Oggi, invece, l’aver ricevuto il Battesimo non coincide necessariamente con l’avere fede e ancor meno col praticarla. Ci si rende conto di trovarsi di fronte a due disarticolazioni. La prima tra la fede ed il matrimonio: la secolarizzazione ha portato a concepire la fede e il matrimonio come due ambiti indipendenti. La seconda tra il tema della fede e quello del sacramento che tende a ridurre l’essenza del sacramento alla sua validità soffocando la fede, situazione che, inevitabilmente, può condurre a ridurre il sacramento ad un’azione automatica legata, a volte, ad una sorta di “rituale magico di buon augurio”. Questa situazione, per quanto concerne il sacramento del matrimonio, risulta ancora più complessa in quanto esso risulta una realtà sia della creazione che della redenzione, naturale e soprannaturale. Per meglio comprendere a che punto del sacramento interviene la fede, è necessario ricordare la distinzione tradizionale tra il sacramentum, che è il segno posto con l’intenzione di fare ciò che vuole fare la Chiesa, la res sacramentum cioè l’effetto oggettivo del segno compiuto che include la sua validità senza ridursi ad essa, ed infine la res, ossia la Grazia ricevuta dal soggetto, consistente nella fruttuosità del sacramento. Dobbiamo precisare che i sacramenti sono doni di Cristo e quindi l’esistenza del sacramento non può dipendere da un dato mutevole come il grado di fede del soggetto. La dicitura ex opere operato del Concilio di Trento si riferisce all’azione redentrice di Cristo: ex opere operato Christi.

 

Ecco perché l’attenzione della Chiesa consiste nel cercare di realizzare, attraverso il sacramento, un contatto oggettivo con l’opera redentrice di Cristo. In poche parole, cercare di “impastare” la vita del credente con quella divina. Da ciò si comprende anche la differenza tra i “sacramenti” della Legge Antica, la cui efficacia dipendeva dalla fede del soggetto, e quelli della Legge Nuova, la cui efficacia dipende da Cristo. Si deduce che reintrodurre la fede personale del soggetto come condizione di validità del sacramento significherebbe tornare indietro e perdere la dimensione cristologica, il carattere gratuito ed immediato dei doni di Dio. Il sacramento, oltre a portare frutto, rimane un segno reale dell’amore di Dio anche quando l’uomo non risponde a questo invito. Resta, però, l’anomalia della non concordanza tra validità e fruttuosità.

 

Un dono presuppone accoglienza, risposta, consenso. È pur vero che un sacramento esprime tutta la sua validità soltanto quando porta frutto nel soggetto e nella Chiesa. Anticamente, prima della riforma protestante, i sacramenti erano concepiti unitariamente attingendo la loro efficacia dai meriti di Cristo e ordinati a portare frutti di grazia. La teologia post-tridentina, nel rispondere a Lutero, smarrisce la correlazione tradizionale tra fede e sacramento perché preoccupata di rimanere nell’ambito della validità oggettiva. Ponendosi in questa nuova ottica, i percorsi di preparazione al matrimonio (che originariamente consistevano nel solo colloquio del celebrante con i fidanzati) si sono strutturati, un po’ alla volta, intorno al minimo indispensabile richiesto per la validità del sacramento nascondendosi dietro il carattere naturale e non vocazionale del matrimonio. Ciò ha posto ai margini la fruttuosità legata a questo sacramento. Dal post-Vaticano II, la preoccupazione di riportare in primo piano l’aspetto soprannaturale del matrimonio accordando più spazio alla fede come elemento costitutivo di tale sacramento, ci ha condotti ad una serie di riflessioni fino alla convocazione di un Sinodo per riscoprirne la fruttuosità.

 

Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, al n. 68, dà una risposta estremamente chiara: «(…) Nella celebrazione del sacramento una attenzione tutta speciale va riservata alle disposizioni morali e spirituali dei nubendi, in particolare alla loro fede (…) La fede, infatti, di chi domanda alla Chiesa di sposarsi può esistere in gradi diversi ed è dovere primario dei pastori di farla riscoprire, di nutrirla e di renderla matura. Ma essi devono anche comprendere le ragioni che consigliano alla Chiesa di ammettere alla celebrazione anche chi è imperfettamente disposto. Il sacramento del matrimonio ha questo di specifico fra tutti gli altri: di essere il sacramento di una realtà che già esiste nell’economia della creazione, di essere lo stesso patto coniugale istituito dal Creatore «al principio». La decisione dunque dell’uomo e della donna di sposarsi secondo questo progetto divino, la decisione cioè di impegnare nel loro irrevocabile consenso coniugale tutta la loro vita in un amore indissolubile ed in una fedeltà incondizionata, implica realmente, anche se non in modo pienamente consapevole, un atteggiamento di profonda obbedienza alla volontà di Dio, che non può darsi senza la sua Grazia. Essi sono già, pertanto, inseriti in un vero e proprio cammino di salvezza, che la celebrazione del sacramento e l’immediata preparazione alla medesima possono completare e portare a termine, data la rettitudine della loro intenzione».

 

La teologia post-tridentina ha smarrito la correlazione tradizionale tra fede e sacramento perché eccessivamente preoccupata di rimanere nell’ambito della validità oggettiva giuridico-naturale. Da qui la tendenza a considerare il sacramento del matrimonio una realtà completamente immanente (terrena) e per nulla aperta alla Vita eterna: la res è una realtà che rimane e non può svanire nel nulla. È la Grazia della res che rende i due una sola carne: dunque finisce il segno (sacramentum), finisce anche la res Sacramentum ma la Res (l’essere una sola carne, il “Noi coniugale consacrato”) permane in eterno. È da notare come proprio la vicenda processuale che ha portato alla canonizzazione dei coniugi Martin, porta in sé un aspetto innovatore rispetto a questo tema. È risaputo, infatti, che Paolo VI volle per essi un unico processo sottolineando l’una sola carne racchiusa nel sacramento del matrimonio. Si tratta, a tutt’oggi, di un unicum nella storia della Chiesa. Un’iniziativa non secondaria e carica di un significato eccezionale che va a sottolineare la permanenza della Res nel regno dei cieli.

 

Alla luce della Res, che rimane in eterno, interroghiamo la scrittura per poter abbozzare una risposta ipotetica al quesito iniziale. San Paolo, in 1Cor 7, 12-14 afferma: «Agli altri dico io, non il Signore: se un nostro fratello ha la moglie non credente e questa consente a rimanere con lui, non la ripudi; e una donna che abbia il marito non credente, se questi consente a rimanere con lei, non lo ripudi: perché il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente». Dalle parole di Paolo si potrebbe dedurre che se un coniuge è “santo” è reso “santo” anche quello meno “santo”. Stando così i fatti non dovremmo trovarci di fronte ad un giudizio differente.

 




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